Quantcast
Channel: Perù – Pagina 149 – eurasia-rivista.org
Viewing all 68 articles
Browse latest View live

Lo sviluppo cileno sotto l’ombra dei Chicago Boys

$
0
0

A pochi giorni dalla commemorazione dei dieci anni dall’attentato alle torri gemelle,  ci basta sfogliare poche pagine a ritroso per far riaffiorare nella mente un altro 11 settembre. Era il 1973 e nel profondo sud dell’America Latina prendeva vita una delle dittature più sanguinarie del ventesimo secolo. In Cile si consumano le ultime ore del Governo Allende, ma non si tratta della fine politica di un mandato, ma di una guerriglia urbana condotta dalle truppe in divisa cilena – ma con cuore a stelle e strisce – guidate dal generale Pinochet intenzionato ad assumere con la forza la guida del Paese. Ovviamente, come nella gran parte dei colpi di Stato, l’idea si tramuta in realtà e la Moneda cade sotto i colpi dell’artiglieria come Salvador Allende che non sopravvive a quest’ennesimo gesto di idiozia. Da questa data la Storia può riassumersi con dei freddi numeri: 17 anni di dittatura militare, 37000 cittadini oggetto di reclusioni clandestine e torture, oltre 3000 cittadini uccisi o scomparsi (dati aggiornati dalla commissione Velech nel 2011) per non parlare dei capitali depredati dal Generale e dai suoi protettori e protetti durante questo periodo. Nulla può risarcire tanta sofferenza, neanche la giustizia che è riuscita a concedere a Pinochet di vivere fino all’ultimo dei suoi giorni da uomo libero.

Dopo 21 anni dalla dittatura i numeri ci parlano di un repubblica liberale che ha cavalcato un boom economico di grande importanza e che porta il Cile alle porte del club delle Economie Emergenti del ventunesimo secolo: tasso di crescita del PIL del 5,30%, inflazione all’ 1,70%, tasso di crescita della produzione industriale del 3,20%, bilancia commerciale in netto miglioramento grazie all’aumento delle esportazioni. Per quest’ultimo punto, va menzionata l’importanza strategica di diversificare la propria produzione volta all’esportazione. Ciò ha reso possibile lo sviluppo di nuovi settori produttivi senza prescindere dalla crucialità del settore minerario che rappresenta ancora oggi la principale fonte di capitale straniero. Difatti la crescita economica cinese è stata accompagnata da un aumento della richiesta di rame – per il quale il principale esportatore è il Cile – portando il colosso cinese quale primo acquirente mondiale delle risorse minerarie cilene. Per capire come la diversificazione sia la prerogativa dell’economia cilena basta osservare la composizione del PIL cileno già nel 2008: 51% servizi, 35,5% industria, 5,5% agricoltura.

A questo punto viene spontaneo cercare con stupore i motivi delle proteste popolari – prima studentesche, ma ben presto rinvigorite dal fluire di altri malumori sociali – che oggi interessano la capitale cilena e non si fa fatica a scoprire come il passato decida il volgere del presente. Si contesta il presidente Piñera, ed un’attenta analisi fa capire che non si tratta di una contestazione riconducibile a mere ideologie politiche. Piñera è semplicemente il soggetto politico attuale, ma la contestazione nasce da un’amministrazione politica passiva che ha inizio nel 1990 e che si è trascinata sino ad oggi. Infatti, tutti i Governi che si sono susseguiti in Cile, non hanno apportato alcun cambiamento importante al lascito politico della dittatura di Pinochet. Se negli anni ’80 si è dato il via ad un’apertura selvaggia dei mercati e ad una conseguente privatizzazione delle attività principali della nazione, questa condizione non ha subito alcuna moderazione dagli anni ’90 in poi. Pinochet affidò le sorti economiche del Paese ai Chicago Boys – giovani economisti cileni istruiti presso l’Università di Chicago e fortemente influenzati dalla dottrina capitalistica e del libero mercato – che ben presto svilupparono una legislazione liberista e favorevole ad una forte privatizzazione di tutti i settori dell’economia cilena e senza risparmiare il sistema pensionistico e scolastico.

Prendiamo in esame quattro tematiche critiche nell’attuale Cile: il sistema scolastico, la condizione dei minatori e del mercato del rame, il sistema pensionistico e la “Ley Antiterrorista”.

 

Gli studenti sono stati tra i primi a manifestare la loro esasperazione per un sistema scolastico iniquo. In Cile il tasso di alfabetizzazione si attesta sul 95,7% – uno dei più alti in Sud America – ma se si va ad analizzare nel dettaglio si scopre che più il livello d’istruzione si alza, più il livello sociale degli studenti è alto. In poche parole vige un sistema che privilegia lo strato sociale più adagiato economicamente. La causa è riscontrabile in una legge introdotta negli anni ’80 che deregolamenta di fatto il sistema scolastico (LOCE – Ley Orgánica Costitucional de Enseñanza). La sua gestione viene affidata agli enti locali che non riescono a finanziare le scuole – solo per un 25% coprono direttamente i costi – e perciò si affidano a tasse scolastiche molto alte. Tale meccanismo agevola le aziende creditizie che o concedono prestiti a tassi molto alti alle famiglie per sostenere gli studi dei propri figli, o acquisiscono di fatto le scuole privatizzandole e rendendo l’accesso inaccessibile ai ceti meno ricchi della popolazione. In definitiva uno studente universitario di ceto medio-basso o abbandona gli studi per gli inaccessibili costi o, una volta laureato, si ritrova con un debito non indifferente sulle spalle. Da qui l’esasperazione degli studenti che chiedono un risanamento della scuola pubblica.

 

A tale protesta si sono uniti i lavoratori delle miniere che per lo più vivono in condizioni precarie senza garanzie ne dal punto di vista salariale – la retribuzione è nettamente inferiore a quella dei lavoratori a tempo indeterminato – ne dal punto di vista sanitario e di accesso all’istruzione – sia per loro che per i propri figli. Si può dire che il settore minerario è stato quello che maggiormente, dal ’73 ad oggi, ha subito una forte privatizzazione portando il 70% delle risorse di rame, in mano ai privati relegando alla Codelco (Corporaciòn del Cobre) il rimanente 30%. Tali dettagli portano ben presto ad una più profonda analisi del PIL, che nasconde una redistribuzione delle ricchezze iniqua e inadatta per uno sviluppo reale dell’intera Nazione.

Resta emblematica, parlando del settore minerario, la sorte dei 33 minatori che poco più di un anno fa hanno tenuto con il fiato sospeso il mondo intero. Ancora oggi tutti ricordiamo il loro salvataggio dopo 69 giorni di “prigionia” forzata nelle profondità della miniera di San Jose, ma non tutti sanno che gli stessi minatori – dei quali la metà risulta oggi disoccupata e solo 4 sono rientrati a lavorare in una miniera – sono in causa con lo Stato per non aver ricevuto la pensione di 430 $ tanto pubblicizzata a livello mediatico da Piñera subito dopo il salvataggio.

 

Ed eccoci alla terza tematica: il sistema pensionistico. Le proteste degli ultimi due mesi volgono la loro attenzione anche alla necessità di un sistema pensionistico pubblico e alla rimozione di privilegi fiscali per la classe più agiata della popolazione. Anche qui ci troviamo dinanzi ad un lascito dei Chicago Boys che nel 1980 introdussero il Sistema a Capitalizzazione Individuale. Con tale sistema ogni lavoratore va a formare la propria pensione futura versando obbligatoriamente un 10% del proprio salario – di per sè non alto – in un conto apposito presso un istituto assicurativo privato. Il lavoratore ha facoltà di versare un ulteriore 10% e di scegliere il proprio AFP (Amministratore dei Fondi Pensione). L’AFP reinveste il deposito in azioni – rispettando vincoli riguardanti il rischio e di diversificazione del portafoglio – andando in concreto a generare un flusso di profitti per la stessa agenzia assicurativa. Inoltre, come in ogni libero mercato, si genera un’alta concorrenza tra le varie agenzie che per conquistare nuovi clienti, propongono margini di profitto poco veritieri.

 

Per concludere va citata la Ley Antiterrorista voluta da Pinochet e che colpisce la popolazione indigena Mapuche cioè il 25% della popolazione cilena. Con tale legge il Generale voleva colpire gli indios che rivendicavano i propri diritti. Dal 1990 ad oggi, la passività dei Governi cileni ha fatto si che molti processi si concludessero in maniera ingiusta per gli indios che oggi, esausti, reclamano un trattamento innanzi alla legge, identico a quello destinato al 75% dei loro connazionali.

 

In definitiva, allo stato attuale si pongono due scenari possibili di fronte al sistema socio-politico cileno:

  • un processo riformista volto ad accompagnare la popolazione in uno sviluppo, si sostenuto, ma coadiuvato da una maggiore equità nella distribuzione dei profitti che ne scaturiscono;
  • un processo rivoluzionario destinato a cambiare un sistema economico e politico iniquo per la popolazione.

Ciò che accadrà dipenderà esclusivamente dalla reazione della classe politica alle esigenze reali dei cileni. Se continuerà a sopravvivere il sistema legislativo ereditato dalla dittatura di Pinochet, il secondo scenario sarà il più plausibile ed il meno auspicabile dato che comporterebbe l’arresto dello sviluppo economico sin qui ottenuto. Per il Cile è giunto il momento di chiudere definitivamente la porta del passato, per poter godere pienamente del florido futuro che potenzialmente lo attende.

Come disse Salvador Allende l’11 settembre del 1973: “…il domani sarà del popolo. Sarà dei lavoratori. L ‘umanità avanza verso la conquista di un mondo migliore…”.

 

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 


Informazione e tecnologia: le nuove frontiere del warfare

$
0
0

 

Informazione e guerra sono da sempre profondamente legate tra loro: l’informazione è comunicazione della guerra, ma è anche comunicazione in guerra, la ricerca di dati sensibili che possano garantire un netto vantaggio sul nemico. Carlo Jean ha parlato di informazione come “moltiplicatore di potenza”: informazione, nel Terzo Millennio, è arma e terreno stesso di scontro, il web è teatro di attacchi e contrattacchi, semplici virus da computer sono in grado di paralizzare e preoccupare interi Stati i quali, a fianco dei tradizionali eserciti di professionisti in divisa, cominciano a valutare l’ipotesi di schieramento di truppe di hacker (spesso poco più che ragazzi), capaci di mandare in tilt i sistemi informatici del nemico. La geostrategia globale deve dunque prepararsi ad affrontare le “nuove guerre” e, con esse, nuovi paradigmi e nuove dottrine geopolitiche.

 

 

Definire l’Information Warfare

 

Entrando nel vivo del XXI secolo, ritorna spesso la nozione di “guerre moderne” e, andando ad approfondire la tematica, ci si rende conto di come ci sia un concetto particolarmente ricorrente, divenendo oggetto di studi, analisi ed approfondimenti da parte sia dei teorici di geopolitica sia del mondo della difesa e degli studi strategici: ci si riferisce al cosiddetto Information (based) Warfare.

L’ex Sottosegretario alla Difesa americana e supervisore del settore C4 (Comando, Controllo, Comunicazioni e Computer), Emmet Pajge, ha definito l’Information Warfare come quelle «azioni poste in essere per conquistare la superiorità dell’informazione a supporto delle strategie militari nazionali, andando a colpire l’informazione e i sistemi militari avversari e provvedendo a proteggere e difendere i propri sistemi e informazione» (cfr. Rapetto e Di Nunzio, Le nuove guerre, 2001). Tale definizione viene compendiata dallo “US Army Field Manual (FM) 100-6, Information Operations”, che contempla anche «la protezione e la difesa di tutti i processi e flussi basati sull’informazione».

Non mancano le “definizioni operative”, quelle, cioè, che puntano a sottolineare vantaggi e svantaggi dell’uso concreto di tale approccio. Ad esempio, l’Information Resources Management College ha definito l’Information Warfare «una metodologia di approccio al conflitto armato, imperniata sulla gestione e l’uso dell’informazione in ogni sua forma e a qualunque livello, allo scopo di assicurarsi il decisivo vantaggio militare» (cfr. Rapetto e Di Nunzio, op.cit.). Più precisamente, secondo lo US Joint Staff, «è quell’azione intrapresa per raggiungere la superiorità di informazione a sostegno della sicurezza nazionale, andando ad influire sulle informazioni del nemico, sui sistemi informativi e sui network computerizzati, e, contemporaneamente, rinforzando e proteggendo le proprie informazioni, i propri sistemi informativi e i propri network computerizzati» (cfr. Bellamy, What is Information Warfare?, 2001).

 

L’avvento della “Terza Ondata”: elementi distintivi

 

Trovare una definizione unanimemente condivisa è tuttavia piuttosto difficile, in quanto vige un certo scetticismo circa l’efficacia, se non addirittura l’esistenza stessa, dell’Information Warfare. Questo perché siamo ancora agli inizi di quella che i Toffler hanno definito “la Terza ondata”, vale a dire l’avvento dell’Era dell’Informazione. Gli elementi principali che la caratterizzano, spesso combinati ed interagenti tra di loro, sono comunque già facilmente identificabili e possono essere così sintetizzati: 1) semiconduttori avanzati, 2) computer, 3) fibre ottiche, 4) tecnologia cellulare, 5) satelliti, 6) network, 7) crescente interazione uomo-computer, 8 ) trasmissione e compressione digitale dei dati, qualunque sia l’attività o l’ambito di riferimento.

Presa singolarmente, ogni categoria è in grado di incrementare notevolmente le capacità dell’uomo di comunicare, superando gli ostacoli rappresentati essenzialmente dalle distanze spazio-temporali e dalla diversità di linguaggi e culture; combinate insieme, queste categorie hanno un impatto decisivo non solo sul piano militare, ma anche su tutte le attività umane quotidiane. Questo perché esse favoriscono una maggiore velocità nella trasmissione e gestione delle informazioni, la possibilità di scambiare pacchetti di dati sempre più pesanti – e, dunque, completi – e, soprattutto, esse permettono la cosiddetta “democratizzazione” dell’informazione: le nuove tecnologie, cioè, hanno ampliato i canali e le possibilità di accesso ai sistemi informatizzati e di informazione, che possono dunque essere usati e gestiti da un numero sempre maggiore di utenti.

Ne consegue che i principali paradigmi geopolitici stanno ormai cambiando ed il coinvolgimento di concetti come “informazione”, “sistemi informativi” e “network” fa sì che la guerra in sé non sia più limitata solamente all’ambito militare propriamente detto, ma stia diventando più “globalizzata”, andando ad intaccare anche altri ambiti della vita umana, dall’economia alla cultura, alle mode ed abitudini dei giovani del XXI secolo.

 

Nuovi paradigmi organizzativi: il Network-centric Warfare

 

A cambiare è innanzitutto il paradigma organizzativo e network è la parola d’ordine: la Rivoluzione dell’Informazione ha incrementato l’importanza di tutte le forme di network, da quelle sociali a quelle economiche, da quelle delle comunicazioni a quelle delle istituzioni (che stanno assumendo sempre più strutture a rete, piuttosto che gerarchizzate). Una delle conseguenze dell’Era dell’Informazione, infatti, è proprio l’erosione delle gerarchie e dei confini classici entro cui sono state costruite le varie istituzioni nel corso della storia.

Una struttura a rete, inoltre, rende sempre più difficile e complessa la distinzione tra contesto esterno e contesto domestico: oggi, come mai prima d’ora, le minacce alla sicurezza interna di uno Stato possono (e devono) essere lette anche come potenziali segnali d’allarme di una più ampia minaccia esterna. I concetti di “crimine” e “guerra” si intrecciano sempre di più, fino ad offuscare significati e dettagli distintivi: si pensi, a titolo esemplificativo, a come spesso il traffico di droga venga collegato al finanziamento di attività terroristiche, rendendo così la lotta contro i traffici di droga un elemento fondamentale della lotta globale al terrorismo.

Ne consegue che al concetto di Information Warfare si affianca quello di Network-centric Warfare: da un lato, l’informazione diventa sia obiettivo sia strumento, dall’altro, le strutture e le istituzioni coinvolte sono sempre meno gerarchizzate. Secondo la definizione dell’Ufficio per la Trasformazione delle Forze del Pentagono, «Il Network-centric Warfare rappresenta un potente insieme di concetti riguardanti il combattimento in guerra e associati alle capacità militari che permettono ai combattenti di ottenere pieno vantaggio da tutte le informazioni disponibili e sfruttarle in modo rapido e flessibile. I principi del Network-centric Warfare sono così sintetizzabili: una forza con una struttura a network, che migliora lo scambio di informazioni; questo scambio, a sua volta, accresce la qualità dell’informazione e diffonde un maggiore senso di consapevolezza della situazione in cui si è coinvolti; tale consapevolezza favorisce la collaborazione e la sincronizzazione, aumentando la sostenibilità e la velocità dei comandi; tutto ciò, a sua volta, incrementa considerevolmente l’efficacia delle missioni» (Luddy, The challenge and promise of Network-centric Warfare, 2005).

 

Martin Libicki e le “nuove guerre”

 

Molti analisti hanno studiato (e continuano tuttora a farlo) le conseguenze che la nuova Era dell’Informazione e del Network-centric Warfare avranno sulla condotta delle operazioni militari, ed il risultato è stata, come si accennava all’inizio, la formulazione di una serie di “nuove guerre”, che dovrebbero caratterizzare nel futuro prossimo il mondo militare ed il modo di condurre le operazioni. La categorizzazione che viene ripresa più o meno da tutti gli esperti è quella proposta dal professor Martin C. Libicki dell’Institute for National Strategic Studies, il quale identifica ben sette forme di Information Warfare: vediamo di analizzarle una per una, integrando ciascuna categoria con definizioni, concetti correlati ed eventuali esempi.

 

1. Command-and-Control Warfare (C2W): ha come obiettivo principale i centri C2 (Comando e Controllo) del nemico. Il concetto di C2 indica la capacità dei comandanti militari di gestire e coordinare le forze schierate sul campo. Nell’era dell’Information Warfare, al concetto di C2 viene affiancato quello di C4 (Comando, Controllo, Comunicazione e Computer): questo per sottolineare l’importanza delle comunicazioni nella fase di coordinamento delle forze, comunicazioni che, oggi, avvengono sempre più grazie a e per mezzo di sistemi computerizzati. Le due principali attività del C2W sono l’antihead, che punta a colpire la testa del nemico, e dunque il centro di comando, e l’antineck, che mira invece al collo, andando cioè ad interrompere le comunicazioni tra il comando e le forze del nemico. A nostro avviso, considerato quanto affermato in precedenza relativamente al concetto di network e alle strutture sempre più a rete e meno gerarchizzate, è molto probabile che si assisterà principalmente ad attività antineck, combinate con altre forme di guerra, prime fra tutte l’Hacker Warfare e l’Electronic Warfare.

 

2. Intelligence-based Warfare: mira alla protezione o distruzione, a seconda dei casi, dei sistemi che consentono di ottenere informazioni strategicamente vitali. L’importanza dell’intelligence militare è storicamente nota, basti pensare alla massima di Sun Tsu «conosci il nemico come conosci te stesso». I servizi di informazione conducono una guerra parallela a quella combattuta sul campo di battaglia, cercando (oggi grazie soprattutto alle moderne tecnologie informatiche e satellitari) informazioni utili per le proprie forze e bloccando un deflusso contrario, verso l’avversario. Il tutto per assicurarsi quella superiorità cognitiva in grado di agire come vero e proprio “moltiplicatore di potenza”.

 

3. Electronic Warfare: sfrutta essenzialmente tecniche radioelettroniche e di crittografia. Non si ritiene opportuno addentrarsi qui in specificazioni tecniche, è tuttavia sufficiente menzionare le cosiddette Active Denial Technologies per esemplificare questa tipologia di combattimento: queste tecnologie rientrano nella categoria delle “armi non letali” e si basano essenzialmente su impulsi elettromagnetici di potenza variabile, in grado di bloccare l’avanzata del nemico ancora a lunga distanza. Armi, queste, che stanno prendendo piede soprattutto nella lotta alla pirateria marittima, evitando così lo scontro diretto e, dunque, riducendo il pericolo di vittime.

 

4. Psychological Warfare, la cosiddetta “conquista dei cuori e delle menti”, ossia l’uso dell’informazione per plasmare a proprio vantaggio le opinioni e le menti, sia sul fronte interno che su quello esterno (nemico o neutrale). È la classica guerra psicologica, combattuta principalmente a suon di propaganda ed altre azioni volte a influenzare le opinioni, le emozioni e gli atteggiamenti di un gruppo “obiettivo”, che può essere sia amico, sia nemico, sia neutrale. Oggi questa tipologia di guerra viene chiamata anche “Infowar”, per sottolineare proprio l’importanza tattica e strategica dell’uso dell’informazione per scopi bellici. Gli esempi, in questo caso, abbondano, spaziando dalla nota “Campagna contro gli Scud” della Guerra del Golfo del 1991, alle tecniche di demonizzazione del nemico, usate, via via, contro il regime di Saddam Hussein, durante la crisi umanitaria dei profughi kosovari per promuovere la guerra contro Slobodan Milošević o, più recentemente, contro il leader libico, Mu’ammar Gheddafi.

 

5. Hacker Warfare: l’esercito di combattenti si identifica in un gruppo di esperti informatici che, per mezzo di varie tecniche di “hackeraggio”, va a colpire i sistemi informatizzati nemici, modificando, danneggiando o cancellando pacchetti dati di notevole importanza. Già nella primavera del 2007 il mondo cominciò a tremare di fronte al pericolo di una guerra combattuta attraverso i computer, quando l’Estonia venne duramente colpita nel suo apparato informatico, molto probabilmente per mano russa: i siti web del Parlamento, della Presidenza, di quasi tutti i Ministeri, delle principali banche, testate giornalistiche e televisioni nazionali vennero bloccati da una serie di attacchi cibernetici, tanto da portare il Paese ad appellarsi all’art. 5 del Trattato NATO. Oppure pensiamo al caso Stuxnet, che da circa un anno impegna analisti ed esperti informatici. O ancora al cosiddetto Syrian Electronic Army, che la scorsa estate, nel pieno delle rivolte in Siria, ha condotto una serie di attacchi ad alcuni siti di “propaganda anti-governativa”, lanciando azioni di defacing, modificando, cioè, i contenuti delle pagine web considerate fonte di disinformazione contro il regime di Assad.

 

6. Economic Information Warfare: mira a bloccare i canali di comunicazione e di informazione di rilevanza economica nemici, al fine di garantire la propria supremazia. È noto a tutti come in guerra anche le attività produttive del tutto normali in tempo di pace assumano particolare rilevanza strategica: dall’industria alimentare a quella meccanica, si passa oggi a tutte quelle attività di analisi e scambio di informazioni economico-finanziarie di vitale importanza per un Paese. Ancora una volta, il principale terreno d’azione è il web che, da un lato, ha modernizzato, velocizzato ed ottimizzato i sistemi di gestione dati, ma, dall’altro, li ha resi anche più vulnerabili ad attacchi di nuova generazione (si pensi ad un hacker che violi i database di una banca o ad un attacco elettromagnetico in grado di distruggere potenti calcolatori e tutti i dati in essi contenuti).

 

7. Cyberwarfare, che Libicki definisce come «una pesca miracolosa di scenari futuristici», dal momento che questa categoria rappresenta una sintesi di tutti i possibili scenari bellici che contemplano l’uso delle più moderne e sofisticate tecnologie informatiche, satellitari ed elettroniche.

 

Conclusioni

 

È ancora troppo presto pensare che le guerre non debbano più essere combattute sul campo: sarebbe uno scenario futuristico pressoché utopistico, dove l’idea di un combattimento a “morti zero” diventerebbe realtà. Occorre tuttavia accrescere la consapevolezza che, accanto alla guerra combattuta sul terreno, se ne svolgono ormai altre in parallelo: quella dell’intelligence, quella della propaganda e delle operazioni psicologiche, quella combattuta sul web ed, ultimamente, attraverso i social network. Una consapevolezza che è necessaria per sopravvivere, dal momento che la storia ha dimostrato troppe volte come sia difficile sopravvivere alle rivoluzioni degli affari militari senza uno spirito di adattamento e sperimentazione.

 

 

* Elisa Bertacin è laureata in Scienze internazionali e diplomatiche, presso la Facoltà “R. Ruffilli” di Forlì (Università di Bologna), con una tesi in Studi strategici. Dopo aver frequentato alcuni corsi di cooperazione civile-militare presso il Multinational CIMIC Group ed il Centro Alti Studi per la Difesa, ha conseguito il Master di secondo livello in “Peacekeeping & Security Studies” presso l’Università Roma Tre. Ha effettuato un periodo di ricerca presso il Centro Militare di Studi Strategici ed attualmente collabora con la sezione italiana del Mediterranean Council for Intelligence Studies e con OMeGANews, giornale dell’Osservatorio Mediterraneo di Geopolitica ed Antropologia.

Kosovo: ancora fumo dalla polveriera d’Europa

$
0
0

27 luglio, due giornate di tensioni sui valici di confine Bernjak e Jarinje nella zona nord del Kosovo, municipalità di Mitrovica, si concludono con l’esplosione di un ordigno e scontri che provocano la morte di un poliziotto kosovaro e il ferimento di altri tre. La tensione è salita in seguito alla decisione di Pristina di inviare ufficiali di reparti speciali della polizia kosovara a prendere controllo dei valici nord 1 e 31 che collegano il Kosovo con la Serbia. La decisione ha scatenato la risposta della minoranza serba maggioritaria nell’area, che non riconosce l’autorità di Pristina e continua a fare riferimento alle istituzioni serbe che svolgono de facto la maggior parte delle funzioni amministrative sul territorio. A due mesi di distanza la situazione rimane “pacifica ma instabile” come le organizzazioni internazionali e i media amano dipingerla. Instabilità dimostrata dagli incidenti incorsi negli scorsi giorni quando uomini della Kfor hanno aperto il fuoco sui manifestanti serbi che si sono opposti allo smantellamento di uno dei blocchi stradali da parte delle truppe NATO. In linea con il controverso accordo temporaneo raggiunto il 16 settembre, dopo due mesi di spolette diplomatiche e tentativi di mediazione della NATO e dell’ EU, lo staff della missione civile europea EULEX ha preso in carico la gestione delle operazioni di frontiera affiancando il personale kosovaro sotto la tutela delle truppe della Kfor, con parziale soddisfazione di Pristina e il disappunto di Belgrado. Nonostante gli appelli a smantellare le barricate, la comunità serba continua a bloccare la viabilità dell’area a nord del fiume Ibar impedendo la riapertura dei valici 1 e 31. “Questa e’ la nostra terra, il nostro territorio” dichiara uno dei manifestanti al quotidiano B92. “Quando posizioni un ufficiale di frontiera, è come dispiegare una bandiera. E prima che te ne renda conto avrai un cosidetto Kosovo imporre legge e la gente qui sarà circondata da qualcosa che assomiglia allo stato del Kosovo! Loro non possono semplicemente accettare questo! […] Nessuno al mondo può dire a questo popolo serbo di cedere, accettare il Kosovo indipendente e andare a casa. Non accadrà mai, non lo faranno” spiega il capo negoziatore Borislav Stefanovich.

