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Il volontariato italiano in Bosnia e i rapporti Italia-Serbia

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Si è tenuto a Modena mercoledì 12 ottobre, dalle ore 14 alle 18.30, il seminario di studi “Giuseppe Barbanti Brodano, il volontariato italiano in Bosnia-Erzegovina e i rapporti tra l’Italia e la Serbia”, presso l’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Modena e Reggio Emilia, in Via Università 4.

Sono intervenuti come relatori, tra gli altri, anche Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, e Dragan Mraovic, membro del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto Storico di Modena e del Laboratorio Russia-Europe del Dipartimento di Scienze del linguaggio e della cultura, con il patrocinio dell’Università di Modena e Reggio Emilia e la collaborazione dell’Associazione d’Amicizia Italia-Serbia.

Per maggiori informazioni cliccare qui.

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Crepuscolo della NATO?

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Lo scorso 4 ottobre i Ministri della Difesa dei Paesi aderenti alla NATO si sono incontrati a Bruxelles per discutere un eventuale, ulteriore riassetto dell’ordinamento strategico dell’Alleanza Atlantica.

Tuttavia, nel corso della riunione non è emersa una visione strategica condivisa, ma un affresco piuttosto problematico riguardo ai meccanismi finanziari su cui si regge la NATO, incardinati sugli esborsi statunitensi.

La crisi ha aperto crepe assai profonde nella struttura economica statunitense, al punto che negli Stati Uniti l’ala più marcatamente reazionaria e isolazionista del partito Repubblicano (il Tea Party) ha trovato il proprio posto al sole.

Ciò ha spinto l’indipendente Robert Gates, Segretario alla Difesa sia nell’amministrazione retta da Bush junior che in quella di Obama, a mettere pubblicamente in discussione il futuro prossimo della NATO puntando il dito contro l’avidità di numerosi paesi europei che, secondo il parere di Washington, non contribuiscono a sufficienza per potenziare l’Alleanza.

Il Congresso statunitense – ha affermato Gates – non è più disposto ad approvare ulteriori stanziamenti finanziari per ovviare alla voragine aperta dalla ristrettezza alla spesa di paesi che evidentemente non sono in grado o non hanno l’intenzione di erogare fondi finalizzati al potenziamento della loro stessa struttura di difesa”.

Gates si riferiva evidentemente alla stagnazione delle missioni in Afghanistan e soprattutto in Libia, dove l’intraprendenza iniziale di Francia e Gran Bretagna è andata progressivamente attenuandosi.

In realtà, tuttavia, l’obiettivo di Washington non verte assolutamente sullo smantellamento della NATO, quanto sul lanciare un chiaro ed inequivocabile monito ai propri alleati, richiamandoli al rispetto degli accordi presi al momento dell’adesione all’Alleanza.

I paesi europei non sono però nelle condizioni adeguate per profondere sforzi in questo senso e difficilmente riusciranno a convincere le rispettive opinioni pubbliche della necessità di contribuire ad alimentare un’Alleanza Atlantica che sta dimostrandosi sempre più come un mero braccio armato della politica estera statunitense privato del proprio carattere originariamente difensivo.

Come spesso accade i momenti di crisi riservano sia rischi che opportunità, che nel caso specifico corrispondono all’irripetbile occasione di revisionare integralmente l’architrave della NATO, che ha perso la propria ragion d’essere al momento del collasso dell’Unione Sovietica.

Nel corso del vertice di Roma (7 novembre 1991) il Consiglio Atlantico avallò i progetti riorientatitivi dell’Alleanza escogitati da Washington.

Nel documento intitolato The Alliance’s New Strategic Concept ratificato al termine della riunione si legge infatti che: “Contrariamente alla predominante minaccia del passato i rischi che permangono per la sicurezza dell’Alleanza sono multidirezionali e di natura  multiforme, cosa che li rende difficili da prevedere (…). Le tensioni potrebbero sfociare in crisi dannose per la stabilità europea e portare a conflitti armati suscettibili di coinvolgere potenze esterne o espandersi anche all’interno dei paesi della NATO“.

Da ciò si deduce che: “La dimensione militare della nostra Alleanza resta un fattore cruciale, ma la novità sta nel fatto che essa sarà posta al servizio di un concetto più ampio di sicurezza“.

Il “concetto più ampio di sicurezza” menzionato all’interno del documento è stato messo in pratica in Somalia, Jugoslavia, Afghanistan e Libia, scenari in cui l’Alleanza Atlantica è intervenuta unilateralmente in assenza di attacchi diretti contro alcun paese membro, cosa che ha fatto decadere il principio cardine dell’Alleanza secondo cui “Un attacco contro uno o più membri è considerato come un attacco contro tutti“.