La decisione di Pristina rappresenta l’attuazione della decisione di adottare il principio di reciprocità in materia commerciale nei confronti della Serbia e della Bosnia ed Erzegovina. I due stati, infatti applicano un embargo sulle merci kosovare dal 2008, data dell’unilaterale dichiarazione di indipendenza, rifiutandosi di riconoscere i timbri doganali riportanti la dicitura “Republica del Kosovo”, misura che Belgrado si è ripetutamente rifiutata di ritirare nonostante le pressioni di Pristina nell’ambito del dialogo mediato dall’Unione Europea.

Ma l’atto di Pristina trova evidentemente ragione nella volontà di affermare la sua autorità nella zona nord del paese, dove la maggioranza serba si rifiuta di riconoscere la legittimità del Kosovo e chiede di fare parte della Serbia. L’azione è il tentativo di cambiare la situazione sul terreno, con lo scopo di avere ulteriori ragioni da presentare sul tavolo del dialogo con Belgrado.

Il caso diviene nuova miccia che surriscalda la polveriera balcanica. Benchè adombrata dagli avvenimenti in medioriente, le diatribe che infiammano le focose etnie balcaniche diventano occasione di tensione nella diplomazia internazionale, che si muove nei ristretti margini della neutralità della missione amministrativa ad interim UNMIK, della missione NATO e della missione civile UE. Le riunioni del Consiglio di Sicurezza in cui si è discussa la situazione in Kosovo, ultima il 15 settembre, data di scadenza dell’accordo stipulato il 2 dello stesso mese, dà modo a Mosca di ribadire il suo pieno supporto a Belgrado, sostenuta dalla Cina che, pur meno esplicita, per evidenti ragioni di politica interna non ha alcuna simpatia per l’autoproclamata indipendenza di Pristina. L’ambasciatore russo Churkin non manca l’occasione per ricordare che il Kosovo non è che un ospite in seno all’ONU e che non può partecipare alle riunioni se non accompagnato da un rappresentante UNMIK o su invito di uno Stato Membro. Il congresso internazionale si risolve a ribadire il ruolo della missione di pace e a richiamare EULEX e KFOR a trovare una soluzione tecnica nell’ambito dei sei punti programmatici adottati nel 2008, secondo i quali l’area nord del Kosovo deve esere considerata un’area doganale indipendente. Il Segretario Generale Ban-ki moon ribadisce che il Piano Ahtisaari rimane il quadro più favorevole ai Serbi del nord del Kosovo, suscitando i malumori di Belgrado che lo ritene inaccettabile e ne ha impedito l’adozione da parte del CdS dal 2008.

La crisi mette nuovamente in difficoltà l’UE nel trovare un giusto equilibrio fra carota e bastone, tanto con la Serbia che con Il Kosovo. Sotto la mediazione dell’Unione Europea, in marzo 2011 è stato lanciato un dialogo per discutere gli effetti pratici sviluppatisi a causa del disaccordo sullo status del Kosovo, come cooperazione regionale, telecomunicazioni, riconoscimento dei diplomi etc. Accordi che hanno un impatto importante sulla vita di tutti i giorni della popolazione Kosovara, ma lasciano da parte il nocciolo della questione. Il nord non è infatti in agenda, secondo la volontà di Pristina che si rifiuta di partecipare ad un dialogo politico con Belgrado. Alla vigilia del secondo appuntamento, in agenda il 28 settembre scorso, la strategia del “un passo alla volta” ha cominciato a vacillare. In conseguenza al degenerare della situazione, Tadic ha posto come condizione sine qua non per la continuazione del dialogo l’inserimento all’ordine del giorno della situazione del Nord. Al rifiuto dell’UE, il secondo appuntamento è stato posticipato a data da destinarsi.

La mossa di Tadic evidenza la volontà serba di non rinunciare agli interessi nazionali e cercare di difendere il potere negoziale che può ancora vantare. Potere che si è notevolmente ridotto dal 2008, quando la dichiarazione unilaterale di indipendenza ha messo Belgrado di fronte ad una situazione de facto svantaggiosa rispetto alla rivendicazione di un Kosovo serbo. Parallelamente Pristina preferisce rafforzare il suo controllo sul territorio, soprattutto a nord ed avere il supporto del maggior numero di stati prima di negoziare con Belgrado i termini del divorzio.

A conti fatti, Pristina può contare sulle simpatie degli USA e di alcuni paesi chiave europei come la Germania, la Francia e l’Italia. Cionondimeno, l’operazione lanciata a fine luglio ha reso evidente la debolezza della sua autorità nel nord del paese, dimostrato l’inefficacia della strategia dell’integrazione forzata del nord Kosovo e indebolito la sua posizione nell’ambito del processo politico. Terreno quest’ultimo sul quale cerca di recuperare lavorando intensamente per ottenere il riconoscimento del numero più alto possibile di Stati, che hanno appena raggiunto quota 84 con il riconoscimento nell’ultimo mese di Nigeria, Gabon e Costa d’Avorio. Sull’altro piatto della bilancia, Belgrado ha da rallegrarsi della lealtà dimostrata della popolazione serba di Mitrovica nel momento di crisi, circostanza che ha incrementato la credibilità delle istituzioni “parallele” e dato nuovo iato alla rivendicazione di un Kosovo parte integrante della Serbia. Guadagna inoltre in termini di consenso interno, accontentando le aspirazioni tanto dalle forze di governo che di opposizione, che fanno entrambe della questione del Kosovo serbo propria bandiera. Pesa, però, sulla testa del Presidente Tadic, spada di Damocle, il parere della Commissione Europea circa il conferimento dello status di paese candidato, attesa il prossimo 12 ottobre. Il governo di Tadic ha indubbiamente lavorato intensamente negli ultimi mesi per assicurare un parere positivo. Dopo i due eccellenti arresti di Ratko Mladic e Goran Hadzic, la normalizzazione dei rapporti con Pristina e un positivo atteggiamento nell’ambito del dialogo mediato da Bruxelles, rimane l’ultimo test per ottenere la maturità. Venendo meno alla cautela di rito, nella visita ufficiale pagata a fine agosto, la cancelliera Merkel ha senza mezzi termini avvertito Belgrado che deve smantellare le istituzioni paralle nel nord del paese e normalizzare i rapporti con il Kosovo se vuole avvicinarsi alla membership europea. Del resto la ben nota fatigue ad affrontare un ulteriore allargamento, specie in tempo di crisi, dà ulteriori buone ragioni ai negoziatori di Bruxelles ad utilizzare con gli aspiranti candidati il bastone molto più che la carota. Inoltre Belgrado deve affrontare la pressione delle imprese nazionali che, secondo la Camera di Commercio serba stanno pagando il blocco delle esportazioni verso il Kosovo con perdite di circa 50 milioni di euro al mese. Tadic ha pertanto optato per un approccio certamente risoluto, ma volto, almeno a termini di proclama, ad evitare l’escalation della violenza. La comunità serba kosovara grida oggi al tradimento e all’abbandono da parte della madre patria che ha infine accettato i timbri emessi sotto il controllo Kfor in base all’accordo raggiunto il 16 settembre scorso. Fra gli attori internazionali Mosca sembra rimanere il più strenuo supporter di Belgrado contro l’indipendenza del Kosovo. Con gran disappunto l’ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandar Konuzin, dichiara che la Serbia dovrebbe affiancare Mosca piuttosto che l’Unione Europea e la NATO che sono “contro i nostri interessi nazionali”.

Dai colloqui con il Presidente Obama e la baronessa Catherine Ashton, alto rappresentate per la Politica Estera e Sicurezza dell’UE, in occasione della 66 Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Tadic ha ribadito il suo impegno a voler trovare una soluzione diplomatica alla crisi. Ma la diplomazia intesa da Tadic dimostra non rimanere sorda agli appelli a difendere gli interessi nazionali, come il rifiuto di continuare i dialoghi ha messo in evidenza. La mossa riporta alla memoria la diplomazia degli anni ’90, quando la Serbia giocava ad essere vittima, pacificatore e aggressore allo stesso tempo. Nonostante gli appelli ad evitare la violenza lanciati ai manifestanti sull’Ibar, il rifiuto di proseguire i dialoghi rappresenta certamente un pericoloso inasprimento delle relazioni che potrebbe provocare un rapido peggioramento della situazione. Pare inoltre una mossa azzardata, che potrebbe mettere a repentaglio il matrimonio con l’UE a pochi giorni dall’agonato si. La sicurezza ostentata da Božidar Đelićl nel giudizio positivo potrebbe essere ben fondata. Resta da vedere però quali saranno i termini del si e se saranno posti ulteriori benchmarks. Certamente, questo è il momento per USA e Unione Europea di addolcire la carota e rafforzare il bastone, per assumere una leadership più incisiva e ricercare una risoluzione comprensiva alla disputa, tutelando gli interessi di tutti.

La polveriera d’europa per il momento non fa che fumo, ma il passato ci ha già insegnato che è consigliabile non lasciare consumare la miccia.

Il post-Stark in Europa: la stabilità finanziaria dell’UE dipende ancora dalla Germania?

$
0
0

L’area economica è quella in cui sicuramente l’eterogeneità comunitaria è più evidente e, ammortizzare le differenze, sembra la sfida più difficile per l’Europa in quanto l’adeguamento agli standards di riferimento e alla strategia finanziaria spesso stride con la storia economica del singolo paese. Ecco allora che, in un’Europa in cui molti paesi sono alla deriva in termini di debito pubblico, la parola “collaborazione” – da sempre imperativo assoluto – assume i toni di “complicità” con accezione negativa: nel momento in cui si va a prestare soccorso a paesi in bancarotta, attraverso finanziamenti, si diventa automaticamente colpevoli di una condotta lesiva e non conforme alla trattatistica comunitaria. La Germania, paese che più di tutti si è distinto per la notevole ripresa economica in un periodo di crisi e fervente euroscetticismo, non lesina critiche e polemiche nei confronti di questa tattica di “salvataggio in extremis” che va a penalizzare quei paesi e, di conseguenza i loro cittadini, che hanno arginato il problema individualmente evitando di attingere alle casse dei vicini. Le dimissioni di Stark dalla BCE sono apparse allora, inevitabilmente, alla comunità internazionale come la presa di distanza tedesca dal modo di gestire le economie in crisi e intese – dalla stessa Germania – come un modo per testare la propria leadership ed influenza nel mondo finanziario. E visti i risultati negativi in Borsa nei giorni successivi, sembra proprio che la Germania continui ad essere ancora determinante ma, se è vero che l’Europa ha bisogno della potenza tedesca, a sua volta la Germania ha bisogno dell’UE dal momento che solo la compattezza comunitaria può attirare capitali e garantire altrettanta compattezza da parte degli investitori.

Le recenti dimissioni dell’economista Stark dalla BCE – ufficialmente per motivazioni personali ma ufficiosamente per incompatibilità con le linee attuative della predetta istituzione verso i membri europei in difficoltà economica – impongono una riflessione su come si sia evoluto questo rapporto inizialmente privilegiato tra UE e Germania e se, quest’ultima, continui a fungere o meno da ago della bilancia per ciò che concerne la stabilità economica comunitaria.

Storicamente il rapporto della potenza tedesca in Europa è stato molto continuo ma condizionato dalla posizione di alleato, in condizione subalterna, della Francia. Negli anni ’60, però, la Germania è riuscita ad acquisire una maggiore autonomia grazie ad uno status di potenza riconquistato (al pari di Francia ed Inghilterra) in ambito economico, diplomatico e militare e, quindi, mentre dopo la seconda guerra mondiale ha dovuto dare la priorità a se stessa, dopo la ripresa ha dato spazio indiscusso alla politica europea, al punto tale da divenirne uno dei più importanti membri comunitari, mantenendo – comunque – sempre una intensa collaborazione con la Francia.

L’identificazione nell’Europa è apparsa al Paese tedesco come l’unico modo per tornare ad avere un ruolo importante confacente alle sue dimensioni e senza suscitare, nei Paesi vincitori del conflitto, reazioni sfavorevoli. La Germania ha praticamente profondamente interiorizzato la problematica dell’integrazione europea: si potrebbe meglio dire che questa, come anche la Francia, non ha abbandonato ogni interesse nazionale in nome dell’Europa: semplicemente ha inteso l’Europa unita come un elemento della realtà nazionale, facendone un elemento cardine della propria politica estera e del proprio supernazionalismo ufficiale, non il contrario.

Tuttavia, se i primi anni l’eterogeneità europea ha rappresentato per la Germania una sorta di stimolo a fungere da leader e ad incentivare il progetto europeo, negli ultimi anni le “più velocità” dei membri comunitari sembrano, invece, aver inasprito l’idea di cooperazione tedesca al punto che molti hanno visto nella Germania una sorta di svolta egoistica, tradottasi politicamente ora in una condotta ostruzionista ora in isolamento. Non ultimo le dimissioni di Stark, che sembrano essere una esplicita rimostranza – da parte della Germania – di non voler più supportare i paesi in difficoltà. “Finanziare i deficit e tener basso il costo dell’interesse sul debito degli Stati non è compito della Banca centrale”: questo ha sempre sostenuto l’economista tedesco, a sancire come i casi di Germania, Spagna, Grecia e Italia non rientrassero nelle competenze della BCE.

I più ritengono che la Banca Centrale Europea sia nata quasi sulla stessa scia della Bundesbank e, viene da sé, che i destini e le strategie di entrambi gli organismi finanziari si siano inevitabilmente intrecciati. Entrambe perseguivano una condotta di evidente stampo tedesco basata innanzitutto sulla indipendenza (eludendo quindi pericolose connivenze con le parti politiche) ed una politica monetaria costantemente orientata a servirsi di tutti i mezzi possibili per combattere i rischi dell’inflazione [1].

Non suoni strana allora la connessione vigente tra le dimissioni di Stark e quelle di Axel Weber. In una intervista del febbraio 2011, l’ex presidente della Banca tedesca oltre ad una polemica specifica nei confronti dei bonds non risparmiava critiche nei confronti della politica generale europea e, soprattutto, induceva a riflettere sul concetto di “compromesso” a livello comunitario. Se è vero che in Europa bisogna sempre cercare il compromesso, allo stesso tempo bisogna conoscere le barriere che lo regolamentano, l’Europa compete globalmente con altre aree economiche e, chiaramente, non può che guardare costantemente a quelli che sono i suoi “concorrenti”, spesso indiscutibilmente anche più dinamici come la Cina. Il raggiungimento dell’equilibrio all’interno dell’Ue non può essere visto come il costante e prioritario obiettivo da raggiungere [2].

Hans Werner Sinn, consigliere di Angela Merkel, ha tratteggiato la situazione in maniera netta, appellandosi a quella che sarebbe stata la violazione per eccellenza compiuta dalla BCE: quella di non proibire i finanziamenti agli Stati, clausola che la Germania ha virtualmente sottoscritto in vista dell’abbandono del marco per l’euro. In realtà – già nel 2008 – la Banca Europea aveva fatto sua questa condotta interventista, agendo rapidamente ma, a detta del presidente dell’Ifo, avrebbe dovuto smettere comprando titoli di Stato, in quanto vietato dagli stessi Trattati di Maastricht. I programmi di salvataggio verso i paesi con cospicuo debito pubblico, dal punto di vista tedesco, dovrebbero consistere, invece, in strategie volte a fornire ma allo stesso tempo pretendere garanzie, evitando il totale sobbarcarsi dei debiti dei vicini rischiando in prima persona la bancarotta [3].

Ciò che appare evidente è che la scelta di Stark non può dirsi una scelta isolata, bensì è da contestualizzarsi nella più ampia dimensione politica di una Germania che vuole prendere le distanze dall’Europa, se farvi parte significa adeguarsi ad una condotta comune fallimentare anziché poter fungere da modello per una politica di risanamento. E politicamente la Merkel è consapevole che, imporre sacrifici ai propri cittadini per le insolvenze altrui, significa alimentare l’idea di una Germania soggiogata.

Al di là delle sottese o meno motivazioni etiche e personali di Stark e delle connessioni politiche, la principale dimostrazione di quanto la Germania conti in Europa è deducibile da quanto la diffusone della notizia delle dimissioni dell’economista tedesco abbia influenzato l’andamento dei mercati finanziari nei giorni successivi. Il crollo delle Borse in Europa ed il seguente ribasso delle quotazioni dell’euro sul dollaro e la sterlina è abbastanza esaustivo del ragionamento che gli attori del mondo finanziario hanno compiuto: Stark boicotta la BCE, quindi la Germania boicotta l’Europa e di conseguenza, la mancanza di compattezza attuale a livello di strategia economica impone di non rischiare collettivamente bensì a salvaguardare il proprio. Questo basti a poter affermare che qualsivoglia azione da parte della Germania non passa in sordina nel resto d’Europa: ancor più quando tutto ciò avviene in concomitanza con delicati eventi internazionali come il G7 di Marsiglia. In un forum di discussione che fa della cooperazione e della stabilità finanziaria il suo obiettivo principale, è chiaro che una notizia del genere sia apparsa assolutamente destabilizzante ed altrettanto chiara la necessità, per evitare pericolosi contraccolpi economici, di ribadire pubblicamente la piena fiducia ai mercati. Inizialmente si era pensato ad un comunicato finale, con il beneplacito dei Ministri delle Finanze, proprio per inviare un messaggio forte e chiaro di sostegno all’economia mondiale; tuttavia, ciò non è avvenuto, con il conseguente ridursi delle aspettative ancor prima dei lavori ed il diffondersi della dilagante paura “stagnazione”. A ciò si aggiunga che nello stesso periodo ad Atene sono giunte le delegazioni del FMI, della BCE e dell’Unione Europea per vagliare lo status della politica di risanamento a cui la Grecia si è dovuta forzatamente piegare per salvarsi dal pesante tracollo economico in cui versava.

In questo situazione di limbo economico il primo passo è stato quello di colmare il vuoto istituzionale e, la mancanza di alternative e soprattutto i tempi stretti. hanno portato ad optare per Mario Draghi che – se da una parte è forte dell’esperienza maturata in organismi finanziari – dall’altra la sua formazione (il passato alla Goldman Sachs) alimenta sospetti di logiche “atlantiche” e strategie troppo “angloamericane”. E sebbene a rassicurare gli europei ci pensino gli stessi americani, che più volte nel corso di meeting economici hanno ribadito la loro assoluta non volontà a far saltare il sistema euro, (perché, benché non manchino casi di speculazione ad opera di banche statunitensi, le incertezze sui mercati sono pur sempre da evitare) all’interno dei confini della UE qualcosa sembrerebbe essersi spezzato. La nomina di un italiano a capo della BCE – è stata sicuramente accettata a denti stretti da parte della Germania non solo perché il candidato più accreditato era il tedesco Alex Weber – ma soprattutto perché, da parte tedesca, la scelta è in un certo senso paradossale se si va a pensare, come gli economisti dell’entourage della Merkel fieramente sostengono, che la Germania perseguendo la sua strategia finanziaria in quindici anni ha tagliato prezzi e salari del 21% per essere più competitiva mentre l’Italia è diventare più cara del 48%.

A distanza di dieci anni dall’adozione dell’euro, che allora era sembrata la massima forma di unità europea, l’Ue scricchiola e molti governi si comportano come se avessero ancora la loro valuta: c’è chi consuma anziché risparmiare, creando pesanti disavanzi nella spesa pubblica.
Tale frammentarietà non è riuscita, tuttavia, ancora a minare totalmente la consapevolezza che essere “Europa unita” rimane sempre e comunque un vantaggio, sia per il paese “in ritardo” che risulta notevolmente avvantaggiato da questa appartenenza, sia per il “primo della classe” che, invece, spesso deve rallentare la sua scalata in virtù del progetto comune. E se, come osservano i paesi del G7, stanno aumentando i divari economici non solo tra i Paesi sviluppati e quelli emergenti ma anche tra gli stessi sviluppati, nel caso dell’Europa vige la convinzione che l’incertezza finanziaria possa essere arginata affidandosi a dei paesi leader che vedano il loro ruolo di guida non come sacrificio o rinuncia bensì come sfruttamento costruttivo del loro potenziale per un obiettivo collettivo. E in Europa, la Germania, malgrado i recenti attriti, per tradizione finanziaria e capacità reattiva rimane l’indiscusso modello a cui guardare: basti la recente dichiarazione della Merkel a tal proposito “la Germania continuerà ad essere la locomotiva della crescita dell’Unione europea” per prendere atto che al di là degli scossoni che la potenza tedesca imprime alla politica comunitaria, da questa Europa unita – di cui è stata fautrice – alla fine vuole continuare a far parte, a prezzo di un delicato compromesso tra individualità e diversità e con la consapevolezza di essere un membro scomodo ma assolutamente indispensabile.

Cristiana Tosti – Laureata in Storia della Istituzioni politiche (Università di Bari) – Dottore di ricerca in “Storia dell’Europa contemporanea” (Università di Bari).

NOTE
[1] Peter Müller, Christoph Pauly and Christian Reiermann, “Jürgen Stark’s resignation is setback for Merkel”, Spiegel Online International, 12/9/2011.
[2] Interview with Alex Weber, “It Is Not Important Which Nation Puts Forward the ECB President”, Spiegel Online International, 14/02/2011.
[3] Intervista ad Hans-Werner Sinn, “La BCE non può acquistare bonds: lo vietano i Trattati di Maastricht”, www.larepubblica.it, 19/09/2011.

Paolo Sensini, Libia 2011

$
0
0

Paolo Sensini
Libia 2011
Prefazione di Giovanni Martinelli, Vescovo di Tripoli

Jaca Book,  Milano 2011
ISBN 978-88-16-41123-4
174 pagine €  12,00

Il Libro

Il 2011 non è solo il 150° anniversario dell’unità d’Italia, ma è anche l’anno in cui ricorre un’altra celebrazione meno onorevole da festeggiare per i governanti del nostro paese: il centenario della prima guerra dell’Italia contro la Libia. Oggi come allora, lo Stato italiano muove in armi contro una nazione che nulla ci ha fatto. Il suo leader, Mu‘ammar Gheddafi, ricevuto fino pochi mesi addietro con tutti gli onori che si tributano al capo dello Stato di un paese amico, si è improvvisamente trasformato in «dittatore pazzo e sanguinario» da eliminare ricorrendo a qualsiasi espediente.

Un tradimento che ha dell’incredibile, ma che purtroppo rappresenta un Leitmotiv della nostra storia post-unitaria. Ritardata imitazione delle imprese delle più affermate potenze coloniali europee. Dopo aver ripercorso le fasi salienti dell’occupazione militare italiana (1911-1943) e della travagliata storia libica fino ai giorni nostri, Paolo Sensini, che ha preso parte a Tripoli ai lavori della Fact Finding Commission on the Current Events in Libya nei giorni immediatamente successivi all’inizio dei bombardamenti NATO, ricostruisce con dovizia tutte le fasi del conflitto e le vere ragioni sottese all’attacco contro la Libia. Il quadro reale che ne emerge, e che nessun media mainstream ha voluto raccontare alle opinioni pubbliche occidentali, è sconcertante. Le menzogne sulle «fosse comuni» e sui «10.000 morti», così come «i ribelli di Bengasi» fomentati dal fondamentalismo islamico e anche organizzati, armati e finanziati dalle potenze occidentali, sono serviti come pretesto per la Risoluzione ONU numero 1973 che ha dato il via all’intervento militare in Libia, mentre il mondo tace sul consistente miglioramento delle condizioni di vita del popolo libico da quando Gheddafi è stato alla guida del paese, unica realtà petrolifera mediorientale con una redistribuzione sociale della ricchezza.

La verità, ancora una volta, è che a tirare i fili di queste guerre per procura mascherate da «intervento umanitario» sono le grandi potenze occidentali, che vogliono continuare a mantenere i popoli dell’Africa nella schiavitù e nella miseria per impadronirsi di tutte le loro ricchezze, come fanno da secoli e stanno continuando a fare. Dopo l’Afghanistan e l’Iraq, quella in Libia è solo l’ennesima guerra neocoloniale dei giorni nostri.

L’Autore

Paolo Sensini,  laureato in filosofia, saggista e storico, è autore de La rovina antica e la nostra (Roma 2006) e de Il «dissenso» nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 (Soveria Mannelli 2010). Ha redatto alcune delle voci apparse nel primo volume de L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico (Jaca Book, Milano2010) e nel Dizionario biografico degli anarchici italiani (Pisa 2003-2004). Ha inoltre curato l’edizione italiana delle principali opere di Bruno Rizzi, Ante Ciliga, Josef Dietzgen e Sergej Mel’gunov.

INDICE

A mo’ di prefazione,di Giovanni Martinelli

PARTE PRIMA
1. 1911-2011: il primo centenario della guerra contro la Libia
2. L’Italia «liberale» si prepara alla guerra
3. La Senussiya
4. Inizia lo sbarco militare nelle città costiere
5. L’accordo con la Senussiya
6. La fase di stallo militare
7. L’epoca fascista e la sua politica di colonizzazione in Libia
8. Si apre l’èra di Italo Balbo
9. Fine della guerra: l’amministrazione militare britannica in Libia e l’incoronazione di re Idris
10. La presa del potere degli Ufficiali liberi e la cacciata degli italiani da Tripoli
11. Il Libro verde e la Jamahiriyya
12. Una vicenda oscura e altre storie di «terrorismo»…

PARTE SECONDA
1. «La primavera araba»
2. Le Risoluzioni ONU 1970 e 1973 contro la Libia e il «nuovo diritto internazionale»
3. Chi sono i «rivoltosi» in Libia e chi c’è dietro di loro
4. Quale ruolo giocano la Senussiya e il fondamentalismo islamico nella rivolta libica
5. Cronaca dei fatti giorno per giorno fino alla Risoluzione ONU 1973
6. Le responsabilità di Al Jazeera e Al Arabiya nella rappresentazione della rivolta
7. Partenza per la Libia
8. Qualche statistica sulla Jamahiriyya di Gheddafi
9. Le vere ragioni della guerra
10. C’era una volta la Libia

Indice dei nomi

Ultimi sviluppi della situazione nella Repubblica araba siriana

$
0
0

Un gruppo terroristico armato ha ucciso il 2 ottobre ad Aleppo il dottor Mohamed Al Omar, dell’Università di Aleppo, e il figlio del Gran Mufti di Siria in un’imboscata sulla strada per Idlib.

Cinque membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi e otto sono stati feriti da gruppi terroristici armati nel villaggio di Kafar Nabuda, nei pressi di Hama il 2 ottobre.

L’autista di un treno merci è stato ucciso insieme al suo aiutante durante un deragliamento causato da un’esplosione provocata da un gruppo terroristico armato fra Aleppo e Latakia il 2 ottobre.

Un gruppo terroristico armato ha ucciso il 1 ottobre il cittadino Ahmad Sekaf, del villaggio di Basames, vicino a Jabl Al Zaweya, dopo averlo rapito e torturato fino alla morte, mentre il fratello è stato ferito da colpi di arma da fuoco alle gambe.

Un gruppo terroristico armato ha colpito con un razzo RPG un magazzino nel quartiere Al Abbaseen a Homs.

In diverse località della Siria sono stati celebrati i funerali di 13 martiri dell’esercito e della polizia uccisi da gruppi terroristici armati.

Le forze di sicurezza hanno sequestrato il 1 ottobre, durante un tentativo di contrabbando  dal Libano alla Siria, grandi quantità di armi e munizioni destinate ai gruppi terroristici armati che uccidono i civili.

Tre artificieri sono rimasti uccisi il 2 ottobre a Duma mentre cercavano di disinnescare un pacco bomba collocato dai gruppi terroristici armati.

Il Ministero della Salute ha negato quanto riportato dalla tv Al Jazera circa la presenza di cecchini sul tetto dell’ospedale di Harasta, dichiarando che gli ospedali continuano a fornire i loro servizi ai cittadini normalmente.

Il 2 ottobre un gruppo terroristico ha rapinato la Banca Agricola nella città di Saraqeb, nella provincia di Idleb.

Un criminale ricercato è stato ucciso il 2 ottobre dall’esplosione di un pacco bomba che trasportava su una moto e che doveva essere collocato da qualche parte per uccidere civili innocenti a Daraa.

Un gruppo terroristico ha assasinato ad Homs il 27 settembre il dottor Hasan Aid, primario di chirurgia toracica nell’ospedale statale della città, l’ingegnere Aws Abdel Karim, prorettore dell’Università Al Baath, il 28 settembre, e il dottor Mohamed Ali Aqil, vice preside della facoltà di di Architettura, il 26 settembre.

La televisione siriana ha trasmesso il 3 ottobre la notizia del ritorno alla normalità e alla calma nella città di Al Rastan, dove gli abitanti hanno dato il benvenuto all’esercito che ha liberato la città dai gruppi terroristici armati che hanno terrorizzato i cittadini nel periodo scorso.

I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana

$
0
0

I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana*

Sommario: 1. La summa divisio tra res in commercio e res extra commercium. I beni demaniali e patrimoniali indisponibili nel codice civile vigente. L’opera della Commissione Rodotà: la individuazione dei beni comuni. Funzione naturale ed appartenenza dei beni comuni. 2. I beni comuni nella tradizione romanistica. 3. La dicotomia “proprietà collettiva-proprietà individuale” e la dicotomia “proprietà pubblica-proprietà privata”. Il collegamento “sovranità-proprietà” nella evoluzione storica della proprietà. La preesistenza della proprietà collettiva. La concezione borghese della proprietà privata come diritto inviolabile. 4. La nuova impostazione della Costituzione. La mancata menzione della proprietà collettiva. La proprietà pubblica o privata. La “sovranità” popolare come fondamento della proprietà collettiva. La disciplina costituzionale della proprietà privata: riserva di legge, funzione sociale ed accessibilità a tutti. La proprietà personale. 5. L’implicito riferimento costituzionale alla dicotomia “proprietà collettiva-proprietà privata”. I beni demaniali: proprietà collettiva e pubblica. La legislazione ordinaria dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile. Inalienabilità, inespropriabilità ed inusucapibilità dei beni demaniali. La trasferibilità tra Enti dei beni demaniali. Intrasferibilità assoluta dei beni del demanio idrico, marittimo e militare dello Stato, in quanto beni di interesse dell’intera Comunità nazionale. 6. Il decreto legislativo n. 85 del 2010. Sua evidente illegittimità costituzionale. 7. Come intendere oggi “la rivoluzione promessa” di Calamandrei: l’equa distribuzione della proprietà personale e l’incremento dei beni comuni. Allargamento della nozione anche ai beni immateriali.

1. Le disposizioni del codice civile vigente, che parlano di beni demaniali (inusucapibili ed inalienabili), di beni del patrimonio indisponibile (inusucapibili, ma alienabili) e dei beni del patrimonio disponibile, ispirandosi al regime dei beni, anziché alla loro funzione (cadendo anche in palesi errori, come dimostra il fatto che le foreste, incluse nel “patrimonio indisponibile”, vengono poi considerate come rientranti nella nozione del “demanio forestale dello Stato”), hanno da tempo offuscato la summa divisio tra res in commercio e res extra commercium, o, se si preferisce seguire la terminologia di Gaio, tra res in patrimonio e res extra patrimonium, e soprattutto la stretta connessione esistente tra le res extra commercium e le res communes o publicae.

Si è perduto, in altri termini, la nozione di beni comuni, di beni cioè che appartengono a tutti, e precisamente, secondo i punti di vista, all’umanità, al populus o alle città (Municipia o Coloniae), cioè a soggetti plurimi, o, se si preferisce, a comunità di uomini, se non di uomini ed animali, come afferma qualche giurista romano.

La presentazione dello schema di disegno di legge-delega, redatta dalla Commissione Rodotà, e presentata in data 15 febbraio 2008, riporta finalmente in primo piano la categoria dei beni comuni, distinguendoli, molto opportunamente, dai beni pubblici e dai beni privati.

I beni comuni, sono concepiti come beni naturali -beni ambientali e paesaggistici-, funzionali alle esigenze primarie dell’uomo (ai quali si affiancano i beni archeologici, evidentemente per

il fatto che sono divenuti parte integrante dell’ambiente naturale dell’Italia, ed i beni culturali -artistici e storici-, certamente per il fatto che l’arte e la storia appartengono all’umanità).

I beni pubblici, sono intesi come beni creati dall’uomo per soddisfare bisogni necessari o sociali. Ad essi si affiancano i beni fruttiferi, e quindi commerciabili, dello Stato, che, naturalmente, hanno la stessa disciplina dei beni privati.

I beni privati sono considerati i beni in proprietà dei singoli.

Si tratta di una classificazione veramente commendevole, che fa leva, non tanto sulla disciplina giuridica (criterio seguito dal codice civile), ma sulla funzione del bene.

Si supera così, come ha acutamente osservato Alberto Lucarelli (in “Il vento non sa leggere”, di Francesco Lucarelli e Lucia Paura, Napoli. 2008, p. 170), la lacuna lasciata dalla soppressione dell’art. 811 c. c. (il quale così recitava: “I beni sono sottoposti alla disciplina dell’ordinamento corporativo in relazione alla loro funzione economica ed alle esigenze della produzione nazionale”), ad opera dell’art. 3 del decreto legislativo luogotenenziale del 14 dicembre 1944, n. 287. L’urgenza di abrogare il riferimento all’ordinamento corporativo, ha infatti impedito al legislatore dell’epoca di accorgersi della grave soppressione del riferimento alla “funzione economica del bene”. Né al riguardo sono stati più apportati correttivi, per cui ancor oggi sono considerati beni giuridici “le cose che possono formare oggetto di un diritto” (art. 810 c. c.). Lacuna che ha procurato immensi disagi alla dottrina, quando si è trattato di sostenere la giuridicità del bene ambiente, per la cui affermazione è stata provvidenziale la distinzione del Pugliatti tra “beni giuridici in senso proprio”: quelli cioè che possono essere oggetto di un diritto, e “beni giuridici in senso lato”: quelli che sono oggetto di tutela giuridica (S. Pugliatti, Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1962, p. 27 ss.).

Quanto alla definizione del concetto giuridico di bene comune, va tuttavia sottolineato che il riferimento al criterio della funzione economica (naturale o artificiale) del bene per il soddisfacimento di bisogni primari della collettività, e del suo collegamento a diritti fondamentali, va ulteriormente precisato con il riferimento ai soggetti titolari, occorre stabilire, in altri termini, se i beni di cui si tratta appartengono all’umanità, al popolo o ad enti territoriali, o, semplicemente, a collettività private residenti ab immemorabili in luoghi determinati. Esattamente come facevano i Romani, i quali, come sopra si è accennato, distinguevano tra res communes omnium, res publicae e res universitatis (spesso dei Municipia o delle Coloniae).

2. Ed a questo proposito, occorre sottolineare che la categoria delle res communes omnium, per la prima volta espressa in modo chiaro da Marciano, giurista del terzo secolo d. C., è in realtà una categoria più antica (risalente almeno al primo secolo a. C.), che la romanistica moderna non è riuscita ad enucleare perché essa appare quasi come nascosta dietro la ricorrente espressione “res nullius”.

A darci l’avvio per una affermazione di questo genere, del cui carattere innovativo siamo ben avvertiti, è Gaio in Inst. 2, 11: “Quae publicae sunt, nullius videntur in bonis esse: ipsius enim universitatis esse creduntur. Privatae sunt quae singulorum hominum sunt”. Al riguardo molto illuminante è l’osservazione del Bonfante (Corso di diritto romano, vol. II, parte prima, Milano, 1966, p. 82), secondo il quale “Gaio intendeva: (che le res nullius) sono di nessuno in particolare, perché appartengono a tutti”. Ciò è evidente, continua ancora il Bonfante, se si pensa che per il pensiero antico non c’è alcuna difficoltà a riconoscere come soggetto la collettività o il populus (o. c., l. c. ) ( sull’argomento: P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino, 1974, specie pp. 155 ss.).

Per Gaio, in altri termini, i beni o sono pubblici (non importa stabilire se del populus o della città; in questo caso si parla della città), o sono privati: tertium non datur.

Ma esiste un’infinità di altri testi, nei quali manca il riferimento al populus o all’universitas, e si parla soltanto di res nullius, sennonché il riferimento al soggetto collettivo titolare del bene considerato nel suo complesso è quasi sempre ricavabile dal testo.

E qui è da sottolineare che, a differenza dei moderni, per i quali il soggetto è sempre una individualità (persona fisica) e, quando si vuol riconoscere la soggettività ad un soggetto plurimo o ad una collettività che dir si voglia, si ricorre al concetto, anch’esso individualistico, di persona giuridica (fino al punto che per indicare il popolo si fa riferimento al dogma della Personalità giuridica dello Stato, cioè ad una pura astrazione), presso i Romani non si esitava a riconoscere la soggettività giuridica agli enti più diversi: agli dei, per le res sacrae (il “templum” apparteneva al dio al quale era stato dedicato dal Populus), agli dei mani, cioè ai defunti, per le res religiosae (il “sepulcrum” apparteneva al defunto che ivi era stato inumato), alla collettività dell’intero genere umano, del populus Romanus, o dell’universitas civitatum, ovvero ancora alla collettività formata da tutti gli uomini e dagli animali.

Estremamente significativi, al riguardo, sono un testo di Gaio ed un testo di Ulpiano: il primo distingue il “ius gentium”, denominato anche “ius naturale”, dal “ius civile”, cioè il diritto di tutti i popoli dal diritto del popolo romano; il secondo distingue il “ius naturale”, un diritto comune agli uomini ed agli animali, dal “ius gentium” un diritto di tutti i popoli, e dal “ius civile” il diritto proprio dei Romani.

Secondo Gaio (Gai Inst., 1, 1): “Omnes populi qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur: nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium est vocaturque “ius civile”, quasi ius proprium civitatis; quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque “ius gentium”, quasi quo iure omnes gentes utuntur, itaque populus Romanus partim suo proprio partim communi omnium hominum iure utitur”.

Secondo Ulpiano (D. 1. 1. 3, 4 e 6 pr.): “Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mare nascuntur, avium quoque commune est, hinc descendit maris et feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc aeducatio; videmus enim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris censeri. Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur….Ius civile est…ius proprium… » .

Sul piano applicativo, tuttavia, le fonti seguono la bipartizione gaiana ed ignorano la tripartizione ulpianea, della cui classicità è comunque difficile dubitare, considerata la unitarietà del discorso di Ulpiano (A. Guarino, L’Ordinamento giuridico romano, Napoli, 1959, p. 244). Si torna, dunque, alla distinzione di Gaio, per il quale le res o sono “alicuius” o sono “nullius in bonis, sed universitatis”.

Molto interessante, a questo punto, è passare al tema dell’occupatio delle res nullius (G. Franciosi, “res nullius”, in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, ANA. 1964).

In proposito, le fonti son solite distinguere tra ius naturale e ius civile.

Emblematico al riguardo è Gaio, il quale (Gai Inst., 2, 65), afferma: “Ergo ex his quae diximus apparet quaedam naturali iure alienari, qualia sunt ea quae traditione alienantur; quaedam civili, nam mancipationis et usucapionis ius proprium est civium Romanorum”. E lo stesso Gaio precisa subito dopo (Gai Inst., 2, 66): “ Nec tamen ea tantum traditione nostra fiunt, naturali nobis ratione adquiruntur, sed etiam quae occupando ideo adepti erimus, quia antea nullius essent; qualia sunt omnia quae terra, mari coelo capiuntur”.

Per il diritto naturale, per il diritto di tutti i popoli, costituisce un modo di acquisto della proprietà l’occupatio di una res nullius.

Sennonché, lo stesso Gaio ci avverte che le res nullius sono appropriabili da parte degli individui, non nella loro totalità, ma nelle singole parti individuali che le compongono, le quali, sfuggendo al singolo, possono rientrare nella totalità e divenire di nuovo appropriabili da parte di qualsiasi soggetto.

Si legga cosa dice il nostro Autore a proposito della caccia e della pesca: “Itaque si feram bestiam aut volucrem aut piscem ceperimus, simul atque captum fuerit, statim nostrum fit et eo usque nostrum esse intelligitur, donec nostra custodia coerceatur: cum vero custodiam nostram evaserit et in naturalem se libertatem receperit, rursus occupantis fit, quia nostrum esse desinit: naturalem autem libertatem recidere videtur, cum aut oculos nostros evaserit, aut, licet in conspectu sit nostro, difficilis tamen eius persecutio sit”.

E’ logico supporre che, secondo Gaio, la selvaggina ed i pesci costituiscono un bene di tutti gli uomini se considerati nel loro complesso e sono appropriabili in minima parte dai singoli.

L’appartenenza del tutto alla collettività degli uomini è qui soltanto supposta, ma vi sono altri testi in relazione nei quali questa supposizione si avvicina di molto alla realtà.

Si tratta di quelle fonti che parlano del lido del mare e delle costruzioni in litore maris. Da queste è agevole dedurre che il lido del mare appartiene a tutti e che una sua forma di uso consiste anche nella possibilità di costruirvi un edificio, purché ciò non danneggi l’uso comune. La costruzione dell’edificio non comporta comunque l’acquisto dell’area di spiaggia usata, per cui, se l’edificio crolla, l’area in questione torna nella disponibilità di tutti ed è lecito ad un altro soggetto ricostruire in quel luogo.

Interessantissimo è il seguente passo di Nerazio, nel quale la condizione giuridica dei lidi è parificata a quella della selvaggina e dei pesci, precisandosi che questi beni sono “pubblici”, non nel senso di appartenere allo Stato, ma nel senso (sembra questa l’unica risposta possibile) di appartenere alla comunità del genere umano. Non si dimentichi, infatti, che la parola “publicus” ha comunemente anche il significato di “communis”.

D. 41.1. 14 (Neratius libro quinto membranarum). “Quod in litore quis aedificaverit, eius erit: nam litura publica non ita sunt, ut ea, que in patrimonio sunt populi, sed ut ea, quae primum a natura prodita sunt et in nullius adhuc dominium pervenerunt; nec dissimilis condicio eorum est atque piscium et ferarum, quae simul atque adprhensae sunt, sine dubio eius, in cuius potestatem pervenerunt, dominii fiunt”.

Di “loca publica” riferiti ai lidi, nel senso abbastanza ovvio di “loca communia”, parla anche Papiniano.

D. 41. 3. 45 pr. (Papinianus libro decimo responsorum). “Praescriptio longae possessionis ad optinenda loca iuris gentium publica concedi non solet. Quod ita procedit, si quis aedificio funditus dirupto quod in litore posuerat….”.

Di “locus publicus”, riferito al lido del mare, sempre nel senso di “locus communis”, parla un altro passo di Nerazio.

D. 41. 1. 14. 1 (Neratius libro quinto membranarum). “ Illud videndum est, sublato aedificio, quod in litore positum erat, cuius condicionis is locus sit, hoc est utrum maneat eius cuius fuit aedificium, an rursus in pristinam causam  reccidit perindeque publicus sit, ac si nunquam in eo aedificatum fuisset, quod propius est, ut existimari debeat, si modo recipit pristinam litoris speciem”.

L’edificazione sul lido del mare come uso di un bene comune appare chiaro anche nel seguente testo di Marciano, il quale sottolinea che il “locus” sul quale si edifica è di proprietà di chi edifica finché sussiste la costruzione e che, venuta meno questa, il “locus” ridiventa di uso comune.

D. 1. 8. 6 pr. (Marcianus libro tertio institutionum). “In tantum, ut ei soli domini constituantur qui ibi aedificant, sed quamdiu aedificium manet; alioquin aedificio dilapso quasi iure postliminii revertitur locus in pristinam causam, et si alius in eodem loco aedificaverit, eius fieret”.

A dimostrazione del fatto che, in questi casi, si suppone un’appartenenza comune del bene, può ricordarsi che subito dopo questo passo, Marciano continua il suo discorso (in D. 1. 8. 6. 1), affermando che “Universitatis sunt, non singulorum, veluti quae in civitatibus sunt theatra et stadia et similia et si qua alia sunt communia civitatium”.

Ma l’appartenenza comune dei beni in questione è esplicitamente affermata dallo stesso Marciano nel notissimo testo relativo alle res comunes omnium.

D. 1. 8. 2. 1 (Marcianus libro terbio institutionum). Et quidam naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris”.

L’insegnamento delle fonti romane è davvero eccezionale: non solo ci sono i beni del populus, dei Municipia o delle Coloniae, ma ci sono anche i beni dell’intera comunità degli uomini. Sono beni comuni di tutti: l’aria, l’acqua corrente, il mare, il lido del mare, nonché, dobbiamo aggiungere dopo quanto detto, la selvaggina ed i pesci. Il concetto attuale di ambiente è già racchiuso in nuce nell’esperienza della giurisprudenza romana.

3. L’appartenenza dei beni, dunque, o è di tutti (appartenenza plurima), o è di un singolo; si tratta, in altri termini, o di beni in proprietà collettiva, o di beni in proprietà individuale (sull’argomento, vedi la magistrale trattazione di Mario Esposito, “I beni pubblici”, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario Bessone, Torino 2008). Rilevante, insomma è la dicotomia “appartenenza collettiva-appartenenza individuale o solitaria” ed è solo eventuale, e comunque poco rilevante, far riferimento alla dicotomia “pubblico-privato”. Ne consegue che l’espressione “beni dello Stato” è, a questo proposito, poco significativa, poiché lo Stato, solo in quanto Stato-comunità, è proprietario di beni collettivi, comunemente denominati demanio, mentre, in quanto Stato-persona può essere anche proprietario iure privatorum, titolare cioè di beni normalmente oggetto di proprietà privata. Questa distinzione, del resto, era chiara già nell’art. 1 del Regolamento per l’amministrazione e la contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale disponeva testualmente: “I beni dello Stato di distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di privata proprietà”.

Questa disposizione, che distingue i beni del patrimonio disponibile dello Stato dal demanio, sottolineando che i beni del demanio pubblico appartengono allo Stato “a titolo di sovranità”, è estremamente interessante ed induce a riflettere sulla storia della proprietà, la cui evoluzione dimostra che al concetto di proprietà collettiva sottende sempre l’idea della sovranità della Comunità che la possiede, mentre, se parte di questa proprietà comune è trasferita a singoli cittadini essi conservano sulla porzione dei beni conferiti gli stessi poteri sovrani spettanti alla Comunità. Il civis, in altri termini, in quanto parte della Comunità, partecipa della sovranità di quest’ultima ed esercita poteri sovrani sulla porzione di terra a lui assegnata.

L’accostamento demanio-sovranità è molto evidente alle origini della proprietà collettiva, quando l’appropriazione di una porzione della terra (territorio) da parte di una collettività produceva la nascita di una Comunità organizzata, e quindi di un ordinamento giuridico. Acutamente Carl Schmitt (Il nomos della terra, 1950, trad. it. di E. Castrucci, Milano 1991, pag. 24) osserva che “ogni occupazione di terra crea sempre, all’interno, una sorta di superproprietà della Comunità nel suo insieme, anche se la ripartizione successiva non si arresta alla semplice proprietà comunitaria e riconosce la proprietà privata”. In altri termini, “è l’appropriazione fondiaria il primo, imprescindibile momento nella formazione e nel consolidamento del potere sovrano, nella fondazione cioè di uno stabile ordine unitario; la collettività si costituisce politicamente in primo luogo mediante la presa di possesso di un territorio, che comporta la riserva a sé di ogni facoltà di uso e di godimento del suolo, di tal che ogni eventuale distribuzione agli individui ed ai gruppi dipende da atti di decisione sovrana, è atto sovrano” (Mario Esposito, I beni pubblici cit., pag. 86).

E’ poi da ricordare che, a proposito di questo rapporto sovranità-proprietà, la dottrina (P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pag. 76 ss.), oltre all’elemento dell’appropriazione del territorio, ha posto in rilievo, specie per quanto riguarda il Popolo Romano, l’importanza della coesione del gruppo. Infatti, se si tiene presente che la proprietà collettiva ha preceduto quella privata, come ha dimostrato il Niebuhr (citato da P. Catalano, Populus Romanus Quirites, pag. 79), appare evidente che “l’appartenenza della terra all’individuo è mediata dal suo essere membro della comunità…il suo rapporto con la proprietà privata è un rapporto con la terra, ma al contempo con la sua esistenza in quanto membro della Comunità”. Inoltre è opportuno ricordare che Karl Marx, noto cultore del diritto e della storia di Roma (citato da Catalano, o. c. , pag. 78 s.), precisa che “la terra è occupata dalla comunità; una parte rimane alla comunità, come tale distinta dai membri della comunità, ager publicus nelle sue diverse forme; l’altra parte viene divisa e ogni particella di terreno è in tanto romana in quanto essa è proprietà privata, dominio di un romano, quota a lui appartenente; d’altro lato, egli è romano solamente in quanto possiede questo diritto sovrano su una parte della terra romana”.

Decisivo, per la mentalità romana, è, come si è accennato, il rapporto tutto-parte, il rapporto cioè comunità-cittadino, per il quale il civis partecipa della sovranità della Comunità, ed, in quanto “parte” della comunità, non solo ha l’uso dell’ager publicus Populi Romani, ma può anche diventare “dominus ex iure Quiritium” esercitando sul fondo gli stessi poteri sovrani della comunità, cioè un “ius utendi, fruendi, abutendi”, che consente di attribuire al “fundus” medesimo gli stessi attributi di Giove: “Optimus Maximus”.

Questa mirabile connessione, assolutamente democratica, tra sovranità e proprietà viene meno nel medio evo, nel quale la proprietà viene scissa in “dominium eminens”, spettante al Sovrano, e nel quale vengono trasferiti i poteri sovrani inerenti alla proprietà, e “dominium utile”, spettante a chi ha l’uso della terra (così, molto acutamente, Mario Esposito, o. c., pag. 87 ss.). Si è parlato, al riguardo, di “uno schema antropologico” (P. Grossi, voce Proprietà (dir. int.), in Enc. Dir., Milano 1988, vol. XXXVII, pag. 240), che postula una originaria e potenzialmente sempre presente comunione di beni, così come postula la necessaria appartenenza collettiva della summa potestas. E’ importante comunque precisare che anche nel medio evo non venne mai meno, accanto alla cosiddetta “proprietà divisa” (dominio eminente e dominio utile), la proprietà collettiva di aggregati di persone: le Magnifiche Regole alpine, gli Usi civici, le Università agrarie, e così via dicendo. E queste forme di proprietà, benché avversate in tutti modi dal pensiero giuridico borghese, sono tuttora presenti in Italia ed in molte altre parti del mondo. Notava il Cattaneo (C. Cattaneo, Su la bonificazione del Piano di Magadino, in Scritti economici a cura di A. Bertolino, Firenze 1956, vol. III, pag. 187 s.), che “questi non sono abusi, non sono privilegi, non sono usurpazioni: è un altro modo di possedere, un’altra legislazione, un altro ordine sociale, che, inosservato, discese da remotissimi secoli sino a noi” (sull’argomento, vedi l’insuperabile volume di P. Grossi, Un altro modo di possedere, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano 1977).

Di comunità statale, si parlerà comunque soltanto dopo Hobbes, con il quale “la specifica dimensione giuridica della statualità è definitivamente posta al centro della speculazione filosofico-giuridica ed il costituzionalismo (ammesso che prima sia davvero esistito quanto tale) proclama apertamente la propria pretesa” (M. Luciani, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, pag. 1643).