La NATO si configura quindi come un’alleanza che gli Stati Uniti hanno promosso con l’obiettivo di puntellare il proprio predominio sul Vecchio Continente, che passa per il veto relativo alla nascita di un esercito europeo e per il sabotaggio di ogni progetto di integrazione tre Europa ed Asia.

L’erosione dalla NATO rappresenta perciò una soluzione obbligata per un’Europa priva di ogni residuo di sovranità.

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Nikolai Hovhannisyan, Il problema del Karabakh

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Nikolai Hovhannisyan
Il problema del Karabakh
Il faticoso percorso verso la libertà

Roma, Studio 12, 2011
174 p. ; 23 cm
EAN 9788896109311
€ 18,00

Recensione di Giuliano Luongo

In quante pagine si può riassumere la lunga e sanguinosa tragedia del Nagorno-Karabakh, questione di confine che tutt’ora affligge il popolo armeno e che ancora pare senza uscita? Al Prof. Nikolay Hovhannisyan dell’Accademia Nazionale delle Scienze d’Armenia, nel suo “Il problema del Karabakh – il faticoso percorso verso la libertà e l’indipendenza” (ed. Studio 12, 2011), ne sono bastate meno di duecento per inquadrare con efficacia e lucidità il lungo e doloroso percorso degli abitanti di quest’area verso l’autodeterminazione e la libertà.

Il Nagorno-Karabakh o Artsakh – l’antico nome armeno della regione – è un’area contesa tra Armenia e Azerbaigian sin dall’annessione di queste due repubbliche all’Unione Sovietica. Il governo dell’URSS, come mossa strategica di avvicinamento alla Turchia, decise negli anni ’30 di far passare la regione del Nagorno-Karabakh – a stragrande maggioranza di popolazione armena – all’Azerbaigian. Dopo anni di soprusi e di tentativi di pulizia etnica da parte del governo di Baku, il Karabakh ha cercato il ritorno all’Armenia e l’indipendenza a più riprese, sino agli ultimi anni di esistenza dell’URSS: il traguardo sembrava raggiunto tra la fine degli anni ’80 e primi anni ’90 grazie al risultato di un referendum favorevole al distacco dall’Azerbaigian, ma la caduta del governo sovietico impedì il riconoscimento ufficiale del plebiscito, aprendo così la strada alle pretese azere e al conflitto armato.

L’intera impostazione del libro è molto efficace nella sua semplicità: ognuno dei capitoli del testo approfondisce un elemento particolare della storia del Karabakh, descrivendo con abbondanza di dettagli ogni singolo aspetto delle pretese armene e della loro legittimità, smontando al contempo tutte le ragioni azere con motivazioni ragionate. Uno dei temi portanti del libro è infatti non solo la dimostrazione della vacuità delle pretese del governo di Baku, ma la stessa messa in dubbio delle ragioni storiche dell’esistenza dell’Azerbaigian come stato.

L’analisi del Prof. Hovhannisyan inizia dai fattori storici antichi, geografici e etno-culturali dell’area, al fine di dimostrare come l’Artsakh sia armeno a dispetto di ogni pretesa o imposizione estera. Sulla base di queste premesse, l’autore procede, capitolo dopo capitolo, con un’esposizione dettagliata di tutte le dinamiche, sino alla guerra degli anni ’90 e all’affannoso cessate il fuoco, a tutt’oggi vigente, seppur costantemente violato. Il testo si avvia alla conclusione con un lungo, preciso e disincantato elenco delle varie proposte di risoluzione del conflitto, per poi chiudersi con un epilogo cosciente sullo stato attuale del Nagorno-Karabakh, un ente dichiaratosi indipendente, uno stato a sé che crede nel valore della democrazia.

A rendere peculiare il testo non è solo la tematica trattata – ingiustamente ignorata da molti storici mainstream – e l’incontestabile precisione della ricostruzione storica, ma anche lo stile con il quale vengono descritti i fatti storici e le argomentazioni.

L’intero libro, nonostante una prosa di base distaccata – testimoniante l’obiettività e l’attenzione scientifica di un abile storico come Hovannisyan – lascia che la passione e l’accoramento per la tematica trattata affiorino in maniera impercettibile quanto inesorabile nei passaggi più salienti, riuscendo a coinvolgere il lettore in pieno senza bisogno di iperboli e sensazionalismi: Hovannisyan rende vivo il desiderio di libertà dei suoi connazionali senza perdere di vista il metodo d’analisi scientifico che si confà ad un saggio di questa portata.