Le cose cambiano dopo la rivoluzione francese, che, come tutti sanno, fu una rivoluzione borghese. Non ostante il fine della legge del 1790 fosse quello di trasferire l’appartenenza del territorio dal Sovrano alla Nazione, per l’utile di quest’ultima, che è un utile collettivo per definizione, in realtà il comunitarismo viene offuscato e trionfa l’individualismo. Conseguentemente la proprietà collettiva è posta nel dimenticatoio e domina la proprietà privata, nella quale sembra concentrarsi o, meglio, persiste il ricordo di quegli antichi poteri sovrani, fino al punto di essere considerata un diritto naturale inviolabile. Acutamente osserva il Grossi (P. Grossi, o. c., pag. 8) che “al contrario della civiltà medievale…., la nuova civiltà….fa soltanto i conti con chi ha…e il proprietario subisce per il solo possesso dei beni una palingenesi che lo separa dai mortali e lo colloca tra i modelli….Se si aggiunge che l’operazione culturale è affiancata da una efficace operazione politica che vede lo Stato garantire generalmente le ricchezze a chi legittimamente le detiene e fondarsi sul consenso degli abbienti, si capisce quanto l’idea della proprietà come diritto naturale e del proprietario come cittadino per eccellenza mettesse radici saldissime; quelle radici che il profilo ideologico corroborava in maniera profonda”. Cittadino pleno iure diventa, insomma soltanto il cittadino che sia anche proprietario.

Notava Marx (K. Marx, Forme economiche precapitalistiche, trad. G. Brunetti, Roma 1967, pag. 90 ss.): “nella società borghese il lavoratore, ad esempio, si trova senza un’esistenza obiettiva, esiste solo subìettivamente; ma la cosa che gli si contrappone è ora diventata la vera comunità, che egli cerca di divorare e dalla quale viene divorato”.

E’ su questi presupposti borghesi che si fondano, sia lo Statuto albertino, secondo il quale “tutte le proprietà senza alcuna eccezione sono inviolabili”, sia il codice civile del 1865, secondo cui “la proprietà è il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”. Tali definizioni, come agevolmente si capisce, derivano dall’indirizzo politico-filosofico dell’individualismo francese: si tratta di un individualismo esasperato, come è evidenziato dall’espressione “nella maniera più assoluta”.

Un notevole passo avanti è fatto dal codice civile del 1942, il quale, nel definire la proprietà, non dà una definizione statica riferita alle cose, ma una definizione dinamica riferita al “proprietario” ed ai limiti che sono posti ai suoi poteri. Si legge, infatti, all’art. 832 c. c., che “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Non si volle parlare di “funzione sociale” della proprietà, “tuttavia fu modificata la formula del codice del 1865: si inserì, nella definizione dei poteri del proprietario l’espressa menzione dei limiti e degli obblighi e si rinviò all’ordinamento considerato nella sua totalità” (P. Rescigno, Per uno studio sulla proprietà, in Rivista di diritto civile, Padova 1972, parte prima, pag. 33).

Compare, come si nota, un principio solidaristico, ma, come è stato puntualmente notato, (P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della proprietà, Napoli 1971, pag. 65), il codice civile del 1942 si ispira ad una ideologia solidaristica di carattere soltanto produttivo ed economico e certamente non personalistico.

Nel quadro che si è delineato, appare evidente che, nel regime codicistico, la proprietà privata, unitariamente e graniticamente concepita, è un concetto che mira a togliere cittadinanza giuridica alla proprietà collettiva, la quale può mascheratamene rintracciarsi soltanto in quel tipo di proprietà che è definita “demaniale” e che appartiene formalmente allo Stato-persona, considerato come persona giuridica unitaria, titolare di un diritto di proprietà individuale, ma sostanzialmente allo Stato-comunità, cioè all’intera Collettività (P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Rimini 1990, pag. 134).

4. Su questo stato di cose venne ad incidere la nuova Costituzione della Repubblica italiana. Essa, come è noto, dette grande impulso al valore della persona umana, e, quindi, alla solidarietà politica, sociale ed economica, di carattere personale, ma non riuscì ad introdurre la nozione di proprietà collettiva, limitandosi a porre limiti molto consistenti alla proprietà privata in nome dell’utilità generale e del preminente interesse generale (artt. 41, 42, 43 Cost.), e precisando inoltre che “la proprietà è pubblica e privata” (art. 42 Cost., primo alinea).

In sede costituente, infatti, come ha osservato il Rodotà (S. Rodotà, Rapporti economici, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, artt. 41-44, Tomo II, Bologna 1982, pag. 166 s.), “viene subito eluso lo scoglio della proprietà collettiva, che non compare né nell’iniziale proposta dell’On. Togliatti, né nella successiva formulazione dell’On. Dossetti e neppure nel testo poi concordato ed approvato; questa manifestazione di realismo politico su un punto indubbiamente scottante provocò la critica dell’On. Giovanni Lombardi, che lamentava appunto la mancanza di uno spiraglio per la proprietà collettiva…Il progetto di Costituzione fa rapida giustizia di tutte le formule più controverse. Particolarmente significativo appare il mancato accoglimento di qualsiasi formula che rinviasse a forme di gestione collettiva e associata dei beni: sopravvivono <le comunità di lavoratori ed utenti> nel diverso contesto dell’art. 43 e cambia assai, nel quadro dell’art. 45, il senso della disciplina della cooperazione, visto che scompare del tutto il riferimento alla proprietà cooperativa, che pure era stata lungamente associata nelle diverse proposte a quella piccola proprietà che invece riesce a trovare nell’art. 44 un suo posto privilegiato. Questa conclusione non è sorprendente per chi tiene conto del logoramento delle condizioni politiche necessarie per sorreggere l’esplicita affermazione di forme collettive di proprietà, così come per chi conosce l’estraneità alla gran parte della nostra cultura giuridica di quella particolarissima problematica”. Basti pensare che, almeno sul versante civilistico, il tentativo costante era stato quello di ridurre tutto alla proprietà solitaria, parlandosi di reliquie, tracce, residui della proprietà collettiva. Soltanto il poderoso lavoro di Paolo Grossi: “Un altro modo di possedere”, riuscì davvero a rivalutare il concetto della proprietà collettiva.

Il Legislatore costituente, in altri termini, si limitò ad ammettere l’istituto proprietario in forma generica e, si direbbe, onnicomprensiva (“La proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”), ponendo una “riserva di legge” solo per quanto riguarda la disciplina della proprietà privata, per la quale il legislatore ordinario avrebbe dovuto determinare i “modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Ed a questo punto è da sottolineare una considerazione di fondamentale importanza. Infatti, la Costituzione, pur proclamando solennemente, come poco sopra si è detto, che “la proprietà è pubblica e privata”, nel dettare il regime della proprietà prende in considerazione soltanto la proprietà individuale o solitaria che dir si voglia, ponendo soltanto a carico di questa i vistosi limiti di cui si è sopra parlato. In altri termini, essa non disciplina la proprietà collettiva, pur se questa, almeno nella maggioranza dei casi, rientri nel concetto di “proprietà pubblica”, ma si occupa soltanto della proprietà individuale privata. Il che consente di affermare che, per quanto attiene alla proprietà collettiva ed, in particolare, al demanio (ed ai beni patrimoniali indisponibili che ad esso possono agevolmente essere equiparati), la Costituzione non pone limite alcuno, proprio per il fatto che l’uso di tali beni soddisfa direttamente i bisogni di una certa Comunità, o dell’intera Comunità nazionale; mentre, d’altro canto, non si pone neppure la necessità di stabilirne i modi di acquisto, considerato che la proprietà collettiva può nascere in modo originario, per il fatto stesso che vengono in essere taluni beni naturali, come avviene per il demanio idrico e per il demanio marittimo, oppure può esistere ab immemorabili, com’è per le classiche forme di proprietà collettiva riferite a gruppi di residenti in un determinato territorio.

Puntuale è, a questo proposito, la osservazione di Cerulli Irelli (V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova 1983, pag. 25), il quale precisa che né nel testo costituzionale, né tra i principi del diritto positivo “è rinvenibile una norma che afferma essere in principio riservate le cose appropriabili al dominio privato: così da rendere necessaria (per le proprietà collettive) una espressa normativa di deroga. Che anzi, semmai, è vero l’opposto, ché, sul versante costituzionale, la proprietà privata in tanto è riconosciuta e tutelata in quanto, nelle varie discipline delle varie categorie di beni, essa, come modello, riesce ad assicurare dei beni stessi la funzione sociale, nonché a renderli accessibili a tutti; e, sul versante della legislazione ordinaria, vige piuttosto il principio del diritto potenziale di dominio dello Stato su tutto il territorio, sancito dall’art. 827  del codice”.

In fondo, è nella “sovranità” popolare, di cui all’art. 1 della Costituzione, e cioè in quel fascio di poteri che spettano al Popolo, che si innesta il fondamento costituzionale, sia della proprietà privata, sia della proprietà collettiva: lo conferma il fatto “che il civis è titolare delle quote di ogni rapporto facente capo nella collettività, secondo un modello che affonda le radici nel diritto romano” (A. Di Porto, Interdetti popolari e tutela delle res in usu publico, in Atti del seminario torinese in memoria di Giuseppe Provera, Napoli 1994, pag. 518). Come si nota, riemerge nella nostra Carta costituzionale quell’antico rapporto “sovranità-proprietà”, che ha caratterizzato l’intera evoluzione della storia proprietaria, con l’unica cesura della legislazione del periodo borghese, che va dalla prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 fino all’entrata in vigore della Costituzione del 1948.

Venendo alle disposizioni che la Costituzione detta esclusivamente per la proprietà privata, è da dire che ciò che maggiormente interessa il legislatore costituente è che la ricchezza privata venga distribuita secondo un principio di eguaglianza. Fondamentale, dunque, è il riferimento  all’art. 3, comma secondo, della Costituzione, secondo il quale “è compito della Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli di carattere economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza di tutti i cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Per raggiungere questo scopo, la Costituzione, si ispira ai criteri “dell’utilità sociale” (art. 41 Cost.), “dell’interesse generale” (art. 42 Cost.) e “del preminente interesse generale” (art. 43 Cost.) e stabilisce che la proprietà privata può esistere solo se ed in quanto se ne assicuri la “funzione sociale” e l’ “accessibilità a tutti”. Recita infatti, il citato articolo 42, comma secondo, della Costituzione, che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (art. 42 Cost.).

Inoltre, sempre per realizzare l’eguaglianza economica e sociale, la Costituzione, in aderenza alla disposizione di cui all’art. 17 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (che prevede la “proprietà personale” come diritto inviolabile), pone norme a favore della piccola e media proprietà, disponendo, all’art. 44, che “la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive”. A detta disposizione, relativa alla proprietà terriere privata, si collega poi l’art. 47 Cost., secondo il quale la Repubblica “favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.

Dal complesso delle citate disposizioni costituzionali emerge con sufficiente chiarezza che la Costituzione non tutela affatto la proprietà cosiddetta parassitaria, ed impone al titolare di una proprietà di grandi dimensioni di impiegarla allo scopo di perseguire la sua funzione sociale (ad esempio, l’occupazione di lavoratori), mentre ogni cittadino ha il diritto sociale fondamentale ad ottenere la proprietà dei beni necessari per una esistenza “libera e dignitosa” (art. 36 Cost.), una proprietà definita dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 “proprietà personale”.

Il diritto alla proprietà privata è, conseguentemente, scorporato dai diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost. La proprietà privata non è un diritto umano inviolabile, che precede l’ordinamento giuridico, ma è un diritto che in tanto esiste in quanto la legge lo riconosca e garantisca subordinandolo allo scopo di assicurarne la “funzione sociale”. Giustamente osserva il Rodotà (S. Rodotà, Rapporti economici, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna 1982, pag. 118): “se l’analisi del testo costituzionale, della sua sistematica complessiva e dei lavori preparatori hanno una qualche rilevanza, tutto concorda nell’imporre l’esclusione del diritto di proprietà da quei diritti inviolabili dell’uomo di cui parla la Costituzione all’art. 2”. Non per niente, in quest’ultimo caso, la Costituzione usa l’espressione “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2, primo alinea), mentre nel caso della proprietà privata la stessa Costituzione usa l’espressione “la Legge riconosce e garantisce la proprietà privata”, fissandone i limiti.

Dunque, il futuro di questo istituto è pienamente rimesso alla volontà del legislatore ordinario, il quale, ovviamente, sarà tenuto ad agire in conformità dello spirito delle sopra ricordate disposizioni costituzionali. Come ebbe ad osservare il Calamadrei (P. Calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e i suoi lavori, in Commentario Calamandrei-Levi, I, XXXV, nonché in Scritti e discorsi politici, pag. 461), “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”.

5. Come si nota da quanto sinora esposto, i Costituenti, pur dichiarando espressamente che “la proprietà è pubblica o privata”, hanno comunque attinto alla summa divisio romanistica tra beni in commercio e beni fuori commercio. Essi, infatti, hanno descritto una complessa disciplina giuridica soltanto per la proprietà privata solitaria, dimostrando così di ben conoscere la distinzione tra proprietà collettiva e proprietà individuale, ed implicitamente ammettendo la dicotomia “beni comuni (incommerciabili) e beni individuali (commerciabili)”.

Diventa, a questo punto, estremamente importante far cenno alla disciplina pubblicistica del demanio, dalla quale ha preso le mosse il nostro discorso, e che, come si è visto, non solo ha un fondamento costituzionale, ma ha anche ad oggetto beni comuni suscettibili di proprietà pubblica e collettiva.

Al riguardo deve innanzitutto ricordarsi che “non esistono beni demaniali se non di proprietà di Enti territoriali: ciò ha la sua base nella tradizione, la quale si collega al fatto che gli Enti territoriali rappresentano le rispettive collettività, e che i beni demaniali furono storicamente assoggettati a un regime particolare proprio in quanto posti al servizio della collettività esprimentesi nell’Ente territoriale” (A. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli 1969, pag. 455). “Dei beni demaniali, alcuni ineriscono a compiti riservati allo Stato e non possono che appartenere allo Stato: sono dunque beni demaniali per natura, e costituiscono il cosiddetto demanio necessario. Vi rientrano i beni del demanio marittimo, quelli del demanio idrico e quelli del demanio militare (art. 822, primo comma, codice civile). Altri beni (i quali potrebbero eventualmente appartenere anche a soggetti diversi) rivestono carattere demaniale soltanto se appartengono a un Ente territoriale (demanio non necessario o accidentale)” (A. Sandulli, o.c., pag. 456). Quanto alle vicende della qualità di bene demaniale, “è chiaro che il problema non ha ragione di essere posto per quei beni, i quali allo stato di natura posseggono sempre e necessariamente il carattere di beni pubblici: per i beni del demanio naturale (fiumi, laghi, ecc.), nonché per le miniere, l’inizio e la fine, rispettivamente, della demanialità e della indisponibilità sogliono coincidere con gli eventi (naturali o artificiali) che ne modificano la preesistente entità (deviazione del corso fluviale, prosciugamento del lago, ecc.)” (A. Sandulli, o. c., pag. 489). Analoga regola vale per il demanio marittimo, a meno che si tratti di zone demaniali che “non siano ritenute utilizzabili per gli usi del mare”, nel qual caso può prodecersi alla sdemanializzazione con decreto interministeriale, ai sensi dell’art. 35 del codice della navigazione.

I beni demaniali, come è noto, sono inalienabili, inespropriabili ed inusucapibili. Essi sono, però, trasferibili da un Ente territoriale ad un altro “tutte le volte che ciò non urti contro la necessità che il bene appartenga ad un ente specifico di una certa categoria, e che, in pari tempo, non venga modificato il suo stato di bene demaniale”, mentre sono assolutamente intrasferibili “i beni che non possono appartenere che al demanio dello Stato (demanio militare; demanio marittimo ed idrico)” (A. Sandulli, o. c., pag. 483).

E’ da notare, in particolare, che la intrasferibilità assoluta dei beni del demanio idrico, del demanio marittimo e del demanio militare dipende dal fatto che questi beni hanno la funzione naturale di soddisfare i bisogni essenziali di tutta la collettività nazionale, assolvendo così ad uno dei compiti essenziali dello Stato. Torna qui evidente la connessione tra sovranità e proprietà collettiva: su questi beni grava, nello stesso tempo, la sovranità e la proprietà del Popolo italiano (come si legge nel Regolamento del 1885, sopra citato), mentre ciascun cittadino, in quanto parte della Comunità nazionale, ha un diritto fondamentale al loro uso, se la funzione del bene lo consente, come avviene per il demanio idrico e per il demanio marittimo (sul collegamento tra “beni comuni” e diritti fondamentali, e su una più onnicomprensiva definizione di “bene comune”, vedi: A. Lucarelli, Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in Quale Stato, I, 2007; Idem, Introduzione: verso una teoria giuridica dei beni comuni, in Rass. Dir. pubbl. europeo, n. 2/2007. Importante ricordare anche l’iniziativa del Comune di Napoli, che, con delibera di Giunta n. 01 del 20 luglio 2011, ha avviato “un processo per la creazione di una rete nazionale ed europea per la definizione di uno “Statuto europeo dei beni comuni”, che sarà oggetto di una proposta di iniziativa dei cittadini europei alla Commissione”).

6. Sorprende, pertanto, che il decreto legislativo  del 28 maggio 2010, emesso in attuazione, in particolare, dell’art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42, e relativo al cosiddetto “federalismo demaniale”, preveda, all’art. 3, comma 1, lett. a), che “sono trasferiti alle Regioni, unitamente alle relative pertinenze, i beni del demanio marittimo….ed i beni del demanio idrico”, ed alla lett. b) dello stesso comma che “sono trasferiti alle Province, unitamente alle relative pertinenze, i beni del demanio idrico….limitatamente ai laghi chiusi privi di emissari di superficie che insistono sul territorio di una sola Provincia, e le miniere….che non comprendono i giacimenti petroliferi e di gas e le relative pertinenze, nonché i siti di stoccaggio di gas naturale e le relative pertinenze”.

Questi beni, ai sensi dell’art. 4, comma 1, dello stesso decreto legislativo, vengono trasferiti ai demani regionali e provinciali e la loro sdemanializzazione, ai sensi dell’art. 829 del codice civile, “con eventuale passaggio al patrimonio” disponibile delle Regioni e delle Province “è dichiarata dall’amministrazione dello Stato”.

Dunque i beni del demanio statale idrico e marittimo, i quali, come si è visto, sono “assolutamente intrasferibili”, in quanto servono a bisogni primari dell’intera Comunità nazionale ed assolvono ad una funzione primaria dello Stato, vengono, non solo trasferiti al demanio di  Regioni e Province, ma anche, eventualmente, immessi nel patrimonio disponibile di questi Enti, divenendo così “alienabili” e dando luogo ad una delle più insospettabili “privatizzazioni” ai danni dell’intera Comunità nazionale.

Inoltre, finché i beni in questione restano nel demanio regionale o provinciale (per quanto riguarda i laghi chiusi), ai sensi dell’art. 2, comma 4, dello stesso decreto legislativo, “l’Ente territoriale, a seguito del trasferimento, dispone del bene nell’interesse della collettività rappresentata ed è tenuto a favorire la massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della medesima collettività territoriale rappresentata”.

Insomma, i beni del demanio statale idrico e marittimo, vengono immediatamente, attraverso il trasferimento, sottratti alla proprietà ed all’uso dell’intera Comunità nazionale, per essere poi eventualmente sottratti  anche alla proprietà ed all’uso dei residenti nel territorio regionale o provinciale, a favore dei privati che risultino acquirenti a seguito delle privatizzazioni.

Si tratta di provvedimenti legislativi di gravità eccezionale, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione. Questa, come si è visto, mira ad un’equa ripartizione dei beni tra tutti i cittadini, ispirandosi al principio di eguaglianza sostanziale ed ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico. Il decreto legislativo in esame, invece, toglie a tutti i cittadini italiani, per favorire, in un primo momento, i residenti in ogni singola Regione, ed, in un secondo momento, addirittura singoli privati cittadini.

La violazione della Costituzione riguarda inoltre singoli articoli della stessa. Innanzitutto, è violato l’art. 76 Cost. per aver il Governo ecceduto dai limiti imposti dalla legge di delega (art. 19 della legge n. 42 del 2009). Inoltre, risultano violati i seguenti articoli: l’art. 1 Cost., in quanto viene lesa la sovranità della Repubblica e quella che Carl Schmitt denominava la “superproprietà” del Popolo sovrano; art. 2  Cost., in quanto, sottraendosi a tutti i cittadini italiani la proprietà collettiva e l’uso di beni necessari per soddisfare esigenze primarie della vita, si ledono diritti inviolabili relativi all’esistenza ed allo sviluppo della persona umana; l’art. 3 Cost., in quanto si creano molteplici disparità di trattamento fra i cittadini italiani; l’art. 5 Cost., in quanto, dividendo ingiustamente il demanio statale tra le varie Regioni e Province, si sottrae una parte del territorio alla Repubblica; l’art. 42 Cost., in quanto si sottrae indebitamente alla Comunità nazionale la proprietà e l’uso di beni appartenenti a tutti; l’art. 43 Cost., in quanto si sottraggono allo Stato-comunità beni di “preminente interesse generale”; l’art. 117, comma secondo, lett. l), in quanto, non si prescinde dai confini territoriali dei governi locali, per offrire servizi naturali di uniforme livello essenziale a tutti i cittadini italiani; l’art. 120 Cost., in quanto si infrange l’unità economica e giuridica della Repubblica. E, lo si creda, l’elenco potrebbe continuare.

7. In tutt’altra direzione avrebbe dovuto, invece, procedere il legislatore. La “rivoluzione promessa” della quale parlava il Calamandrei, piuttosto che togliere a tutti per dare a pochi, avrebbe dovuto realizzarsi nel senso di assicurare a tutti il massimo benessere possibile. Ed, a questo fine, non è chi non vede che la via migliore sarebbe stata quella di incrementare l’appartenenza e l’uso di beni comuni. I fini essenziali della Costituzione, e cioè lo sviluppo della persona umana ed il progresso materiale e spirituale della società, richiedono infatti in primo luogo che si impedisca che la proprietà di uno o di pochi possa limitare il soddisfacimento dei bisogni essenziali di tutti, sia quelli materiali, sia quelli spirituali. E qui è da porre l’accento, non solo sui beni materiali, come il demanio, ma anche sui beni immateriali, quali i brevetti, la proprietà intellettuale, l’informazione, la comunicazione e così via dicendo. I diritti inviolabili dell’uomo, alla cui tutela la Costituzione dedica la sua prima parte, possono facilmente essere limitati, o addirittura soffocati, dall’enorme potenza economica di pochi, i quali posseggono oramai molto più della ricchezza di tutti gli Stati complessivamente considerati. Di fronte alla potenza incontrollabile della speculazione di pochi accentratori di grandissime ricchezze, è ora di opporre la forza del diritto, che risiede nel sostegno convinto della volontà comune della Nazione.

L’equa distribuzione tra tutti della proprietà personale e l’incremento dei beni comuni, materiali ed immateriali, potrebbero essere gli strumenti più idonei per realizzare, almeno in parte, una concreta giustizia sociale.

 

*Destinato alla pubblicazione su Giurisprudenza Costituzionale

prof. Paolo Maddalena, giurista e magistrato, vice-presidente emerito della Corte Costituzionale.

Capire le rivolte arabe

$
0
0

Si è tenuto giovedì 6 ottobre 2011 alle ore 21, a Firenze presso il Circolo Vie Nuove di Viale Donato Giannotti 13, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe.

Sono intervenuti come relatori Daniele Scalea (co-autore del libro, segretario scientifico dell’IsAG e redattore di “Eurasia”), Giovanni Armillotta (direttore di “Africana”) e Vincenzo Durante (assistente ordinario, Università degli Studi di Firenze).

L’organizzazione è stata a cura del Circolo Vie Nuove e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). L’evento rientra nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.



La Sfida di Abū Māzen: la Palestina nell’ONU

$
0
0

Sono passati 37 anni dal momento in cui, per la prima volta, venne rivendicato il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese nel più grande consesso internazionale. Da allora ad oggi, l’annosa questione ha attraversato numerose trattative senza mai giungere alla costituzione dello stato palestinese né all’approvazione del tanto agognato diritto al ritorno. Il travagliato processo di pace dimostra oggi il suo insuccesso: per la terza volta, il leader palestinese si presenta all’ONU per chiedere il riconoscimento ufficiale dello stato palestinese.

 

Sogni e speranze all’ONU

Era il 13 novembre del 1974, quando, Yāsir ʿArafāt, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, portò l’emergenza palestinese sotto i riflettori del palcoscenico internazionale. Un ʿArafāt appassionato e pungente incriminava i soprusi israeliani compiuti contro il suo popolo e annunciava l’emergenza dello stato palestinese. La Risoluzione che aveva permesso l’invito del leader palestinese era stata approvata a larga maggioranza, con 82 voti a favore, 4 contrari e 20 astenuti. “Sono venuto con un ramoscello d’olivo in una mano e un fucile da combattente nell’altra: non lasciate cadere il ramoscello d’olivo”, furono le celebri parole che inaugurarono l’orazione del leader. Una parte del mondo di allora si alzò in piedi per accoglierlo in un clima di applausi e ovazioni. In realtà, il precedente vertice arabo di Rabat, dell’ottobre del 1974, aveva già sancito il diritto del popolo palestinese ad un’autorità indipendente. Al discorso di quell’anno, seguirono non pochi successi diplomatici per il rappresentante del popolo palestinese. L’OLP venne presto riconosciuta come osservatore presso l’Assemblea Generale e ottenne il titolo di rappresentante legittimo del popolo palestinese all’interno della Lega Araba. Nel 1975, l’ONU approvò la Risoluzione 3.379 che qualificava il sionismo come forma di razzismo e di discriminazione razziale[1]. L’anno successivo, la Palestina venne ammessa alla discussione sul Medio Oriente in seno al Consiglio di Sicurezza. A quei tempi, l’inflessibile raìs sembrava molto meno disposto al compromesso. Tuttavia, ottenne un protagonismo non indifferente. Sebbene le risoluzioni dell’Assemblea non abbiano efficacia vincolante, allora ebbero una forza morale che promosse la causa palestinese agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

 

Eppure, l’eredità di quegli sforzi diplomatici venne cancellata in breve tempo. I primi anni Ottanta furono la premessa di una nuova tragedia: nel 1982 Israele scatenò l’operazione “Pace in Galilea” contro il Libano. Nel corso dell’occupazione di Beirut, l’allora Ministro alla Difesa, Ariel Sharon, invitò la milizia falangista, legata alla nota famiglia libanese Gemayel, a sferrare l’attacco contro i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Fu una carneficina: rastrellamenti, stupri, mutilazioni, massacri, torture e umiliazioni. La strage fu compiuta indisturbatamente dal 15 settembre al 18 settembre del 1982. Novecento persone furono trucidate. Senza pietà.

 

Gli equilibri si fecero sempre più precari. Nel 1987 scoppiò la prima rivolta popolare spontanea dei palestinesi contro l’occupazione israeliana. Le tensioni si riaccesero e fu proprio in questa circostanza che il XIX Consiglio Nazionale Palestinese-CNP approvò, nel novembre del 1988, ad Algeri, la Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Palestina con capitale a Gerusalemme. Nel dicembre dello stesso anno, ʿArafāt tornò a parlare all’Assemblea Generale convocata, questa volta, a Ginevra, a causa del rifiuto, da parte degli Stati Uniti, di concedere il visto al leader palestinese. ʿArafāt lesse le decisioni del Consiglio all’Assemblea ribadendo che la risoluzione del conflitto sarebbe passata attraverso  la creazione di uno stato palestinese sui Territori Occupati. In questo modo, come aveva già fatto in precedenza il CNP, il leader dell’OLP riconosceva l’ammissibilità della risoluzione 242 e, quindi, ammetteva il ritiro dai soli Territori Occupati dal 1967. L’OLP aveva ufficialmente accettato queste posizioni rinunciando alla metà delle proprie terre. Il compromesso di ʿArafāt fu apprezzato dalla comunità internazionale tanto da ricevere diversi inviti ufficiali, tra cui, quello più celebre, del Presidente francese, François Mitterrand. Il 1988 era parso un anno favorevole all’azione diplomatica. Nonostante la svolta egiziana, ancora molti paesi arabi dimostravano il proprio sostegno alla causa attraverso pubbliche dimostrazioni. I successi dell’Intifada e le precarie condizioni dei governi di unità nazionale israeliani fecero pensare si stesse profilando, per una seconda volta, la possibilità di dare ascolto alla causa dell’OLP.

 

L’illusione di Oslo

 

Ancora una volta, l’azione diplomatica entrò in crisi. L’arrivo degli ebrei sovietici compromise maggiormente la condizione dei palestinesi. La Guerra del Golfo fece altrettanto. Si arrivò a nuovi negoziati nei primi anni Novanta, in un primo tempo, a Madrid e, poi, in Norvegia.

Il processo di Oslo venne salutato come un accordo di pace siglato tra le due parti. Questa fu la ragione per la quale, nel 1993, il mondo intero assistette alla stretta di mano tra  ʿArafāt e Yatzhak Rabin alla Casa Bianca con occhi quasi commossi. Da un lato, è facile comprendere quanto questo incontro, giunto mediaticamente dentro le case di tutti i cittadini del mondo, abbia suscitato emozione. D’altra parte, quell’evento, così propagato, non trasmetteva il reale significato della sua consistenza. Per tale ragione, è bene domandarsi quale fosse il vero contenuto della Dichiarazione dei Principi firmata a Oslo. Questa, infatti, non soddisfava le componenti in gioco, né le secolari richieste del popolo palestinese, piuttosto stabiliva l’orientamento che avrebbe dovuto guidare le future trattative[2]. Nello specifico, il documento contemplava la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese-ANP alla quale sarebbe stata affidata la giurisdizione sull’istruzione, cultura, salute, stato sociale e ordine pubblico. Israele avrebbe continuato a detenere la potestà sui coloni, sull’apparato militare, sulla difesa e sulla politica estera dei Territori Occupati. Inoltre, la Dichiarazione rinviava a ulteriori accordi i dettagli sul ritiro delle forze israeliane e le modalità di svolgimento delle elezioni dell’ANP. Infine, future negoziazioni avrebbero discusso il diritto al ritorno, la questione di Gerusalemme Est, il problema degli insediamenti, il controllo delle frontiere, la gestione delle risorse acquifere e la creazione dello stato palestinese entro cinque anni.

Polemiche a parte, la Dichiarazione non sanciva la pace, piuttosto stabiliva le direttive che il percorso successivo avrebbe dovuto attraversare allo scopo di raggiungere la pace. In questo atto, tuttavia, ʿArafāt rinviò una delle questioni più dolorose, quale il diritto al ritorno, ad un futuro ed eventuale accordo che, ad oggi, non è mai stato siglato. Stessa sorte è toccata alla dolente questione di Gerusalemme Est e alla costruzione dell’entità statuale. Come è noto, infatti, l’ANP, priva di sovranità sul territorio e sul suo popolo, non si è mai configurata come uno stato.

Allo stesso tempo, mentre Israele otteneva il riconocimento legittimo da parte dell’OLP, Oslo sanciva la fine dell’Intifada. In cambio, l’OLP non ha mai ottenuto uno stato, Tel Aviv l’ha riconosciuto come legittimo rappresentante del popolo palestinese, ma non ha mai ammesso la legalità di un eventuale stato arabo. Lo definì molto bene Edward Saïd il quale intravide, nel processo di pace del 1993, uno strumento giuridico che avrebbe consentito ad Israele di sostituire il suo dominio diretto con una forma di controllo indiretta sui Territori Occupati. In effetti, la costituzione dell’ANP ha permesso ad Israele di affrancarsi dai suoi doveri di potenza occupante, sanciti da tutte le convenzioni internazionali.

 

Il discorso di Abū Māzen

 

Il fallimento del decantato processo di pace, ad anni di distanza dal suo inizio, mostra chiaramente le sue storture. La teoria dei “due popoli, due stati”, a cui si ispirava Oslo, non è mai giunta al suo compimento. Per la terza volta, la questione palestinese è tornata al centro dell’arena internazionale. Il 23 settembre scorso, il leader palestinese Abū Māzen, ha presentato una richiesta di riconoscimento dello Stato Palestinese sulla base della storica Dichiarazione del suo predecessore.

La mossa del leader palestinese si inserisce in un intricato quadro di avvenimenti. Da un lato, la rilevanza di Israele, sempre più offuscato dal protagonismo turco e dagli eventi dello scenario regionale, retrocede in secondo piano. D’altra parte, gli Stati Uniti portano con sè l’eredità del discorso del 2009 a Il Cairo di Barak Obama il quale, denunciando le sofferenze dei palestinesi, si pronunciò a favore di uno stato indipendente. Per tali ragioni, il discorso del presidente statunitense lasciò lasciato spazio a grandi aspettative da parte palestinese.

In secondo luogo, i diciotto anni di negoziazioni hanno amplificato lo squilibrio nelle relazioni tra Israele e ANP rimarcando la componente debole e quella forte. L’iniziativa di  Abū Māzen, pertanto, sembra intenda correggere questa sproporzione condizionando la consapevolezza della comunità internazionale e ponendo il problema direttamente davanti alla coscienza mondiale.

Tuttavia, la comunità ebraica dimostra di avere un peso notevole anche in tale sede: gli Stati Uniti hanno già annunciato che ricorrano all’esercizio del veto all’interno del Consiglio di Sicurezza. Il presidente Obama, tradendo il celebre discorso del 2009, ha ammesso la possibilità dello stato palestinese ribadendo che questa si sarebbe concretizzata solamente attraverso Israele. È una formula che, nella torturata strada del processo di pace, si è affermata più volte, vale a dire, un negoziato che, fin dal principio, è succube delle rigide condizioni israeliane. In sintesi, le trattative che sono state perseguite e che continuano a profilarsi sono quelle secondo clausole israeliane: sì allo stato, ma con confini, acqua, insediamenti, politica estera, difesa e Gerusalemme nelle mani di Tel Aviv.

 

Le parole del leader palestinese all’ONU hanno rievocato la catastrofe del 1948, la Naqba, e la pesante impresa coloniale di Israele. Dopo aver condannato l’embargo contro Gaza e aver ricordato la tragica operazione Piombo Fuso contro la Striscia, Abū Māzen ha denunciato la persistente occupazione degli insediamenti israeliani, politica che rappresenta un ostacolo a qualunque manovra di pace. Sebbene meno carismatico del suo precursore, il discorso di Abū Māzen si inseriva nello stesso indirizzo dei precedenti. Ile sue parole, infatti, sono riconducibili alla tesi dei due stati sulla base dei confini del ’67. Tuttavia, ad oggi, tale politica non ha avuto riscontri concreti. Alla luce di ciò, il discorso del leader è parso, secondo alcuni, come una richiesta di elemosina ad un organo che conosce, fin dal suo inizio, il verdetto. Scardinare lo status quo significherebbe incidere su un meccanismo di interessi schiavi di Tel Aviv che impediscono di condannarne i soprusi.

Fin dalla sua nascita, infatti, Israele si è legittimata sul piano militare. E, ancora, oggi le violazioni dei diritti dei palestinesi rientrano nell’ambito di una violenza pianificata e organizzata sistematicamente dalla razionalità dello Stato. Ciò significa che stragi e soprusi vengono stabiliti con “ragionevolezza” a tavolino. Questo aspetto, oltre ad essere il più agghiacciante, è anche ciò che rende Israele inattacabile in quanto questo opera  nell’ambito della sua “legalità”. Alla luce di queste considerazioni, il peso del discorso di Abū Māzen non sembra essere significativo. Certamente, le sue parole potrebbero aver scosso la coscienza dell’opinione pubblica. Tuttavia, sebbene anche questo aspetto sia rilevante, la congiuntura prospetta un futuro più incerto che mai. Rimangono profonde perplessità su quanto le parole di Abū Māzen siano capaci di recidere i legami storici e di sovvertire l’ordine decennale costituitosi intorno allo scacchiere geopolitico della sofferente terra di Palestina.

La Turchia dopo lo scacco ai militari

$
0
0

Il 29 luglio scorso resterà nella storia della repubblica turca. Per la prima volta nello storico braccio di ferro tra istituzioni civili ed esercito è stato il secondo a fare un passo indietro: che si tratti di “aria di seconda repubblica” o meno il bastione del modello di stato ataturkiano è stato colpito.

Quel ruolo di arbitro delle faccende politiche che ha spinto l’esercito ad intervenire per ben tre volte nella sfera civile sembra appartenere ormai al passato. Archiviato anche il cosiddetto e-coup, l’avvertimento online contro la candidatura dell’allora ministro degli esteri Gül alla presidenza della repubblica, la Turchia è passata nelle mani di una nuova élite. Un élite che si dice islamica e democratica e che ora eleva con orgoglio l’esperienza politica turca a modello per il nuovo Medio Oriente. C’è chi pensa che dal 2002 la Turchia sia cambiata e che il ruolo dell’esercito debba cambiare a sua volta e chi teme che il cambiamento non sia altro che una mera sostituzione alle redini del paese. Anche il tradizionale scontro tra potere politico e militare segue ormai schemi diversi. Il 29 luglio scorso il Capo di Stato Maggiore Işık Koşaner insieme ai capi dell’esercito, della marina e dell’aeronautica si sono dimessi dai propri incarichi, lasciando scoperti i vertici del secondo esercito più grande della Nato. Questa volta, motivo dello scontro istituzionale è stato il respingimento della promozione di alcuni generali coinvolti nel processo “Balyoz”. Il cosiddetto “piano Balyoz”, piano martello, è un presunto progetto di destabilizzazione economica e sociale risalente al 2003 che avrebbe creato le condizioni necessarie all’intervento militare. Con la scoperta del piano, avvenuta nel 2010 durante l’inchiesta Ergenekon, e l’apertura delle investigazioni, sono state arrestate circa 200 persone tra militari in servizio e ufficiali in pensione. Teatro del nuovo scontro, lo YAS (Yüksek Askeri Şuma), il consiglio militare supremo dove vengono discussi gli avanzamenti di grado e dove, questa volta, Erdoğan è stato ritratto sedere a capotavola da solo invece che alla destra del Capo di Stato Maggiore come di norma. Il vuoto dei vertici è stato rapidamente colmato con la nomina di Necdet Özel, unico generale a non essersi dimesso, come capo delle forze armate. Ciò che è innegabile è l’inizio di un nuovo corso nei rapporti tra militari e politica come dimostra il fatto che in occasione dello “Zafer Bayramı”, il giorno in cui si celebra la vittoria contro la Grecia del 1922, è stato lo stesso Özel a congratularsi con il Presidente Gül e non il contrario. Ad aggravare il colpo ai militari, si è aggiunto poi il caso delle registrazioni contenenti le clamorose dichiarazioni di Koşaner. Nelle intercettazioni, pubblicate su internet pochi giorni dopo l’attentato del 17 agosto che ha visto l’uccisione di dieci soldati per mano del PKK, Koşaner denuncia l’impreparazione dei militari e il mal coordinamento delle operazioni condotte contro la guerriglia separatista. Altre dichiarazioni riguardano la distruzione di documenti relativi al piano Balyoz, documenti che i militari hanno sempre sostenuto appartenere ad un seminario di addestramento poi manipolati per screditare le forze armate. Messo alle strette, l’ex capo di stato maggiore ha voluto rilasciare una dichiarazione pubblica in cui riconosce le affermazioni in oggetto non come una confessione ma come un’auto-critica al funzionamento dell’esercito: “Queste affermazioni erano un’autocritica rivolta a chiarire alcune questioni importanti sul futuro delle Forze Armate, un avvertimento e una motivazione a non commettere gli stessi errori (…) Non ho mai detto che i documenti del piano Balyoz sono stati rubati (…) Come può un piano che non è ancora stato provato essere distrutto? Mi riferivo ai documenti del seminario sul piano di addestramento. Non c’è relazione con il caso Balyoz”(1). La recente richiesta di pensionamento del giudice Şeref Akçay, presidente dell’XI corte penale di Istanbul responsabile delle investigazioni sul caso Balyoz, lascia intravvedere nuovi sviluppi. Il giudice infatti si era opposto agli arresti sostenendo che i sospetti vengano trattenuti troppo a lungo in stato di detenzione e che ciò dimostra che le prove non sono state ancora assemblate(2). Sapere chi abbia pubblicato le dichiarazioni di Koşaner su internet certo aiuterebbe a capire meglio cosa sta succedendo tra militari e politica in Turchia. Erdoğan cavalca l’onda degli ultimi successi, dal referendum plebiscitario del 2010 alle recenti elezioni parlamentari, con le spalle coperte dalla sempre più influente maggioranza conservatrice. D’altra parte l’esercito come istituzione gode sempre di alta considerazione in un opinione pubblica dove il culto del generale padre della patria, Kemal Atatürk, è trasversale agli orientamenti politici. La separazione tra sfera civile è militare è essenziale ad un sistema democratico così come, ai fini di una democratizzazione sostanziale, è fondamentale che questa volta sia la società turca a svolgere un ruolo importante nel processo di riequilibrio istituzionale.

 

*Irene Compagnone è dottoressa in Relazioni e Politiche Internazionali (Università Orientale di Napoli)

 

Note:
1) “Işık Koşaner’den ilk açıklama” (La prima spiegazione di Isik Kosaner), Radikal, 27 agosto 2011,
http://www.radikal.com.tr/Radikal.aspx?aType=RadikalDetayV3&ArticleID=1061575&Date=27.08.2011&CategoryID=77

2) Usta, A. “Emeklilik istedi HSYK oynaladi”( Ha chiesto le dimissioni la HSYK ha dato l’approvazione) , Hurriyet, 6 ottobre 2011. http://www.hurriyet.com.tr/gundem/18912760.asp

 

NATO e Russia alla luce delle nuove dottrine strategiche

$
0
0

A vent’anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dallo scioglimento del Patto di Varsavia (1 luglio 1991) la dialettica politico/militare tra la NATO e l’erede dell’URSS – la Federazione Russa –  ha assunto un minor grado di scontro, basti menzionare la minore diffidenza a livello politico e la creazione del consiglio NATO-Russia.

Malgrado la distensione successiva al periodo della “pax armata sovietico-americana”(1), tuttavia, la rivalità strategica tra le due potenze, emersa dalle nuove dottrine militari elaborate nel 2010, è spiegabile alla luce delle interpretazioni che la geopolitica classica ha fornito all’analisi delle relazioni internazionali (2).

Il Cremlino ha avversato l’allargamento NATO ad Est, dalle repubbliche baltiche alla Mitteleuropa, così come il tentativo di Washington di inglobare Ucraina e Georgia (3) nonché l’intervento dell’Alleanza in Kosovo. Nondimeno, gli USA hanno contestato l’assistenza dell’esercito russo alla popolazione di Abkhazia e Sud Ossezia contro le milizie georgiane. Altra questione controversa, suscettibile di cagionare ulteriori attriti, è lo scudo antimissilistico progettato dall’Alleanza Atlantica per essere installato in taluni Paesi dell’Est Europa, asseritamente in funzione anti-iraniana ma che Mosca considera una minaccia contigua ai propri confini.

NATO: dottrina strategica tra Guerra Fredda e fase unipolare

L’Alleanza Atlantica ha iniziato a parlare di “nuovo Concetto Strategico” nel 1991 rendendo pubblico il superamento della strategia del confronto bipolare – avviato nei primi giorni di esistenza della NATO. Dopo la strategia basata su operazioni di difesa territoriale su larga scala, adottata nei primi anni ’50, e terminata la “strategia di risposta massiccia” della metà degli anni ’50, nel 1967 la NATO ha optato per la strategia della “risposta flessibile” che prevedeva una risposta graduata al danno inferto dal nemico e nello stesso tempo una replica passibile di ascendere fino al ricorso alle armi nucleari. Siffatta strategia è durata sostanzialmente sino al crollo del muro di Berlino, quando si è fatta strada l’idea di aggiornare la strategia della NATO aggiungendo nuove missioni e nuove capacità che la rendessero più efficace al nuovo contesto strategico e politico dell’Europa e, contemporaneamente, consona con i caratteri della sicurezza cooperativa e comprensiva che erano emersi in Europa con il Processo di Helsinki (4).

Il Concetto Strategico del 1999 conferma che lo scopo essenziale e duraturo dell’Alleanza è quello di “salvaguardare la libertà e la sicurezza dei suoi membri con mezzi politici e militari, affermando i valori della democrazia, dei diritti umani e dello stato di diritto”: pur riaffermando le prerogative della strategia precedente, il Concetto elaborato nel 1999 comprende la preservazione del legame transatlantico, il mantenimento di efficaci capacità militari e lo sviluppo di un’identità difensiva e di sicurezza europea all’interno dell’Alleanza (5).

NATO: il “nuovo Concetto strategico” del 2010

Nell’ambito del nuovo Concetto strategico predisposto nel 2010, gli obiettivi principali della NATO sarebbero quelli di migliorare il regime globale di non proliferazione, il taglio degli arsenali nucleari, la lotta al terrorismo, la costruzione di uno scudo di difesa missilistica in Europa, combattendo altresì la pirateria marittima ed i cyber-attacchi. Altri obiettivi includono l’impegno a garantire la sicurezza energetica, la prevenzione del riscaldamento globale terrestre e la protezione delle fonti d’acqua e delle altre risorse naturali. Infine, si auspica una istituzionalizzazione dell’Alleanza che conduca alla realizzazione di un dipartimento NATO presso l’ONU, con annesso l’onere di fornire supporti militari alle operazioni civili delle Nazioni Unite, come del resto è avvenuto dalla prima Guerra del Golfo in avanti.

Il Concetto comprende inoltre un intero capitolo sulla Russia, all’interno del quale si auspica il rafforzamento della cooperazione nell’ambito del Consiglio NATO – Russia, ritenuta insufficiente. La Federazione Russa non è più vista come un nemico ma, d’altro canto, la NATO rifiuta un partenariato con la Russia per non limitare la propria capacità di proteggere i Paesi membri. In quest’ultimo corollario è insito il concetto di rivalità strategica rimarcato dagli strateghi statunitensi sulla base delle teorie geopolitiche di Sir Halford Mackinder e Nicholas Spykman.

La nuova dottrina militare russa

La nuova dottrina militare russa ha introdotto, rispetto alle precedenti versioni della stessa (1993 e 2000), una serie di novità significative per il “reset” delle relazioni con gli Stati Uniti e per la definizione del ruolo che la Russia intende svolgere nell’ambito della sicurezza globale. Malgrado il documento ufficiale del Cremlino non parli esplicitamente di “minaccia della NATO”, in esso viene rubricato alla stregua di “pericolo” l’avvicinamento dell’infrastruttura militare dell’Alleanza Atlantica ai confini russi, per tale intendendosi l’ampliamento dell’Alleanza a Paesi un tempo appartenenti all’Unione Sovietica o alla sua sfera d’influenza, nonché il Membership Action Plan (MAP) previsto per Ucraina e Georgia, volto a raccogliere i progressi fatti nel raggiungere i criteri stabiliti per accedere all’Alleanza.

Nei termini della geopolitica classica, adattati dal massimo esponente vivente della scuola geopolitica americana, Zbigniew Brzezinski, l’avvicinamento “dell’infrastruttura militare della NATO” è configurabile alla stregua di quella destabilizzazione – eterodiretta o manu militari – dei Paesi facenti parte dell’ “arco di crisi” postulato dallo stesso Brzezinski nella sua opera “The Grand Chessboard” (6). Per la verità, la strategia dell’ “arco di crisi” fu teorizzata negli anni ’70 da Bernard Lewis (7), il quale intendeva sobillare contro l’URSS tutti gli Stati islamici che si “estendono lungo il fianco meridionale dell’Unione Sovietica dal subcontinente indiano alla Turchia, e verso sud attraverso la Penisola Arabica fino al Corno d’Africa”; inoltre il “centro di gravità di quest’arco è l’Iran” (8). Peraltro lo stesso Samuel Huntington ammise il suo debito nei confronti di Lewis, riconoscendo di aver tratto l’assunto sullo “scontro delle civiltà” da un articolo pubblicato da Lewis nel numero del settembre 1990 del mensile “The Atlantic” (9).

Nondimeno, nell’elenco delle 11 possibili minacce alla sicurezza e all’integrità della Federazione Russa, ben sei concernono esplicitamente la NATO e la sua interferenza in quella che viene ritenuta la legittima sfera di influenza di Mosca nell’Europa Orientale (10).

Il documento del Cremlino effettua un preciso ragguaglio a proposito dello scudo missilistico che gli USA intenderebbero installare in taluni stati ex-sovietici, definito senza mezzi termini una “minaccia alla stabilità globale” e una violazione “dell’equilibrio delle forze in campo nucleare” (11), categorie all’interno delle quali rientrano la militarizzazione dello spazio cosmico e l’installazione di sistemi strategici non nucleari di armi ad alta precisione.

Una parte sostanziale della nuova dottrina militare russa è dedicata, altresì, alle armi nucleari: questa tipologia di armamenti rimarrà il decisivo fattore di prevenzione dei conflitti militari. La nuova dottrina ammette la possibilità di trasformazione di un conflitto militare ordinario in nucleare, pertanto la Russia si riserverebbe – conformemente alla dottrina del 2010 – il diritto di usare l’arma atomica per neutralizzare l’eventuale uso della forza contro di essa e/o contro i suoi alleati, così come nel caso di “aggressione contro la Russia con armi convenzionali, che minacci l’esistenza stessa dello Stato” (12).

Parallelamente alla dottrina militare, la Federazione Russa ha approvato anche i “Fondamenti della politica statale nel campo del contenimento nucleare”, valevole sino al 2020. Interpretando l’anzidetto documento, il vice segretario del Consiglio di Sicurezza del Paese (ex capo di Stato Maggiore, Generale Juriji Baluevsky) ha asserito che Mosca intende sviluppare tutte le tre componenti della sua triade nucleare difensiva: terreste, marittima ed aerea. L’arma nucleare e i suoi vettori rimangono per il colosso eurasiatico una garanzia dello sviluppo sicuro, della stabilità e del contenimento strategico (13).

Il documento che contiene le linee guida per la Sicurezza Strategica Nazionale (Nss) di medio periodo – pubblicato nel maggio 2009 – si prefigge nello specifico l’obiettivo di controbilanciare la NATO con altre alleanze. In particolare con la OTSC (che raggruppa le repubbliche ex sovietiche), la CSI (comunità dell’ex URSS), l’EurAsEc (comunità economica eurasiatica), la SCO (l’Organizzazione per la Sicurezza di Shanghai, che include la Cina, oltre ad alcune potenze emergenti in qualità di membri osservatori – India, Iran, Mongolia, Pakistan). L’NSS non esclude neppure una possibile partnership con l’Alleanza Atlantica ma, vista l’eterna fase di stallo in cui grava l’unico strumento di raccordo (Consiglio NATO-Russia), suggerisce altri interlocutori occidentali come l’Unione Europea (14).

 

(1) Cit. Bruno Bongiovanni, Storia della guerra fredda, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 26

(2) Per una interpretazione del mondo attuale sulla base delle teorie classiche della geopolitica, si veda: Daniele Scalea, La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali, Fuoco Edizioni, Roma, 2010; Carlo Jean, Geopolitica del caos. Attualità e prospettive, Franco Angeli, Collana “Centro Studi di Geopolitica Economica”, 2007

(3) Cfr. Stefano Grazioli, Lo scudo stellare tra la Russia e la NATO, “East Side Report”, 12/07/2011 (http://esreport.wordpress.com/2011/07/12/lo-scudo-tra-mosca-e-nato/)

(4) Cfr. Fulvio Attinà (a cura di), La politica di sicurezza e difesa dell’Unione Europea. Il cammino europeo dopo il trattato di Amsterdam, Artistic & Publishing Company (collana) CeMISS, Roma, 2001, pp. 200-201

(5) Cfr. The Strategic Concept of Alliance, Nato Handbook (http://www.nato.int/docu/handbook/2001/hb0203.htm)

(6) Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York, 1997

(7) Docente a Princeton, specializzato presso l’Arab Bureau di Oxford, uno dei vivai più esclusivi della geopolitica inglese. Fu anche un ufficiale dei servizi segreti britannici e svolse un ruolo fondamentale come professore, guru e mentore per due generazioni di orientalisti, accademici, esperti dei servizi segreti Usa e britannici, membri di think tank e un assortimento di neo-conservatori

(8) Bernard Lewis, Rethinking the Middle East, in “Foreign Affairs”, Fall 1992, pp. 116-117

(9) Cfr. Bernard Lewis, The roots of muslim rage, in “The Atlantic”, September 1990 (http://www.theatlantic.com/magazine/archive/1990/09/the-roots-of-muslim-rage/4643/). Nell’articolo Lewis spiegava come la “rabbia musulmana” stesse portando “niente di meno che ad uno scontro di civiltà – reazione forse irrazionale, ma certamente storica, di un antico rivale contro l’eredità giudeo-cristiana”

(10) Cfr. Andrea Bogi, La dottrina militare russa: tra vecchie inimicizie e nuove prospettive, “Eurasia online”, 16/02/2010 (http://www.eurasia-rivista.org/la-dottrina-militare-russa-tra-vecchie-inimicizie-e-nuove-prospettive/3237/)

(11) Cfr. The Military Doctrine of the Russian Federation, “The School of Russian and Asian Studies”, 20/02/2010 (http://www.sras.org/military_doctrine_russian_federation_2010)

(12) Ibidem

(13) Cfr. La nuova Dottrina Militare della Russia, ”La Voce della Russia”, 06/02/2010 (http://italian.ruvr.ru/2010/02/06/4593855.html)

(14) Cfr. Stefano Magni, Per Mosca una nuova dottrina, ma la strategia militare di sempre, “LOccidentale”, 22/05/2010 (http://www.loccidentale.it/articolo/dottrina+militare.0091135)

 

* Alessio Stilo, dottore in Scienze Politiche (Università di Messina). Laureando magistrale in Relazioni Internazionali con una tesi sperimentale sulla nuova politica estera turca. Caporedattore del magazine online “LaSpecula”, collabora con il think tank “Geopolitica.info”

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il ritorno di Putin segna un mutamento strategico della Russia

$
0
0

Fonte: Réseau Voltaire

L’annuncio che il presidente russo Dmitrij Medvedev e il Primo Ministro Vladimir Putin pianificano il cambio di posizione a marzo, è stato dipinto dalla stampa internazionale come un affare personale tra i due. Per l’analista messicano Alfredo Jalife, ridurre la politica russa a queste due figure è una manovra dei mass media per nascondere ciò che è realmente in gioco: il recupero della sovranità energetica russa e il suo riavvicinamento militare con i paesi BRICS, soprattutto la Cina.