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Continua la sfida contro Bashār al-Asad

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Sebbene Damasco abbia iniziato il suo percorso di riforme, il boicottaggio NATO persiste nel tentativo di destabilizzare il governo di Bashār al-Asad. Le recenti manovre introdotte, infatti, intendono condurre la Siria ad un cambiamento libero dalle ingerenze esterne, in quanto promosso esclusivamente dalle forze sociali interne del paese. Tuttavia, queste misure non hanno placato le preoccupazioni del blocco filo-atlantico per il quale Damasco costituisce ancora una grossa opportunità. La Siria, infatti, rappresenta, un baluardo importante contro l’imperialismo. Alleato del vicino Iran, il paese è anche un valido supporto al Libano resistente e alla lotta palestinese. Pertanto, se l’obiettivo è quello di garantire all’entourage NATO l’avanzata verso il Vicino Oriente, nessuna riforma, promossa da al-Asad, potrà soddisfare le richieste occidentali.

I recenti sviluppi della situazione siriana

Fin dall’inizio delle proteste, la vicenda siriana ha mostrato caratteri comuni con quella libica. Per i due paesi, infatti, era stato già da tempo predisposto un identico copione. Tuttavia, fino ai disordini del 2011 è parso difficile trovare il pretesto per darne attuazione. A tal proposito, alcune fonti raccontano con accuratezza il preludio della presunta “primavera araba”. Il sovvertimento del governo siriano, insieme a quello libico e a quello libanese, era annoverato nell’agenda politica di Washington fin dal 2002. All’epoca, John Bolton, sotto segretario di stato del governo Bush, annunciò l’obiettivo dell’amministrazione statunitense. Stando alle fonti[1], il progetto prevedeva la realizzazione di un colpo di stato militare parallelamente nei tre paesi, ma, avrebbe avuto un principio di realizzazione solamente in Libia dove sarebbe stato sventato dallo stesso Muʿammar al-Qaḏḏāfī.

Nel caso siriano, era stata scelta la città di Daraa, situata al confine con la Giordania. Per la sua posizione, la città si prestava alla realizzazione del complotto anche in virtù della sua vicinanza con le alture del Golan, strappate da Israele alla Siria nel 1967. I disordini scoppiati nel mondo arabo hanno fornito l’occasione adatta per alimentare le speranze dell’avanzata occidentale nel Vicino Oriente. Secondo le fonti, esattamente come accadde anche a Bengasi, sarebbe stato costruito un banale incidente che avrebbe fatto degenerare la situazione e approfittato di un preesistente malcontento popolare. Pertanto, tale malessere, che Bashār al-Asad non ha mai negato, è stato cavalcato da fattori di accusa internazionale per riscaldare il contesto politico interno. Come anticipato, il presidente siriano non ha mai negato la legittimità delle proteste, né che le proposte di cambiamento fossero delle alternative ragionevoli. Piuttosto, il presidente ne ha deplorato l’utilizzo da parte occidentale. Il gruppo dei presunti ribelli, infatti, sarebbe più una squadra di mercenari, al soldo della CIA e del Mossad, reclutati dalla famiglia saudita, fedele alleato di Washington. In questi mesi, ben equipaggiati di armi, munizioni e denaro, i presunti rivoltosi hanno ripetutamente aggredito proprietà pubbliche e private compiendo violenze sui civili senza suscitare nemmeno un po’ di indignazione da parte dei paesi che si assurgono a tutori dei diritti e della democrazia. Nell’ultimo mese, queste milizie armate hanno ucciso indisturbatamente diversi civili, tra cui contadini, medici e funzionari della pubblica amministrazione (per citare solo alcuni esempi, il dottor Mohamed al-Omar dell’Università di Aleppo, il figlio del Gran Mufti di Siria, il primario di chirurgia toracica Hasan Aid, il vice preside della facoltà di Architettura, Mohamed Ali Aqil e numerosi altri cittadini innocenti). Le loro azioni, pertanto, più che dal desiderio di democrazia e di tutela dei diritti, sembrano essere mirate alla destabilizzazione del governo di al-Asad.

A conferma dell’emulazione dello scenario libico, inoltre, si aggiunge la costituzione del Consiglio Nazionale di Transizione siriano. Questo, pur raccogliendo i presunti ribelli, è stato designato, esattamente come nel caso libico, dalla discrezionalità occidentale come il legittimo rappresentante del popolo siriano.

La strumentalizzazione delle mancanze democratiche del governo e dei morti nelle proteste è percepita anche da reali movimenti di opposizione siriani che, da tempo, chiedono un programma di riforme. Infatti, esiste in Siria un’opposizione sana, protagonista di passate manifestazioni, che, attualmente, condanna la campagna diffamatoria contro il governo siriano. Non a caso, questi movimenti rifiutano di unirsi alle milizie stipendiate da Washington e accettano il percorso di riforme promosso da al-Asad.

Una parte del popolo siriano, infatti, considera la manovra del presidente, la sana premessa per una trasformazione che non ceda ai ricatti NATO e che non comprometta la sovranità nazionale. A tal proposito, la solida consapevolezza patriottica costituisce uno dei pilastri di legittimazione del paese. La Siria, infatti, possiede delle radici fortemente ideologizzate riconducibili, in parte, allo storico progetto della “Grande Siria” e, ancora oggi, quei movimenti che auspicano il ripristino del passato storico, non intendono cedere alle logiche imperialistiche.