 

Il ritorno del primo ministro Vladimir Putin – grande zar dell’energia – a candidato alla presidenza segna l’irrigidimento della posizione geostrategica della Russia nei confronti del disfacimento del capitalismo selvaggio e delle minacce di una nuova guerra mondiale da parte dei circuiti finanziari israelo-anglo-statunitensi.

Tale irrigidimento era prevedibile dopo gli innumerevoli affronti fatti contro la Russia e la Cina da parte di ciò che resta dell’”Occidente” economicamente paralizzato: la conquista del petrolio della Libia, l’installazione di un sistema di difesa missilistico NATO nell’”estero vicino” russo, la provocatoria vendita di armi degli Stati Uniti a Taiwan; le prossime guerre per il petrolio e il gas del statunitense Africom, come ha candidamente dichiarato Johnny Carson, Assistente Segretario di Stato [1].

La scandalosa campagna di disinformazione da parte dell’oligopolio mediatico israelo-anglo-statunitense (es. il duo Rothschild-Murdoch tramite Fox News e Sky News) escogita un racconto fantastico che parla di uno scontro tra il presidente uscente Medvedev e l’intrattabile Primo Ministro Putin, con i sentori di una guerra civile e una nuova balcanizzazione della Russia.

La campagna si spinge fino ad ostentare sfacciatamente la sua scelta: Medvedev, i “modernisti” e i filo-occidentali disposti ad aprire il succulento mercato petrolifero alle multinazionali della NATO, contro lo sciovinista e anacronistico Putin, una ex “spia” del KGB assetato di potere autocratico.

Ricorrere a tale grossolana caricatura delle relazioni delle forze interne della Russia e fedele ai suoi interessi petroliferi, le mendaci corporations mediatiche aziendalistiche hanno tentato di distorcere la realtà che oggi le esplode in faccia.

Nessuno sostiene che il tandem Putin-Medvedev (in questo ordine) sia inevitabile o che simbolizzi l’aquila russa a due teste, ma è innegabile che questo paese – una superpotenza nucleare geostrategica pari agli Stati Uniti, che miracolosamente nasce dalla malinconia geopolitica del 1991, quando Eltsin-Gorbaciov vi furono inghiottiti, ha fatto il suo ritorno fin dal 2000, grazie alla leadership di Putin.

E’ Putin che ha progettato la resurrezione geostrategica della Russia, grazie soprattutto al recupero delle sue riserve di idrocarburi. La grande nazione russa è perfettamente consapevole di questo. Se le loro reazioni furiose hanno una qualche indicazione, i circuiti finanziari della plutocrazia neoliberista oligarchica della Gran Bretagna, il cui massimo portavoce è la tripletta Financial Times/Economist/BBC (come ha riconosciuto Jeremy Browne, ministro del gabinetto Cameron), hanno reagito con veemenza contro il ritorno al potere di Putin, in quanto danneggia i loro interessi geopolitici in Eurasia.

Basti citare i più recenti titoli nichilisti di The Economist, che non s’è morsa la lingua dalla capitale di un paese che era stata appena data alle fiamme dai suoi giovani affamati e senza lavoro: “La Russia e il suo scontento”, “Il ritorno di Putin al Cremlino segna la fine di quattro anni di farsa. La vera questione è come rimarrà al potere.” “Il ritorno di Putin è un male per la Russia.” “Il circo delle elezioni russe.” “La Russia oggi è stagnante e senza speranza.” Mi limiterò a confutare l’ultimo titolo: Putin-Medvedev, la Russia è in forma assai meglio della decadente Gran Bretagna, in caduta libera.

Sono rimasto profondamente colpito dalla blanda (finora) reazione del New York Times, forse per via del perezagruzka (reset) delle relazioni USA-Russia e la sorprendente, anche se molto recente “alleanza affaristica” di un importante accordo geostrategico raggiungere tra Exxon-Mobil e Rosneft [2] per l’esplorazione degli idrocarburi nella regione artica, che ha messo da parte la britannica BP – un presunto asset fisso della Rothschild Bank e leader dei predatori del Golfo del Messico – di concerto con la sua partner “perforatrice“: la criminale (letteralmente) Halliburton and Schlumberger.

Non è cosa da poco per la Exxon-Mobil esplorare il Mar di Kara (Artico), vicino alle coste russe [3]. Alexander Rahr, esperto di Russia della German Foreign Policy Association (DGPA) di Berlino, ha detto al giornale tedesco Bildzeitung [4] che “Putin è stata una buona cosa (sic) per la Russia.” Perciò, se è “cattivo” per la Gran Bretagna, è “buono” per la Germania?

Rahr ha commentato che il germanofilo Putin (parla un fluente tedesco) “vuole penetrare l’Occidente attraverso la Germania“, mentre “l’alternativa a Putin sarebbero i nazionalisti anti-occidentali“. Infatti, le “prospettive occidentali” per Gran Bretagna e Germania sono diametralmente opposte.

Il giorno prima dell’inaugurazione di un terzo mandato per Putin, il ministro della difesa russo Anatolij Serdjukov ha ospitato a Mosca Guo Boxiong, Vice Presidente della potente Commissione Militare Centrale del Partito comunista cinese [5].

Ancor più importante, dopo essere stato proclamato candidato alla presidenza, Putin ha annunciato un viaggio in Cina, per ampliare il potenziale geostrategico e per rafforzare le relazioni bilaterali.

Ciò che richiama l’attenzione è che Stratfor [6], il portale di disinformazione globale texano-israeliano, avrebbe riferito del ritorno di Putin con una mitezza eccessiva: “Una forte preoccupazione per l’influente istituzione dei servizi di sicurezza russi, è che Medvedev è considerato internazionalmente un capo debole (sic) rispetto al suo predecessore. Putin non è interessato (supersic!) alla presidenza, a meno che non sia necessario al fine di ripristinare la percezione di un Cremlino più assertivo“.

Se la “democrazia” è la quintessenza del potere popolare, allota Putin non aderisce solo alle regole della Costituzione russa ma, meglio ancora, è ancora più “popolare” dei suoi rivali “occidentali“, in un momento estremamente critico per il mondo, in cui i concetti idealistici della filosofia politica si stanno rapidamente erodendo.

Il premier russo vanta un massiccio sostegno pubblico all’80 per cento che, di sicuro, nessun leader della NATO può pretendere (che costantemente schiamazzano di suffragi universali per gli altri, ma non per se stessi), a partire dal sempre più vacuo Obama (ostaggio dei “13 banchieri di Wall Street“, Simon Johnson dixit), passando per Sarkozy (il “conquistatore del petrolio della Libia“, che fu orribilmente martoriato nelle elezioni senatoriali dal Partito socialista), e giù fino al pusillanime leader britannico David Cameron, che non sa dove nascondersi nel fuoco incrociato (letteralmente) urbanistico e finanziario del suo paese.

Mentre Obama, totalmente prigioniero e castrato dai bankster di Wall Street, partecipa alla distruzione del mondo – dal salvataggio dei banchieri insolventi, sempre arroganti, e non dei cittadini – Putin cerca di ristabilire l’equilibrio del mondo, andato perso durante la sfortunata fase dell’unipolarismo degli Stati Uniti, in armonia con la Cina (per estensione: BRICS tra cui il Sud Africa), per riorganizzare il mondo da una prospettiva multipolare.

Ci riuscirà?

 

Note:

 

[1] Annual Air&Space Conference and Technology Exposition, 19-21 settembre 2011.

[2] The Independent, 31 agosto, 2011

[3] the9billion.com, 1 Settembre 2011

[4] 26 Settembre 2011

[5] Xinhua, 23 settembre 2011

[6] 24 Settembre 2011

 

(Traduzione di Alessandro Lattanzio – http://aurorasito.wordpress.com/ )

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Capire le rivolte arabe

$
0
0

Si è tenuto sabato 8 ottobre 2011 alle ore 16.00, a Modena presso la Sala Conferenze della Circoscrizione Centro Storico in Piazzale Redecocca 1, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe.

Sono intervenuti come relatori: Pietro Longo (co-autore, redattore di “Eurasia”) e Daniele Scalea (co-autore, segretario scientifico dell’IsAG, redattore di “Eurasia”).

L’organizzazione è stata a cura di “Pensieri in Azione” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). L’evento rientra nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.

VIDEO DELL’EVENTO



facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“Capire le rivolte arabe” a Modena: il video

$
0
0
Sabato 8 ottobre si è tenuta a Modena la conferenza dal titolo “Capire le rivolte arabe”, organizzata da Pensieri in Azione e IsAG e rientrante nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia. Davanti alle circa 70 persone che riempivano la Sala conferenze della Circoscrizione Centro Storico, Daniele Scalea e Pietro Longo (redattori di “Eurasia” e autori del libro Capire le rivolte arabe) hanno parlato, rispettivamente, del ruolo dei media nelle rivolte e dell’Egitto e Bahrayn come casi esemplari di studio. La conferenze si è protratta grazie agl’interventi ed alle domande che hanno animato il dibattito col pubblico. Proponiamo di seguito il video delle relazioni di Scalea e Longo. 

 

Prima parte:

Seconda parte:

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

IX Forum di Rodi “Dialogo di Civiltà”

$
0
0

Si è tenuto a Rodi (Grecia), dal 6 al 10 ottobre 2011, il IX Forum “Dialogo di Civiltà”.

Era presente, tra i numerosi relatori d’alto livello provenienti da tutto il mondo, anche Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”.

L’organizzazione è stata a cura del World Public Forum “Dialogue of Civilizations“.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Geopolitica e costituzioni: i sommari

$
0
0
È uscito il numero XXIII (2/2011) della rivista di geopolitica “Eurasia”, intitolato GEOPOLITICA E COSTITUZIONI. Il volume, composto di 26 articoli su 256 pagine, tratta di come le leggi fondamentali influiscano sulla politica internazionale, ed in particolare di come l’ingegneria costituzionale etero-imposta sia stata rilevante nell’ultimo secolo per correggere la postura geopolitica di alcuni paesi rispetto alla potenza egemone.
Ecco di seguito l’elenco ed un breve sommario di ciascuno degli articoli presenti in questo numero.

 

Tiberio Graziani, I costruttori di carte ottriate

Lo studio dei rapporti tra la legge fondamentale di uno Stato e la geopolitica è tornato di attualità tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. In quel periodo (1989 – 1991), coincidente con il collasso del sistema bipolare, gli USA intensificarono il loro ruolo di “costruttori di Nazioni libere”. Proclamatisi “Nation and State Builders”, gli Stati Uniti interferirono nella elaborazione delle Carte fondamentali dei nuovi Stati nazionali, sorti dalla deflagrazione dell’ex blocco sovietico. Tale intromissione non costituì un fatto nuovo nella storia della politica estera statunitense, ma una costante. Una lettura “geopolitica” degli ordinamenti costituzionali ci dimostra che le Carte fondamentali degli Stati non egemoni sono sostanzialmente assimilabili alle Costituzioni ottriate. Nella transizione tra la fase unipolare e il sistema multipolare appare necessaria la formulazione di nuovi paradigmi costituzionali articolati su base continentale.

Tiberio Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG.

 


Giuseppe Romeo, Eteronomia di una complementarità necessaria

In una società degli Stati e dei popoli, la condivisione di principi e valori universali contenuti nelle Carte Fondamentali e negli Statuti delle organizzazioni sovranazionali diventano le regole sulle quali si svolge il disegno di un ordine mondiale definito, misurabile nelle dinamiche e disciplinabile nei modi di agire di ogni singolo attore. La collocazione internazionale di uno Stato, il ruolo politico che intenderà giocare come protagonista nella comunità internazionale non potrà che essere espressione, allora, non solo della sua cultura giuridica ma dell’accettare di agire in una comunità politica che si costituzionalizza man mano in un’ottica di universalità del diritto e dei diritti.

Giuseppe Romeo è analista politico e pubblicista; ha collaborato a vario titolo con diverse università italiane nelle materie di Diritto dell’Unione Europea, Storia dei trattati e politica internazionale, Sociologia delle relazioni internazionali e Studi strategici. È cultore di Studi strategici e di Analisi della politica estera presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano.

 


Guilherme Sandoval Góes, Il geodiritto e i centri mondiali del potere

Nel presente articolo sono evidenziati i rapporti tra diritto costituzionale e geopolitica. Nel caso specifico del Brasile, il diritto costituzionale attraversa una delle fasi più delicate della sua evoluzione, posto che i principi d’ordine politico liberale mirano a sottrarre alla Costituzione la propria forza normativa a garanzia del benessere e dello sviluppo della collettività locale. Il diritto costituzionale nel mondo postmoderno non può rimanere lontano dalla realtà internazionale che lo circoscrive senza che gli sia assegnato un corretto ruolo di controllo nella protezione dei diritti fondamentali. La Costituzione è dinamica e aperta e deve servire da fondamento materiale per l’elaborazione delle politiche pubbliche all’interno dello Stato Costituzionale di Diritto.

Il capitano Guilherme Sandoval Góes è professore di Diritto; coordinatore della Divisione di Affari Geopolitici e di Relazioni Internazionali della Scuola Superiore di Guerra del Brasile; coordinatore del Corso di Master in Diritto Costituzionale dell’Università Estácio de Sá; Master e Dottorato in Diritto per l’Università dello stato di Rio de Janeiro.

 


Aldo Braccio, Carte costituzionali: casi di “sovranità limitata”

I rapporti di forza internazionali determinano spesso una ricaduta sul piano costituzionale interno dei Paesi carenti di effettiva sovranità. Le cosiddette “guerre di Liberazione” intraprese dalla superpotenza statunitense costituiscono un esempio probante di tale fenomeno: alcune disposizioni costituzionali conformi a tale orientamento figurano nelle Leggi Fondamentali di Italia, Germania, Austria, Giappone, Kosovo, Afghanistan, Iraq, quasi come richiamo e ombra di una più generale occupazione culturale ed economica, dopo e oltre quella militare.

Aldo Braccio è redattore di “Eurasia”. Membro del Consiglio Direttivo dell’ISAG – Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, è autore di Turchia, ponte d’Eurasia, Fuoco Edizioni, Roma 2011.

 


Mahdi Darius Nazemroaya, Privatizzazione e costruzione del “impero”

Gli Stati Uniti hanno riscritto la costituzione dei popoli vinti nella Seconda Guerra Mondiale. Negli ultimi due decenni, tuttavia, Washington è riuscita a ristrutturare totalmente gli Stati vinti economicamente e politicamente attraverso un processo di de-centralizzazione e grazie alla legalizzazione della tutela straniera sulle loro strutture politiche e sulle loro economie nazionali. Dalla ex Jugoslavia in Afghanistan e in Iraq, questo processo è andato di pari passo con la guerra e un’immediata ed estesa presenza militare straniera. A tale riguardo le nuove costituzioni nazionali di questi paesi sono state al centro del processo ed hanno aperto la porta per l’integrazione di questi Stati nella costruzione dell’ “impero” di Washington.

Mahdi Darius Nazemroaya, sociologo, ha svolto attività di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Antropologia dell’Università di Ottawa e, sul tema dell’integrazione in Nord America, presso il Parlamento del Canada. È uno dei fondatori della Ottawa University Archeological Society (uOAS), il suo primo vicepresidente (2010-oggi) e il presidente del comitato uOAS che ha progettato un programma universitario di archeologia, lanciato dall’Università degli Studi di Ottawa. È un collaboratore di Global Research e ricercatore associato in geopolitica del Sud-Ovest asiatico, del Caucaso e dell’Asia centrale presso il Centre for Research on Globalization (CRG) di Montréal.

 


Carlo Schmid, Che significa propriamente “legge fondamentale”?

Quello che segue è il discorso tenuto al Parlamento tedesco dal deputato socialdemocratico Carlo Schmid l’8 settembre 1948. In esso si toccano i seguenti temi: Che cosa significa “Costituzione”? Che cosa è uno Stato? La situazione della Germania. L’ingiustizia della divisione. Accenno al processo di Norimberga. Il Reich tedesco sopravvive. Il dominio straniero è contrario al diritto delle genti. I vincitori hanno bloccato la sovranità popolare. Non esiste un popolo dello Stato della Repubblica Federale. L’assemblea nazionale tedesca. Un imperativo. Le condizioni dei vincitori. La Legge fondamentale non è una Costituzione. La Costituzione del Reich tedesco non può derivare dalla Legge fondamentale. Nessun riconoscimento della divisione del territorio: è una questione d’onore. L’unità deve essere spezzata con la forza.

Carlo Schmid, giurista ed accademico, è stato parlamentare tedesco dal 1947 al 1972, presidente dell’Assemblea dell’Unione dell’Europa Occidentale dal 1963 al 1966.

 


David Cumin, L’Ostpolitik di uno Stato senza costituzione nazionale

L’Ostpolitik del Cancelliere Brandt, che prese l’avvio in seguito all’arrivo della SPD al governo e si sviluppò tra il 1969 e il 1982, perseguì l’obiettivo della riunificazione tedesca. I dirigenti tedesco-occidentali ritenevano che l’atteggiamento aggressivo dell’Occidente avesse indotto gli Stati dell’Est a mostrarsi aggressivi a loro volta nei riguardi dell’Occidente. Essi pensavano che, se la politica di forza fosse stata sostituita da una politica di dialogo, la “distensione” tra gli Stati dell’Est e dell’Ovest avrebbe portato ad una “distensione” tra lo Stato e la società ad Est, dunque all’apertura delle frontiere e quindi al superamento dello statu quo. Ma per superare lo statu quo, bisognava cominciare col riconoscerlo. Un’URSS diventata sicura nel suo impero sarebbe stata incline alla distensione e all’apertura. Così l’Ostpolitik fu una politica “idealista” nei metodi (la cooperazione), “realista” rispetto ai destinatari (i governi), “conservatrice” nelle sue modalità a breve termine (la stabilizzazione), “rivoluzionaria” nei suoi obiettivi a lungo termine (il superamento della divisione).

David Cumin è dottore in Diritto pubblico, docente di Diritto pubblico e Scienze politiche (Università “Jean Moulin” Lyon III).

 


Sara Bagnato, Un caso d’ingegneria statuale: la Bosnia-Erzegovina

La Bosnia-Erzegovina è il principale e il più esteso – geograficamente e storicamente – esperimento di ingegneria politica internazionale, un progetto pilota di creazione di uno Stato dall’esterno. Nel corso degli ultimi 15 anni un complesso consorzio di Agenzie internazionali sostenute dai governi occidentali ha tentato di trasformare un territorio post-bellico devastato ed etnicamente partizionato in uno Stato multietnico, democratico ed economicamente stabile. L’attuale impasse politico ed istituzionale del paese ha messo in luce la fallacia della strategia usata, benché essa abbia permesso di uscire da un’imbarazzante guerra e garantire alla Bosnia un futuro europeo.

Sara Bagnato è dottoressa in Relazioni internazionali (Università degli Studi di Perugia).

 


Stefano Vernole, Dal tribunale dell’Aja a Rekom

L’arresto dell’ex Generale serbo-bosniaco Ratko Mladic sancisce, simbolicamente, la fine del capitolo giudiziario inaugurato dal Tribunale dell’Aja, destinato a lasciare il posto ad una nuova macchina burocratica trasnazionale più moderna ed efficace: Rekom. Anche se cambiano gli strumenti, i fini rimangono gli stessi: condizionare pesantemente la sovranità nazionale degli Stati balcanici e mantenere i territori appartenenti all’ex Jugoslavia sotto il controllo della NATO e dell’alta finanza internazionale. I diritti umani e la giustizia internazionale al servizio degli obiettivi geopolitici atlantisti.

Stefano Vernole è redattore di “Eurasia” e saggista.

 


Alberto B. Mariantoni, Chi ci libererà dai “liberatori”?

L’articolo si apre con la constatazione che l’Italia è un Paese a sovranità limitata, condizionato nella sua esistenza da forze esterne e ostili, sicché le classi politiche che si succedono, per quanto corrotte e incompetenti, non possono e non vogliono risolvere i tanti problemi che da decenni lo affliggono. Vengono quindi elencate le prove di tale sudditanza dell’Italia, l’ultima e più plateale delle quali è l’aggressione alla Libia: tale aggressione, alla quale l’Italia partecipa obtorto collo, è contraria ai nostri stessi interessi nazionali. L’autore indica successivamente le cause di tale sudditanza e identifica le forze esterne condizionanti negli USA e nella NATO. La nostra impotenza attuale, che inizia con la sconfitta del 1945 e la perdita dello statuto di Stato sovrano, è da addebitare ai vari trattati di pace (in parte segreti) firmati con gli Alleati, nonché ai successivi accordi bilaterali (anche questi segreti) tra Italia e Stati Uniti.

Alberto B. Mariantoni, politologo, scrittore e giornalista, ha a lungo collaborato con il settimanale “Panorama”.

 


Alessandro Lattanzio, La Sicilia da Parigi a Parigi

La mancanza di sovranità nazionale, evidenziata dalla presenza delle basi USA/NATO sulla nostra penisola, impedisce alla Sicilia di svolgere quel ruolo di piattaforma degli scambi e delle relazioni tra i popoli del Mediterraneo che la sua posizione geografica le consentirebbe. Come portaerei atlantista sul Mediterraneo, la Sicilia rischia invece di diventare l’imbuto delle tensioni e delle frustrazioni che scaturiscono dagli interventi militari condotti in nome della “guerra al terrorismo” e dell’ “ingerenza umanitaria”.

Alessandro Lattanzio è redattore di “Eurasia” e saggista.

 


Claudio Mutti, La nuova costituzione ungherese

Il 25 aprile scorso, giorno di Pasquetta, il “Magyar Közlöny” (la gazzetta ufficiale ungherese) ha pubblicato il testo della nuova “Legge fondamentale dell’Ungheria” (Magyarország Alaptörvénye), firmata in quello stesso giorno dal Presidente della Repubblica Pál Schmitt e approvata dal Parlamento di Budapest lunedì 19 aprile. Scegliendo il Lunedì dell’Angelo per pubblicare il testo della nuova Costituzione, che entrerà in vigore il 1 gennaio 2012, si è voluto collegare tale evento con la festa cristiana della Resurrezione.

Claudio Mutti è redattore di “Eurasia” e saggista.

 


Kees van der Pijl, La discrepanza costituzionale in seno alla UE

L’Autore intende mostrare come il programma adottato dalla Germania in seguito all’ascesa delle grandi imprese nell’economia politica globale, trovi le sue basi nell’Occidente anglofono del Nordatlantico e nella sua eredità liberale lockiana. Egli ricerca le diverse caratteristiche di questa eredità, che ha consentito al capitale di costituirsi come forza sociale transnazionale ed analizza le incompatibilità strutturali che hanno ostacolato l’integrazione dell’Unione Europea all’interno del più ampio “Occidente” e continueranno ad ostacolarla. L’Autore individua nel cuore dell’Unione Europea una “discrepanza costituzionale”: da un lato, la contraddizione tra un neoliberismo organicamente sviluppato nel contesto dello heartland lockiano e la tradizione dello Stato contendente che ha guidato per secoli lo sviluppo europeo continentale; dall’altro, il relativo vantaggio dell’Europa settentrionale rispetto ai paesi dell’Europa meridionale.

Kees van der Pijl è docente di Relazioni internazionali all’Università del Sussex (Inghilterra). Nel 2008 ha ricevuto il Deutscher Memorial Prize per il suo libro Nomads, Empires, States.

 


Pietro Longo, Costituzionalismo e state-building in Iraq

L’operazione Iraqi Freedom che ha abbattuto il regime del Ba‘th di Saddam Husayn ha posto il problema della ricostruzione successiva. Mentre il paese conosceva una disastrosa guerra civile ed una rivincita dei settori della società in precedenza oppressi, le operazioni di State-Building si svolgevano sotto la direzione delle forze occupanti e con una quasi totale assenza delle agenzie internazionali. L’architettura costituzionale che n’è risultata ha acceso un dibattito politico ed accademico, in merito alla genuinità della forma federale che la nuova Repubblica irachena ha assunto. Se da un lato questo principio è stato invocato al fine di garantire l’uguaglianza di tutti i cleavages, dall’altro le istanze autonomiste hanno dato luogo ad un organismo che in alcuni casi può apparire come nient’altro che la somma delle sue parti. Inoltre la scarsa partecipazione dei sunniti alle negoziazioni ha suscitato diversi interrogativi circa la reale legittimità della Costituzione approvata nel 2005.

Pietro Longo, arabista, dottorando in Studi sul Vicino Oriente all’Università l’Orientale di Napoli, è ricercatore presso l’IsAG. Si occupa di diritto musulmano e dei paesi islamici e svolge ricerche anche sulla geopolitica e le relazioni internazionali del Vicino Oriente. E’ coautore (con Daniele Scalea) di Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario (IsAG – Avatar, Dublino 2011)

 


Come Carpentier de Gourdon, Le costituzioni dell’Impero Britannico, dell’India e del Commonwealth

La Costituzione indiana trasse ampia ispirazione da vari modelli occidentali ed in particolare anglosassoni, e fu inevitabilmente influenzata dalla struttura del Commonwealth britannico, che mirava a mantenere la supervisione della Corona sui territori dell’Impero, come dominî o regni associati. L’India accettò con riluttanza uno statuto ibrido in qualità di repubblica membra del Commonwealth che affermava princìpi socialisti, la volontà di agire da guida dei paesi decolonizzati e di costruire una Terza Forza che lottasse per la pace tra i due blocchi avversari della Guerra Fredda, discostandosi così dagl’interessi britannici e atlantici. Sin dall’Indipendenza la Costituzione è evoluta adottando vari elementi indigeni e modificando il preminente carattere legislativo angloamericano.

Côme Carpentier de Gourdon è direttore aggiunto della rivista indiana “World Affairs” e vicedirettore dello Euro-Asia Institute (Università “Jamia Millia Islamia” di Nuova Delhi).

 


Claudio Mutti, La “Costituzione” di Atene. Democrazia e talassocrazia

Nell’Atene del V secolo a. C. non esistette ovviamente una “Costituzione” nel senso che tale termine ha oggi in relazione allo Stato di diritto, vale a dire una carta di norme fondamentali intese a garantire gli ordinamenti politici ed a stabilire i diritti e i doveri dei cittadini. L’opera di Aristotele che viene comunemente intitolata “Costituzione degli Ateniesi” è in realtà un trattato che, dopo aver esaminato la storia di Atene sotto il profilo dei cambiamenti politici, descrive il sistema così come si presenta all’epoca dell’Autore. Se il capitolo 23 di quest’opera aristotelica presenta un certo interesse sotto il profilo geopolitico, ancor più marcato da una tale prospettiva è l’omonimo scritto pervenutoci assieme al corpus senofonteo, perché riconduce la “costituzione degli Ateniesi” e il regime democratico ad una causa eminentemente geografica: la vicinanza del mare.

Claudio Mutti, redattore di “Eurasia”, è antichista e finnugrista.

 


Paolo Bargiacchi, Manipolazione extraterritoriale della Costituzione americana

L’articolo descrive il punto di vista giuridico applicato alle prigioni statunitensi in territori occupati o non facenti parte dello Stato nordamericano. In particolare si sofferma sui casi di Guantanamo e Bagram, ne analizza la giurisprudenza e l’interpretazione e manipolazione delle sentenze ad opera del potere politico. Le corti di appello e la Corte Suprema degli Stati Uniti hanno, con alcune sentenze, riconosciuto l’estensione della Costituzione e delle norme internazionali che regolano il trattamento dei detenuti anche alle prigioni di Guantanamo e Bagram, ma le autorità statunitensi continuano a rifiutarsi di applicare tali norme giuridiche, compreso l’habeas corpus, comparando l’Afghanistan o Cuba, alla Germania occupata dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale o ad altri casi precedenti dove la prassi e la giurisprudenza, nel passato, hanno di fatto avvallato il rifiuto dell’applicazione di qualsiasi elementare diritto, compresi quelli derivanti dai trattati internazionali, da parte delle Autorità nordamericane.

Paolo Bargiacchi è professore associato di diritto internazionale presso l’Università Kore di Enna.

 


Lorenzo Salimbeni, La Carta del Carnaro. Irredentismo e sindacalismo rivoluzionario

La Carta del Carnaro, che Gabriele d’Annunzio promulgò l’8 settembre 1920 in una delle fasi più “rivoluzionarie” del periodo in cui ebbe i pieni poteri a Fiume, è stata a lungo ritenuta una composizione poetica aulica e barocca del poeta abruzzese, invece si tratta di un documento concepito soprattutto da Alceste De Ambris, sindacalista rivoluzionario che vi traspose concetti giuridici all’avanguardia per i tempi e che si rifacevano al filone repubblicano e mazziniano del Risorgimento italiano. Il federalismo, la riorganizzazione del lavoro attraverso le corporazioni per evitare l’annichilimento dell’individuo, i nuovi diritti che vi si prospettavano ed i compiti dello Stato, tutto in questo documento, di cui fin da principio i suoi estensori sapevano che poco sarebbero riusciti a realizzare nel contesto fiumano, voleva essere soprattutto un esempio per i popoli usciti dalla temperie della Grande Guerra per rispondere alle loro istanze sociali.

Lorenzo Salimbeni è dottorando di ricerca in Storia Contemporanea presso la Scuola Dottorale in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Trieste. Dirigente della Lega Nazionale e socio dell’IsAG, giornalista pubblicista e operatore culturale attraverso varie realtà associative.

 


Giovanni Andriolo, I rifugiati somali in Yemen

Il continuo deterioramento, negli ultimi due decenni, della situazione politicosociale in Somalia ha dato luogo ad un fenomeno dalle dimensioni crescenti e dalle conseguenze imprevedibili e difficilmente controllabili: si tratta della fuga da parte di migliaia di cittadini somali verso i Paesi africani confinanti e verso le coste dello Yemen, attraverso il Golfo di Aden. Questo flusso incessante coglie impreparato il Governo yemenita e favorisce, suo malgrado, i contatti tra militanti di gruppi armati islamisti somali e yemeniti, nonché attività di traffico internazionale e di sfruttamento di esseri umani, coinvolgendo a vari livelli attori locali, regionali e internazionali. La questione si configura attualmente come una delle crisi umanitarie più gravi al mondo.

Giovanni Andriolo, dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino), è ricercatore presso l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

 


Elia Cuoco, Se la “Linea Azzurra” si allunga di 200 miglia

Un teatro caldissimo. E a settanta miglia nautiche dalla costa un nuovo motivo di contesa tra Libano e Israele. Un motivo da miliardi di dollari. Tel Aviv ha investito tempo e risorse per garantirsi una indipendenza energetica fondamentale per la sua sopravvivenza. E non cederà tanto facilmente alle pretese libanesi. La legge nazionale per lo sfruttamento delle risorse petrolifere catapulta il Libano sulla scena come un attore non più disposto a subire passivamente lo strapotere dell’ingombrante vicino, ma deciso a far valere le sue ragioni, forte dello storico supporto francese e tedesco ma anche della mutata linea politica statunitense nell’area, che vede nel rafforzamento della leadership economica e politica libanese una chiave di volta nel processo di stabilizzazione dell’area e nella contemporanea eliminazione o ridimensionamento di Hizballah.

Elia Cuoco è un ufficiale della Marina Militare Italiana. Dopo la laurea in Scienze Politiche ha continuato gli studi in geopolitica operando al contempo in contesti internazionali sia sotto comando NATO sia ONU. Collabora con diverse riviste in ambito Ministero Difesa.

 


Emanuele C. Francia, Internazionalizzazione e globalizzazione

Per “internazionalizzazione” si intende il fenomeno che riguarda specificatamente l’attività di impresa oltre i confini nazionali. L’analisi della dinamica delle variabili interne ed esterne all’impresa rappresenta il punto di partenza per la comprensione del modo in cui questa può porsi o si pone rispetto ai suoi interlocutori internazionali. Se non capito e gestito, come per lo più è avvenuto in questi anni, il fenomeno della globalizzazione può avere tra suoi effetti conseguenze devastanti, soprattutto per le economie occidentali sviluppate, quella italiana compresa.

Emanuele C. Francia, manager e consulente, ha seguito per anni le operazioni cross-border per numerose imprese italiane in Europa e Stati Uniti. Da alcuni anni vive a Pechino ed è co-fondatore e partner di Emasen Consulting, una società di consulenza specializzata nei processi di internazionalizzazione. Scrive per alcune riviste economiche e collabora sia con università in Italia sia in Cina nell’ambito della ricerca e dell’insegnamento.

 


Konstantin Zavinovskij, Intervista a Tair Mansurov

Tair A. Mansurov è segretario generale della Comunità Economica Eurasiatica (EvrAzES). Politologo, studioso dei rapporti russo-kazaki, è stato ambasciatore del Kazakistan nella Federazione Russa.

 


Lorenzo Salimbeni, Intervista a Antonio Palmisano

Antonio L. Palmisano è professore associato in Antropologia culturale ed in Antropologia politica all’Università degli Studi di Trieste, corso in Scienze internazionali e diplomatiche. Tra la fine del 2002 e l’inizio del 2004 ha operato in Afghanistan come “Senior advisor” per la riforma giudiziaria all’interno del programma “Rebuilding the Justice System”, assegnato al Governo italiano dagli Accordi di Bonn del 5 dicembre 2001.

 


Claudio Mutti, Recensione a A. Carandini, “La leggenda di Roma”

Giacomo Guarini, Recensione a N. Irti, “Norma e luoghi”

Giacomo Guarini, Recensione a P. Longo e D. Scalea, “Capire le rivolte arabe”

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Finito il letargo liberale, si risveglia l’Eurasia

$
0
0

Dopo la breve estate liberale di Medvedev, il cui culmine è stata l’intesa, vacua quanto obbligata, con Obama sulla riduzione dei rispettivi arsenali strategici nucleari (START III), e la presentazione del ‘reset’ dei rapporti russo-statunitensi, un bottone che non è mai stato premuto, si rimette in marcia il percorso verso la ricomposizione dello spazio geostrategico e geopolitico eurasiatico.

Il primo ministro russo Vladimir Putin ha scritto un articolo pubblicato sulle Izvestia, accennava all’Unione Eurasiatica quale potente alleanza economica. Nel suo articolo, Vladimir Putin si sofferma sul futuro di Russia, Bielorussia e Kazakistan, nel quadro dell’introduzione di uno spazio economico unico, che entrerà in vigore il 1° gennaio 2012 nell’ambito dell’Unione Doganale. Per il primo ministro russo, l’Unione Euroasiatica soddisferà anche il ruolo di ‘efficace collegamento’ tra Europa e Asia-Pacifico. Uno spazio economico con un mercato di 165 milioni di consumatori, senza frontiera o altre barriere, in cui gli abitanti saranno in grado di spostarsi, lavorare e studiare liberamente. Mosca, Astana e Minsk integreranno le loro politiche economiche e monetarie, e costruiranno una vera e propria unione economica sull’esempio dell’Unione europea. Vladimir Putin ha messo in chiaro che questo è il primo passo verso l’integrazione dello spazio post-sovietico. Parlando a bordo dell’incrociatore Mikhail Kutuzov, a Novorossijsk, Putin ha presentato lo slogan ‘Andare avanti, solo in avanti!’ il che significa che non ci sarebbe stata più alcuna ritirata strategica. Inoltre, nel suo articolo, Putin ha ricordato gli stretti legami economici che univano le repubbliche sovietiche e che la rottura di questi legami, ha inferto un duro colpo ai nuovi Stati indipendenti.

L’articolo, in sostanza, delinea le politiche che Putin, se eletto presidente nel 2012, attuerà.

L’idea dell’unione attrae la maggior parte dei cittadini delle repubbliche post-sovietiche, mentre l’idea della libera circolazione dei capitali, attrarrebbe le imprese. L’Unione sarà sicuramente sostenuta da comunisti, nazionalisti, conservatori e liberali.

Così, Putin avrà buone possibilità di raccogliere un ampio supporto.

Un ulteriore elemento a supporto della visione di Putin, potrebbe essere il seguente:
Il Segretario di Stato dell’Unione di Russia e Bielorussia, Pavel Borodin, non sarà rieletto per un nuovo mandato a dicembre, le cui dimissioni imminenti sono state annunciati a Minsk, da Aleksandr Lukashenko e confermate dal Cremlino.

Al posto di Borodin, secondo una fonte dell’amministrazione presidenziali russa, si punta al leader del Movimento Eurasiatico Internazionale (MED) Aleksandr Dughin. Gli esperti ritengono che le dimissioni di Borodin suggeriscano che Vladimir Putin ha già intrapreso la creazione dell’Unione euroasiatica.

Venerdì scorso, il Presidente della Bielorussia, Aleksandr Lukashenko, ha detto che la Russia vuole sostituire Pavel Borodin alla carica di Segretario di Stato dello Stato dell’Unione di Russia e Bielorussia.” Informa RIA Novosti: “La Russia invita un’altra persona – è un suo diritto. Per inciso, il presidente del Consiglio di Stato Supremo è vostro umile servitore, “- ha detto Lukashenko, i 7 Ottobre 2011, in una conferenza stampa con i media russi in Bielorussia, sottolineando che si stava prendendo in considerazione questa raccomandazione. La fonte dell’amministrazione presidenziale ha confermato che il nuovo Segretario di Stato dell’Unione potrebbe essere il capo del MED, (Dughin)”.
Aleksandr Gelevich Dughin aveva detto: “Oggi siamo tutti Lukashenko, Gheddafi, Saddam Hussein. Tutti noi siamo rappresentati dagli Stati sovrani e indipendenti che lottano fino all’ultima goccia di sangue contro il processo di sottrazione della sovranità, la colonizzazione e la globalizzazione“.
Il progetto di Unione Eurasiatica, che resta aperto ad altri possibili aderenti, soprattutto alle ex repubbliche sovietiche, reintegra anche la Belarussia di Lukashenko, che negli ultimi anni, sotto la presidenza liberal-energetica di Medvedev, aveva subito varie forme di ostracismi e vessazioni. A queste mosse strategiche si associa anche un’altra importante repubblica ex-sovietica, il Kazakhstan: “Almaty e personalmente il presidente Nazarbayev sono sempre stati a favore di una più stretta integrazione economica con la Russia e gli altri paesi dell’ex URSS. L’Unione Euroasiatica che il presidente Nazarbayev propose per primo nel 1994, dovrebbe apportare un mutuo beneficio ai propri partner”. Il Kazakistan è già un entusiasta sostenitore dell’unione doganale con la Russia e la Bielorussia, che Putin vede come il trampolino di lancio per l’Unione Eurasiatica.” E nel frattempo “Il Kazakistan ha tolto la moratoria sui lanci di prova dei missili balistici intercontinentali (ICBM) russo dal centro spaziale di Bajkonur, ha detto il capo della agenzia spaziale russa Roscosmos Vladimir Popovkin. ‘Ora che il divieto è stato tolto saremo testeremo lanciare un ICBM da Baikonur a novembre’.
Questo programma mette fine all”estate liberale‘ di Medvedev, che tramonta sotto i colpi di un vento autunnale che ha gelato le prospettive filo-occidentali del partito dell’energia (Gazprom e associati) cui Medvedev è il referente. Tale sferza proviene dalle sabbie del Sahara libico, dove le potenze occidentali e i loro stati tributati petro-monarchici del Golfo Persico, approfittando dell’incertezza vigente a Mosca e a Beijing, hanno ottenuto mano libera contro un paese amico, la Jamahiryia Libica, che da febbraio 2011 è sottoposto a una brutale aggressione e a uno spietato bombardamento aereo della NATO. A tale aggressione partecipano tutti i tipi di asset militar-spionistici e d’influenza cui dispongono le potenze occidentali: mercenari para-narcos latinoamericani; al-qaidisti recuperati a Guantanamo o nelle prigioni dell’Afganistan; mercenari della Blackwater; truppe speciali anglo-francesi e dei petro-emirati, squadroni della morte islamisti e tribali del Nord Africa; ex-monarchici, oppositori e transfughi del regime libici. Il tutto assistito dalla kermesse mediatica occidentale (cui hanno prestato il fianco le maggiori vedette del bel mondo intellettuale della sinistra occidentale, ex-marxista o post-marxista che sia). La Libia, comunque, rappresenta il canto del cigno dell’apparato mediatico-propagandistico della disinformazione strategica occidentale, poiché difficilmente riuscirà a metter a segno lo stesso colpo permesso dalla cosiddetta ‘Primavera Araba‘:
Le autorità siriane hanno messo in guardia la comunità internazionale da un riconoscimento ufficiale del Consiglio nazionale, composto da oppositori del presidente siriano Bashar Assad. ‘Adotteremo misure severe contro uno Stato che riconosce questo consiglio illegale’ – ha detto oggi il ministro degli esteri siriano Walid al-Muallem in una conferenza stampa, informa Xinhua. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche i ministri di cinque paesi dell’America Latina (Bolivia, Venezuela, Nicaragua, Cuba ed Ecuador), che sono arrivati a Damasco per esprimere il sostegno al governo della Siria. Al-Muallem ha espresso il parere che le sanzioni imposte dall’UE all’economia della Siria ‘con il pretesto dei diritti umani’, hanno lo scopo di ‘far morire di fame il popolo siriano.’ Inoltre, il ministro ha detto che oggi 110 poliziotti e 1000 militari sono stati uccisi da “gruppi armati” che ricevono finanziamenti e sostegno materiale dai paesi occidentali.
Il capo della diplomazia siriana ha anche espresso l’apprezzamento verso Russia e Cina per la loro presa di posizione nel Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite (ONU). Ricordiamo che recentemente i due Paesi hanno bloccato l’adozione della risoluzione antisiriana al Consiglio di sicurezza dell’ONU, grazie al loro veto. “La Russia avverte di non permettere eventuali interferenze straniere negli affari della Siria e chiede un dialogo nazionale in Siria con la partecipazione dell’opposizione,” ha detto al-Muallem.”
La Russia e Cina, quindi bloccano l’assalto dell’occidente contro la Siria. I due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno posto il veto sulla bozza di risoluzione promossa da Francia, Germania, Inghilterra e Portogallo in cui si condannava il regime di Assad per la dura repressione delle aggressioni islamiste camuffate da ‘pacifiche’ manifestazioni di civili ‘dissenzienti’. Su quindici componenti del Consiglio, nove hanno votato a favore: Francia, Inghilterra, Germania, Portogallo, Stati Uniti, Bosnia Erzegovina, Nigeria, Gabon e Colombia. Quattro gli astenuti: India, Sud Africa, Libano e Brasile (insomma il BRICS). Ovviamente, i presunti promotori mondiali della democrazia e dei diritti non hanno accettato la decisione dei russi e dei cinesi. Susan Rice, rappresentante permanente degli Stati Uniti all’ONU, ha dichiarato che Washington è ‘indignata’ per il risultato del voto. “Oggi la Siria ha avuto la prova di quali sono i Paesi che hanno ignorato il suo appello. Questo Consiglio ha il dovere di porre fine a sei mesi di violenze, torture e repressioni. E ha il dovere di prendere una decisione che garantisca la pace e la sicurezza di un paese e di milioni di persone“. Neanche il rappresentante francese, Geraud Araud, non riuscendo più a trattenere la rabbia per lo smacco subito (e per la consapevolezza che il trucco oramai non funziona più) è giunto a dire perfino che il “veto politico è dettato da interessi particolari” (senza commenti). Comunque, le potenze occidentali hanno avvertito che il veto non fermerà il loro sforzo a porre fine alla sovranità della Siria.
E tutto ciò accade, mentre a Sirte, va in fumo l’ennesima promessa di una vittoria decisiva avanzata dal CNT: “Nell”offensiva finale’ contro Sirte, dove migliaia di ribelli montati su pickup e appoggiati da carri armati T-55, eseguono un attacco simultaneo da est, lungo la costa, e da sud. Le bande armate golpiste, assaltano l’ospedale, il centro congressi Ouagadogou e l’Università. Sebbene gli attacchi aerei della NATO contro i lealisti infliggano 40 caduti tra i loro ranghi, il contrattacco delle forze patriottiche respinge l’offensiva ribelle e scaccia dall’università gli occupanti golpisti, eliminando 211 combattenti del CNT, tra cui il loro comandante, il colonnello Amin al-Turki, che poche ore prima aveva detto “Stiamo per porre fine a questa resistenza. Sirte è nostra!”; inoltre restano feriti altri 300 elementi delle forze ribelli, le quali si ritirano disordinatamente. Secondo un comandante militare del CNT, Abdel-Basit Haroun, il bilancio delle perdite subite dai golpisti sarebbe di 560 ribelli uccisi e oltre 900 feriti.

10/10/2011
Alessandro Lattanzio,   storico,  esperto di questioni militari, è redattore di Eurasia. È autore, fra l’altro,  di Terrorismo sintetico (all’Insegna del Veltro, Parma 2007), Potere globale. Il ritorno della Russia sulla scena internazionale (Fuoco, Roma 2008), Atomo Rosso. Storia della forza strategica sovietica (Fuoco, Roma 2009) e L’Eurasia contesa (Fuoco, Roma 2010).
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com  

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’Afpak tra dilemmi e incertezze

$
0
0

A dieci anni dall’intervento statunitense e della NATO, l’Afghanistan si trova in una condizione sempre più difficile. Unitamente all’incertezza del futuro politico afghano si registra negli ultimi mesi l’incapacità degli Stati Uniti di gestire l’intricata situazione interna; questa è legata a una sorta di “dilemma” nel considerare il proprio approccio nei confronti del Pakistan, paese indispensabile per la sua posizione geopolitica. Islamabad non intende abbandonare l’influenza sull’Afghanistan poichè percepisce la propria sicurezza legata a doppio filo con Kabul. Il recente avvicinamento tra Karzai e l’India può complicare la situazione.

 

Gli ultimi mesi in Afghanistan sono stati contraddistinti da una recrudescenza della violenza. L’uccisione di figure di primo piano della politica afghana, tra le quali Ahmed Wali Karzai e Burhanuddin Rabbani, l’attacco talebano all’ambasciata statunitense e al comando NATO a Kabul, nonché l’incremento degli scontri militari nella zona sud-orientale del paese testimoniano come la situazione afghana sia sempre più delicata. L’incertezza sembra l’espressione più adatta per descrivere il futuro del paese. È sempre più evidente la debolezza politica del governo Karzai, isolato a livello internazionale, nonostante possa contare sull’appoggio recentemente offerto dall’India. La stessa strategia statunitense nei confronti dell’Afghanistan sembra aver raggiunto un punto di non ritorno per il fallimento di alcuni importanti obiettivi e la crescente instabilità del paese. Cina, Iran, India, ma soprattutto Pakistan, ricopriranno un ruolo sempre più importante, con il rischio di un incremento della competizione regionale. Unitamente alle incertezze caratterizzanti il futuro afghano esiste una sorta di “dilemma” nel considerare il proprio approccio verso l’Afghanistan, riscontrabile non solo nella strategia di Washington, ma in parte anche in quella di Pakistan e India.

 

– Le ipotesi dell’uccisione di Rabbani: un sintomo dell’incertezza afghana

 

La recente uccisione di Rabbani indica come sia difficile comprendere la politica interna afghana senza collegarla, assieme alla competizione tra i diversi gruppi etnici del paese, anche agli obiettivi dei diversi Stati interessati al futuro afghano dopo l’annunciato ritiro statunitense.

Burhannuddin Rabbani era una delle maggiori figure del variegato panorama politico di Kabul. Presidente dell’Afghanistan tra il 1992 e il 1996, fu un importante punto di riferimento per la resistenza dei mujaheddin contro i sovietici durante gli anni ‘80, contando sul concreto appoggio pakistano. Successivamente alla caduta del suo governo, rovesciato nel 1996 dai talebani, guidò la resistenza dell’Alleanza del Nord contro il regime. È stato accusato di numerosi ed efferati delitti, ma, nonostante fosse la figura più importante del gruppo etnico tagiko, era considerato un nazionalista afghano, capace di favorire l’unità del paese nonché il dialogo tra le diverse etnie. Non a caso, Rabbani ha rappresentato negli ultimi anni un fondamentale “ponte” tra Karzai, pashtun, e le etnie del nord, tagiki, hazara e uzbeki. Per questo motivo l’ultimo ruolo pubblico di primo livello ricoperto da Rabbani è stato quello di capo dell’Afghan High Peace Council, avente come obiettivo un ipotetico dialogo con i talebani in nome della riconciliazione nazionale.

E’ poco chiaro chi siano i veri mandanti della sua uccisione e, almeno per il momento, è possibile ricorrere solamente ad alcune ipotesi che offrono degli interessanti spunti legati al contesto geopolitico e alle strategie di Stati Uniti, Pakistan, India e Iran.

In un primo momento l’uccisione è stata attribuita ai talebani, accusati di non voler continuare il dialogo con il governo afghano e gli Stati Uniti: in questo modo avrebbero dimostrato l’inesistenza di una possibile alternativa al loro governo. In realtà, più che a una mancanza d’interesse nei confronti di un’ipotetica trattativa con Karzai e gli Stati Uniti, i talebani avrebbero eliminato quella che consideravano una delle figure più importanti della politica afghana. Rabbani poteva rappresentare un pericoloso concorrente per il dopo-2014, un’alternativa credibile al debole governo Karzai. Un’altra spiegazione è legata alla recente recrudescenza degli attacchi e degli scontri militari. Gli Stati Uniti hanno come obiettivo, nonostante l’annunciato ritiro, la realizzazione di una base militare permanente almeno fino al 2024. Per rendere effettivo questo scopo necessitano però dell’accettazione da parte degli afghani di una situazione di fatto: ovvero che la loro presenza risulterà indefinita nel tempo. I talebani, al contrario, dimostrerebbero all’opinione pubblica afghana, non solo che la presenza statunitense è sgradita, ma anche che l’eventualità di una sua indefinita permanenza sia impossibile. I talebani utilizzano a questo proposito una tattica psicologica più che un’adeguata forza militare, colpendo determinati luoghi e personaggi simbolo, come ad esempio l’ambasciata statunitense a Kabul e Rabbani. In ogni caso, la stessa visuale negativa della presenza permanente degli Stati Uniti espressa dai talebani è dichiarata, più o meno chiaramente, anche da Iran, Cina, Russia e Pakistan.

I talebani avrebbero inoltre visto nella figura di Rabbani un possibile ostacolo all’ascesa dei pashtun. L’eliminazione dell’ex presidente potrebbe essere letta come la volontà di minare i rapporti tra Karzai e le etnie del nord. In questa maniera i pashtun potrebbero premere maggiormente sul governo, con evidenti ripercussioni negative per tagiki, hazara e uzbeki. Vista la debolezza dell’amministrazione Karzai, la quale non gode dell’appoggio di tutte le etnie, come dimostrato dalle vicende legate alle ultime elezioni, non è da escludere che l’assassinio possa fomentare lo scontro tra le differenti componenti etnolinguistiche nell’intero Afghanistan (L’inaugurazione del Parlamento afghano. L’isolamento di Karzai e i risvolti geopolitici).

L’alternativa Rabbani a Karzai, garanzia di un ruolo maggiormente importante per l’Alleanza del Nord e per le etnie settentrionali, rappresentava un fattore intollerabile non solo per i pashtun, ma anche per il Pakistan. Islamabad avrebbe valutato negativamente l’influenza crescente di Rabbani, il quale aveva da diversi anni un legame particolare con Iran e India. L’ascesa di Rabbani a Kabul avrebbe potuto comportare un conseguente diverso ruolo per l’India. Nell’ottica pakistana la presenza di Nuova Delhi in Afghanistan è valutata come una sorta di pericoloso accerchiamento geopolitico. Al contrario, un governo alleato a Kabul favorirebbe il contenimento dell’ascesa economica e militare del nemico di sempre in Asia Meridionale. L’Afghanistan non è solamente considerato il territorio di “ritirata” strategica in caso d’invasione indiana, ma anche un indispensabile alleato: avere sia ad ovest che ad est degli Stati nemici è una prospettiva altamente negativa per gli interessi strategici di Islamabad. Inoltre, il fatto che la linea Durand non sia completamente riconosciuta dal governo di Kabul, testimonia l’esistenza di un’ulteriore preoccupazione pakistana, ovvero il problema legato al nazionalismo pashtun. Vista l’instabilità statuale e le passate mire di alcuni governi afghani verso le aree tribali pakistane (FATA) e la Khyber Pakhtunkhwa, il Pakistan intende agire attivamente in Afghanistan anche per motivi legati alla propria sicurezza interna. Questa è una delle richieste che Islamabad ha sempre posto nei confronti degli Stati Uniti. Storicamente, il Pakistan ha favorito la caduta di determinati governi o l’ascesa di personalità gradite in Afghanistan per il suo successivo controllo; l’ipotesi che anche in questa occasione il Pakistan e l’ISI abbiano giocato un ruolo fondamentale non sarebbe dunque improbabile. In ogni caso, non solo l’India può aver subito un contraccolpo negativo dall’uccisione di Rabbani, ma anche l’Iran: Tehran vedeva in Rabbani una figura di primo piano per il soddisfacimento dei propri interessi. Le dichiarazioni del responsabile per l’Afghanistan del ministero degli esteri iraniano, Mohsen Pak-Ayeen, testimoniano come l’Iran abbia perso un importante alleato (Iranian FM Official Blames NATO for Rabbani’s Assassination). Il diplomatico individua negli Stati Uniti e nella NATO i mandanti dell’esecuzione di Rabbani, poiché il loro obiettivo sarebbe quello d’indebolire Karzai e prevenire l’avvento di personalità politiche troppo vicine a Tehran. L’uccisione di Rabbani sarebbe dunque legata a quella di Ahmed Karzai, in modo da ricattare il governo affinchè accetti le richieste statunitensi e della NATO. Per quanto concerne il governo Karzai, è indubbio che gli Stati Uniti stiano esercitando una certa pressione su di esso e che sia sempre più debole. L’attuale amministrazione a Kabul risentirà dunque fortemente dell’avvenuta uccisione di Rabbani. Innanzitutto Karzai ha perso un importante interlocutore, fondamentale per il dialogo con le etnie settentrionali, le quali osserveranno con maggiore negatività le aperture verso i talebani, sponsorizzate da Karzai. Questi ultimi, nonostante abbiano dimostrato recentemente un concreto interesse per la riconciliazione, giudicano negativamente il presidente per il suo stretto legame con tagiki, hazara e uzbeki (What the Taliban Want). Il rischio è che il già intricato mosaico afghano sia contraddistinto, unitamente alle pressioni esercitate dall’esterno, da un’elevata instabilità interna foriera di possibili scontri etnolinguistici dalle conseguenze imprevedibili anche per i paesi vicini. Tutto ciò è inoltre collegato al sempre più delicato rapporto tra Washington e Islamabad: in queste ultime settimane alcuni analisti hanno parlato di un ipotetico intervento di terra statunitense in Pakistan.

 

– I dilemmi statunitensi, pakistani, indiani e l’alleanza tra Karzai e l’India

 

Il deteriorarsi delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan sta catalizzando l’attenzione dei media pakistani. In questi giorni si è parlato di un possibile intervento di terra statunitense nelle FATA per il sostegno offerto dal Pakistan alla rete Haqqani. L’organismo, fondato da Jalaluddin Haqqani, attualmente guidato dal figlio Sirajuddin e basato nel Waziristan settentrionale, opera lungo la linea Durand dagli anni dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. Gli obiettivi strategici statunitensi a Kabul sarebbero colpiti proprio dalla rete Haqqani, considerata la responsabile di numerosi attentati. Il governo pakistano ha risposto alle accuse, ricordando che la rete venne creata e finanziata dalla CIA, in funzione anti-sovietica. In ogni caso la politica statunitense nei confronti del Pakistan sembra essere legata a un dilemma: il Pentagono, nonostante mantenga solidi rapporti con l’apparato militare pakistano, e la CIA propenderebbero per un incremento dell’intervento statunitense in Pakistan, aumentando i bombardamenti dei droni e attivando anche un’azione di terra; il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca sembrano invece più cauti, soprattutto per la mancanza di tempo in vista delle elezioni del prossimo anno e per la grave crisi economica. Esistono però ulteriori motivi geopolitici che rendono un attacco ad Islamabad altamente improbabile. Nonostante sia diviso da rivalità etniche, Islamabad ha un importante collante caratterizzato dalla religione, una popolazione di 177 milioni di abitanti, nonché un potente esercito dotato di armamenti nucleari. In queste settimane, i partiti politici principali, nonostante gli equilibri del paese rimangano precari, sembrano aver ritrovato una certa unità nazionale di fronte alle minacce statunitensi. Inoltre, il Pakistan rimane, data la sua posizione strategica, un alleato troppo importante per Washington, soprattutto per i rifornimenti militari e logistici da inviare in Afghanistan via Karachi. E’ probabile che ci sia un’intensificazione dei bombardamenti sulle FATA, ma non un intervento di terra, nonostante il Pakistan richieda da tempo la necessità di porre il proprio veto alle azioni aeree sul suo territorio. Islamabad può contare sul sostegno attivo di Arabia Saudita e Cina e ha recentemente migliorato le relazioni con Iran e Russia; ben conscia del proprio ruolo strategico per gli Stati Uniti, ha aumentato il suo potere negoziale. La stessa India osserva negativamente un ipotetico intervento di Washington in Pakistan. Nuova Delhi è irritata dai fallimenti statunitensi a Kabul, così come paventa l’esplodere di una guerra civile in Afghanistan. Un conflitto esteso al Pakistan renderebbe l’area altamente instabile, con ripercussioni negative per la stessa India; si potrebbe registrare un aggravamento della conflittualità in Kashmir, senza dimenticare la presenza di un’elevata minoranza musulmana nel territorio indiano. La politica di Nuova Delhi degli ultimi mesi nei confronti del Pakistan sembra andare in tutt’altra direzione, come dimostrato dai recenti incontri bilaterali. A questo proposito una soluzione del decennale problema legato al Kashmir potrebbe comportare delle conseguenze positive anche per l’Afghanistan. Infatti, la rete Haqqani e altri organismi collegati sono storicamente percepiti dal centro militare e politico pakistano come un importante strumento di difesa in funzione principalmente anti-indiana. Un nodo fondamentale da risolvere è essenzialmente il “dilemma della sicurezza” del Pakistan. Islamabad non potrà agire militarmente contro l’autonomo sistema legato ad Haqqani se prima non vedrà soddisfatte le necessarie condizioni politiche adatte al raggiungimento della propria sicurezza geostrategica; la quale è strettamente legata all’ascesa dell’India, percepita costantemente come una minaccia. Inoltre, un ipotetico attacco militare ai gruppi islamisti metterebbe in forse, non solo il collante religioso in grado di mantenere unito il paese lacerato dalla conflittualità etnolinguistica, ma anche la legittimità stessa dello Stato; la storia del paese testimonia infatti le costanti pressioni esercitate dai gruppi clericali, molto importanti nella società, aventi come obiettivo l’ideale del Pakistan come puro “Stato islamista”. Il dialogo tra Pakistan e India potrebbe risultare a questo proposito il fattore determinante per la stabilità della regione. La rete Haqqani, la Shura di Quetta e altri organismi simili sono utilizzati non solo in funzione anti-indiana in Kashmir o direttamente in India, ma anche per gli interessi strategici pakistani in Afghanistan.

Il rapporto indo-pakistano potrebbe però avere nell’immediato futuro un andamento conflittuale. Nonostante infatti gli Stati Uniti abbiano pubblicamente criticato il Pakistan per l’appoggio offerto alla rete Haqqani, sembra che l’amministrazione Obama, a differenza del Pentagono e della CIA, stia cercando un dialogo con questa stessa organizzazione, promettendo delle cariche future governative a Kabul (Before Lashing Out, U.S. and Pakistani Intel Reached Out to Insurgent Group; BBC:Haqqani Says US Wants Him to Join Afghan Gov’t). Gli Stati Uniti per non compromettere la propria strategia in Afghanistan opterebbero dunque per una soluzione politica piuttosto che militare. E’ evidente come una simile prospettiva sia sgradita a Nuova Delhi, visto il carattere di organismo precipuamente anti-indiano della rete Haqqani e per i legami troppo stretti che si ristabilirebbero tra Islamabad e Washington. La recente visita di Karzai in India, con la firma a margine dei colloqui di importanti accordi militari e commerciali, va letta in questo contesto di riposizionamento delle alleanze regionali. Se gli Stati Uniti sembravano allontanarsi dal Pakistan, il quale si stava avvicinando sempre più alla Cina, in queste ultime settimane il rapporto tra Washington e Islamabad può aver trovato dei margini di miglioramento; dall’altro lato, l’India ha rafforzato il proprio legame con l’Afghanistan, ma soprattutto con Karzai e l’Alleanza del Nord, destando l’allarme del Pakistan. Islamabad osserverebbe la messa in atto di un possibile accerchiamento, visto che l’importante accordo commerciale firmato tra India e Afghanistan include l’Iran, il cui territorio potrebbe fare da transito per i prodotti indiani in Asia Centrale; area in cui Nuova Delhi è interessata ad aumentare la propria influenza. Tehran sembra aver riannodato i propri rapporti con Nuova Delhi, ma è chiaro che chiederà una conferma da parte dell’India della propria autonomia dagli interessi strategici statunitensi nell’area. Bisognerà comprendere se effettivamente Nuova Delhi intraprenderà questo diverso approccio. Tehran potrebbe comunque assumere un ruolo importante nella regione, nonché diventare un’ulteriore fonte di competizione tra India e Pakistan: in questo modo la strategia degli ultimi anni di contenimento regionale operata da Washington verso l’Iran risulterebbe fallita. Inoltre, l’Iran troverebbe un importante alleato nell’India nel prevenire l’ascesa a Kabul delle forze d’ispirazione wahabita, maggiormente connesse al Pakistan e alla rete Haqqani, visti i passati canali finanziari per l’organismo provenienti dalle monarchie sunnite del Golfo Persico.

La regione potrebbe dunque registrare un nuovo possibile scontro tra India e Pakistan per l’influenza strategica nell’Hindu Kush. Il dialogo tra i due paesi verrebbe sostituito dalla competizione in Afghanistan, così come avvenuto durante gli anni ’90, rendendo il quadro geopolitico dell’area sempre più complicato. In ogni caso, nonostante le preoccupazioni dell’alleato pakistano, gli Stati Uniti giudicherebbero positivamente l’aiuto militare indiano. Lo stesso Karzai ha comunque ricordato come sia necessario in primo luogo un colloquio diretto con il Pakistan.

Infine, Nuova Delhi ha siglato un importante accordo con Kabul per l’esplorazione indiana di minerali e idrocarburi presso il passo di Hajigak. Tutto ciò potrebbe destare non solo le preoccupazioni statunitensi, ma anche cinesi. L’aumentata influenza della Cina in Asia Centrale rappresenta, infatti, l’unica certezza dell’area. L’instabilità interna afghana potrebbe dunque comportare degli effetti negativi anche per gli interessi della Cina, vista la recente acquisizione dei diritti d’esplorazione per i giacimenti di petrolio nel relativamente tranquillo nord-ovest dell’Afghanistan.

 


*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Incontro con l’ambasciatore della Siria a Mosca organizzato da S. Baburin

$
0
0

Il 6 ottobre 2011 su invito del rettore dell’Università Statale Russa di Economia e Commercio (RSUTE) e presidente del Comitato russo di solidarietà con i popoli della Libia e della Siria Sergey Nikolaevich Baburin, l’ambasciatore della Repubblica Araba Siriana in Russia Sua Eccellenza Mohamed Riad Haddad ha tenuto un discorso presso una sala dell’Università.

 

Alla tavola rotonda, denominata “La situazione in Siria: tendenze e previsioni”, hanno partecipato anche insegnanti e studenti dell’RSUTE, studiosi orientalisti, rappresentanti del Comitato russo di Solidarietà con i popoli della Libia e Siria, dell’Organizzazione Interregionale Pubblica “Veche” e di altre organizzazioni pubbliche, i rappresentanti della diaspora siriana in Russia, compresi i fondatori del Comitato Siriano di Unità Nazionale, oltre a vari blogger che scrivono di temi politici e giornalisti. La tavola rotonda è stata, inoltre, collegata in video-conferenza con 15 città russe, per permettere agli studenti e insegnanti delle filiali dell’Università di prendere parte alla discussione.

 

L’Ambasciatore siriano ha annunciato ufficialmente che i dirigenti della Siria continueranno la rotta verso le riforme annunciate e si opporranno sempre a qualsiasi interferenza esterna negli affari interni dello Stato: «Tali interferenze non sono finalizzate a preservare l’integrità della Siria, ma a risolvere i problemi nel Paese con l’uso della forza armata». Secondo l’ambasciatore, in cambio della revoca delle sanzioni contro la Siria si richiede di abbandonare il sostegno alla resistenza araba e al popolo palestinese. Riad Haddad ha anche fatto notare che il rappresentante ufficiale degli Stati Uniti ha dichiarato pubblicamente che non servono delle riforme in Siria, ma si mira al cambiamento di regime.

 

In collegamento televisivo dalla città di Kemerovo all’ambasciatore è stato chiesto del ruolo di “Al Qaeda” negli eventi in Siria. L’ambasciatore ha risposto che la partecipazione di “Al Qaeda” non indica che si è in presenza del biglietto da visita dell’appartenenza a questa organizzazione. “Al Qaeda” è, soprattutto, una ideologia, un modo di pensare, l’orientamento all’estremismo, al terrorismo, la creazione della paura e delle guerre intestine all’interno di un popolo, la chiamata all’omicidio. Tutto ciò lo vediamo oggi all’opera in Siria.

 

Il Professor Musin dell’RSUTE ha chiesto che cosa sta facendo la Siria per contrastare la guerra d’informazione contro il Paese. Secondo l’ambasciatore, contro la Siria in realtà si svolge una guerra, e per l’80% questa guerra si svolge nel campo dell’informazione. La Siria non è in grado di affrontare ad armi pari questa potente macchina di propaganda mondiale. Per esempio, nella località di Jisr al-Shugur sono state trovate due fosse comuni con cadaveri di persone uccise dagli estremisti anti-governativi. Ottanta i corpi decomposti. Il governo siriano ha subito invitato tutti gli ambasciatori stranieri e i giornalisti dei principali mass media del mondo ad andare a vedere tutto di persona. Alcuni hanno rifiutato. Ma quelli che sono venuti, ed erano parecchi, non hanno scritto su questo ritrovamento nemmeno una riga. Riad Haddad in persona, durante questa visita, ha chiesto un commento all’ambasciatore statunitense in Siria su quello che ha visto, ma questi si è categoricamente rifiutato di commentare.

 

La Siria sta usando tutte le proprie, piuttosto modeste, possibilità. I mass media della Siria cercano di distribuire materiali veridici sulla reale situazione del Paese. E, naturalmente, i siriani hanno bisogno del sostegno dei giornalisti russi e dei blogger. Attualmente la Siria ha invitato i rappresentanti delle 12 maggiori agenzie d’informazione. L’ambasciatore ha anche promesso di trasmettere al Comitato russo di solidarietà con i popoli della Libia e della Siria dei video con i materiali e documenti che raccontano la guerra contro la Siria.

 

All’Ambasciatore della Repubblica araba siriana è stato anche chiesto in merito alla situazione in Libia. Secondo il suo parere, la Siria ha suoi principi politici, uno di questi è la non ingerenza negli affari interni di altri Stati. Dopo l’aggressione contro la Libia tutti hanno visto le sofferenze del popolo libico, le vittime e le distruzioni. La lezione libica dimostra che nessuno, compreso la NATO, può portare con la forza la democrazia in un qualunque Paese.

 

Piotr Rybakov, rappresentante della comunità online “Per Gheddafi e la sua gente”, ha detto che il primo dovere del presidente Al Asad, così come di qualsiasi capo di Stato, sia proteggere il suo popolo. Gli Stati Uniti pretendono di insegnare alla Siria come vivere, nonostante che la storia degli Stati Uniti ammonta a soli 200 anni, e ha chiesto all’ambasciatore quanti secoli è lunga la storia della Siria. L’ambasciatore Mohammed Riad Haddad ha risposto che la Siria ha una storia di 7.000 anni. E la cosa più importante è che durante tutto questo tempo non c’è stata nessuna guerra civile nel Paese. Ora l’Occidente sta accendendo in Siria, come già ha fatto in Iraq, i conflitti e le ostilità tra le fedi religiose.

 

E la domanda più pacifica è stata fatta da una studentessa in collegamento da Kazan: «a Kazan nel 2013 si svolgeranno le “Universiadi”. A quali specialità parteciperanno gli atleti siriani?».

Sorridente l’ambasciatore ha detto che gli atleti siriani gareggeranno principalmente nel salto in alto.

«State in attesa!» ha aggiunto ottimisticamente S. Baburin.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il progetto eurasiatico, una minaccia per il Nuovo Ordine Mondiale

$
0
0

Si potrebbe essere tentati di considerare il documento del premier russo Vladimir Putin, “Un nuovo progetto per l’integrazione del Eurasia: Il futuro in divenire“, che è stato pubblicato sulle Izvestia del 3 ottobre 2011, come un programma tracciato sommariamente da un concorrente delle elezioni presidenziali; ma dopo un controllo, sembra essere solo una parte di un quadro più ampio. L’articolo di opinione, ha momentaneamente acceso ampie polemiche in Russia e all’estero, ed ha evidenziato lo scontro di posizioni in corso sullo sviluppo globale…

Indipendentemente dalla interpretazione dei dettagli, la reazione dei media occidentali al progetto di integrazione presentato dal premier russo, è uniformemente negativo e riflette con estrema chiarezza una ostilità aprioristica verso la Russia e le iniziative che avanza. Mao Zedong, però, era solito dire che affrontare la pressione dei propri nemici è meglio che essere in una condizione in cui non si preoccupano di tenerti sotto pressione.

Aiuta a capire perché, al momento, i titoli in stile Guerra Fredda spuntano costantemente sui media occidentali e perché la recente presentazione dell’integrazione eurasiatica di Putin, è percepita dall’Occidente come una minaccia.
La spiegazione più ovvia è che, se attuato, il piano diverrebbe una sfida geopolitica al nuovo ordine mondiale, al dominio della NATO, del FMI, dell’Unione europea e degli altri organismi sovranazionali, e al primato palese degli Stati Uniti. Oggi, una sempre più assertiva Russia suggerisce, ed è pronta ad iniziare a costruire, un’ampia alleanza basata su principi che forniscono una valida alternativa al neoliberismo e all’atlantismo. E’ un segreto di pulcinella, che in questi giorni l’Occidente sta mettendo in pratica una serie di progetti geopolitici di vasta portata, per riconfigurare l’Europa sulla scia dei conflitti balcanici e, sullo sfondo della crisi provocata in Grecia e a Cipro, assemblare il Grande Medio Oriente sulla base di cambiamenti di regime in serie, in tutto il mondo arabo e, come progetto relativamente nuovo, la realizzazione del progetto per l’Asia, il cui recente disastro in Giappone, è stata una fase attiva

Nel 2011, l’intensità delle dinamiche geopolitiche è senza precedenti dal crollo dell’Unione Sovietica e del blocco orientale, con tutti i principali paesi e organismi internazionali che vi contribuiscono. Inoltre, l’impressione attuale è che la forza militare, in qualche modo, sia diventata uno strumento legittimo nella politica internazionale.
Solo pochi giorni fa, Mosca ha attirato una valanga di critiche dopo aver posto il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che potrebbe autorizzare la replica dello scenario libico in Siria. Come risultato, l’inviata permanente degli USA all’ONU, S. Rice, ha rimproverato la Russia e la Cina per il veto, mentre il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, ha dichiarato che “è un giorno triste per il popolo siriano. E’ un giorno triste per il Consiglio di Sicurezza“. Durante l’acceso dibattito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 5 settembre, il rappresentante siriano ha redarguito Germania e Francia, ed ha accusato gli USA del genocidio perpetrato in Medio Oriente. Dopo di che, S. Rice ha accusato la Russia e la Cina di sperare di vendere armi al regime siriano, invece di stare dalla parte del popolo siriano, e ha abbandonato precipitosamente la riunione, e l’inviato francese Gérard Araud ha rilevato che “Nessun veto può cancellare la responsabilità delle autorità siriane, che hanno perso qualsiasi legittimità uccidendo il proprio popolo“, lasciando l’impressione che uccidere i popoli, come in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Libia, dovrebbe essere un privilegio della NATO.
I “partner” occidentali di Mosca si indignano quando la Russia, di concerto con la Cina, pone ostacoli sulla strada del nuovo ordine mondiale. La Siria, anche se un paese di notevole valenza regionale, giunge ad emergere nell’ordine del giorno solo fugacemente, ma l’ambizioso piano di Putin per l’intera Eurasia – “per raggiungere un più alto livello di integrazione – una Unione Euroasiatica” – avrebbe dovuto aspettarsi di evocare le preoccupazioni profonde e durature dell’Occidente. Mosca sfida apertamente il dominio globale da parte dell’Occidente “suggerendo un modello di una potente unione sovranazionale che può diventare uno dei poli del mondo di oggi, pur essendo un efficace collegamento tra l’Europa e la dinamica regione Asia-Pacifico“. Senza dubbio, il messaggio di Putin che “la combinazione di risorse naturali, di capitale e di forte potenziale umano, renderà l’Unione Euroasiatica competitiva nella gara industriale e tecnologico e nella corsa al denaro degli investitori, in nuovi posti di lavoro e negli impianti di produzione all’avanguardia” e che “insieme con altri protagonisti e istituzioni regionali come l’Unione Europea, USA, Cina e l’APEC, garantirà la sostenibilità dello sviluppo globale“, sembra allarmante per i leader occidentali

Né il crollo dell’URSS e del mondo bipolare, né la conseguente proliferazione di “democrazie” filo-occidentali, ha segnato un punto finale nella lotta per il primato mondiale. Ciò che seguì fu un periodo di interventi militari e rovesciamenti di regimi sfidanti, con l’ausilio della guerra dell’informazione e l’onnipresente soft power occidentale. In questo gioco, l’Eurasia rimane il primo premio in linea con l’imperativo geopolitico di John Mackinder, per cui “Chi governa l’Est Europa comanda l’Heartland, chi governa l’Heartland comanda l’Isola-Mondo, chi governa l’Isola-Mondo controlla il mondo“.
Alla fine del XX secolo gli USA sono diventati il primo paese non eurasiatico a combinare i ruoli di potenza più importante del mondo e di arbitro finale negli affari eurasiatici. Nel quadro della dottrina del nuovo ordine mondiale, gli Stati Uniti e l’Occidente nel suo complesso, vedono l’Eurasia come una zona di importanza fondamentale per il loro sviluppo economico e crescente potere politico. Il dominio globale è un obiettivo dichiarato apertamente e costantemente perseguito della comunità euro-atlantica e dalle sue istituzioni militari e finanziarie – la NATO, il FMI e la Banca Mondiale – insieme con i media occidentali e le innumerevoli ONG. Nel processo, l’establishment occidentale rimane pienamente consapevole del fatto che, nelle parole Z. Brzezinski, il “primato globale dell’America è direttamente dipendente da quanto tempo e quanto efficacemente la sua preponderanza sul continente eurasiatico è sostenuta“. Sostenere la “preponderanza“, a sua volta, significa assumere il controllo di Europa, Russia, Cina, Medio Oriente e Asia Centrale

L’aperta egemonia occidentale in Europa, Asia centrale e, quindi, in Medio Oriente e anche in Russia, conta quale risultato indiscutibile degli ultimi due decenni, ma al momento la situazione appare fluida. Gli osservatori occidentali, cinesi e russi prevedono un fallimento imminente del modello di globalizzazione neoliberista integrata nel nuovo ordine mondiale, ed è in arrivo il tempo, per la classe politica, di adottare una visione.

Aprendo nuove opportunità per proteggere gli originali modelli di sviluppo nazionali dalla pressione atlantista, e per mantenere una reale sicurezza internazionale, il nuovo progetto di integrazione di Putin mantiene una promessa importante, per la Russia e i suoi alleati, e presenta quindi ai nemici della Russia un problema serio. Né la Russia, né alcun altra repubblica post-post-sovietica può sopravvivere nel mondo di oggi da sola, e la Russia come attore chiave geopolitico dell’Eurasia, con una potenzialità economica, politica e militare senza precedenti in tutto lo spazio post-sovietico, può e deve, giocare l’offerta di una architettura mondiale alternativa.
L’allergia dell’Occidente al piano di Putin è dunque spiegabile, ma, a prescindere dalla opposizione che il progetto può incontrare, la debolezza di alcuni dei suoi elementi, e la potenziale difficoltà nel metterlo in pratica, il progetto di integrazione eurasiatica nasce dalla vita nello spazio geopolitico e culturale post-sovietico ed è affine alle attuali tendenze globali. Sopravvivere, conservando le basi economiche e materiali dell’esistenza nazionale, mantenendo vive le tradizioni e costruendo un futuro sicuro per i figli, sono gli obiettivi che le nazioni eurasiatiche possono realizzare solo se rimangono allineate con la Russia. In caso contrario, l’isolamento, le sanzioni e gli interventi militari le attendono…

E’ gradita la ripubblicazione con riferimento alla rivista on-line della Fondazione per la Cultura strategica www.strategic-culture.org.
Traduzione di Alessandro Lattanzio

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail
Viewing all 68 articles
Browse latest View live