Dall’inizio dei disordini, al-Asad ha parlato due volte[2] alla nazione senza mai negare le esigenze del suo popolo. In realtà, il presidente non sembra essere venuto meno al suo impegno. Le recenti manovre, infatti, si concentrano su due pilastri: le riforme politiche ed economiche e lo smantellamento dei gruppi armati. Al riguardo, il Parlamento ha approvato la nuova legge elettorale che stabilisce il diritto di voto libero, eguale e segreto per tutti i maggiori di 18 anni. Un altro testo ha permesso la liberalizzazione dei mezzi di comunicazione. Inoltre, la legge sul multipartitismo, approvata di recente, consente la costituzione libera dei partiti politici purché il loro programma sia conforme alle norme internazionali sulla tutela dei diritti umani. Attualmente, invece, si discute del nuovo testo costituzionale.

Nonostante ciò, la campagna diffamatoria contro la Siria non si arresta. In aggiunta, l’accanimento contro il paese è amplificato dalle misure economiche di sabotaggio attuate dagli USA in collaborazione con i sauditi. Nello specifico, Thierry Meyssan spiega che l’erogazione delle risorse petrolifere siriane, sebbene siano presenti in misura ridotta rispetto a quelle dei paesi limitrofi, necessita del sistema bancario occidentale. Pertanto, il fronte filo-NATO è riuscito ad attaccare la Siria congelando il sistema e impedendone le transazioni.

Per completare l’operazione di destabilizzazione mancava un ultimo passo: una risoluzione ONU che ne consentisse l’occupazione. Ancora una volta, secondo l’esempio libico.

Il voto al Consiglio di Sicurezza

Nel corso della votazione della risoluzione 1973, che permetteva l’aggressione contro la Libia, i delegati russo e cinese, astenendosi, avevano rifiutato di esercitare il loro diritto di veto. Circa la proposta di voto sull’eventuale risoluzione destinata alla Siria, gli eventi sono andati diversamente da quanto auspicato dall’asse USA-Unione Europea.

Il testo sottoposto alla votazione del Consiglio di Sicurezza è stato promosso dall’Europa e, in particolare, dalla Francia. Una prima formula chiedeva la fine delle violenze, il rispetto per i diritti umani e prevedeva che, qualora la Siria non si fosse adattata alle richieste, venissero impiegate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU delle “misure mirate, incluse delle sanzioni”[3]. Contro questa versione, Cina e Russia hanno proposto una formula che sanciva fermamente il principio di non interferenza e il rispetto della sovranità del paese. Tuttavia, gli Europei, con i francesi ancora una volta in prima linea, hanno rifiutato l’idea russo-cinese proponendo la semplice introduzione di modifiche al testo originario. In sintesi, la proposta francese, poi ammessa alla votazione, sanciva che il Consiglio di Sicurezza avrebbe potuto adottare delle “misure mirate”. Come ha fatto notare giustamente la delegazione russa, anche in questo caso, le “misure mirate”, seppure non specificate, avrebbero potuto includere manovre di ogni genere.

Il 4 ottobre, il Consiglio di Sicurezza ha votato la formula proposta dagli europei. Russia e Cina, servendosi del veto, hanno impedito la manovra contro la Siria. Successivamente alla votazione, i media hanno lasciato spazio all’indignazione delle potenze europee e in particolare a quella francese. Sebbene siano stati i personaggi più discussi, né il delegato russo, Vitaly Churkin, né il rappresentante cinese, Li Baodong, hanno trovato ampio spazio nei mezzi di informazione. Che questi abbiano agito esclusivamente in nome dell’interesse siriano potrebbe essere discutibile, tuttavia, le ragioni da loro riportate sembrano meritare attenzione.

Tra gli argomenti esposti dall’ambasciatore Vitaly Churkin e dal delegato cinese, Li Baodong, quello che riveste maggiore rilevanza riguarda il principio della tutela della sovranità siriana. Infatti, come insegna l’aggressione contro Tripoli, il nuovo testo avrebbe creato un altro caso libico. A tal proposito, il portavoce di Mosca, ha spiegato che l’aggressione al Colonnello ha palesemente mostrato alla comunità internazionale le modalità con cui uno strumento del Consiglio possa essere facilmente utilizzato per autorizzare interventi militari celati dalla targa della salvaguardia dei diritti. In sintesi, le vicende NATO in Libia non devono essere interpretate come un modello, come il testo sotto votazione avrebbe voluto fare, piuttosto sono da intendersi come un percorso da evitare.

Pertanto, ad una nuova ipotesi di occupazione NATO, Russia e Cina hanno preferito manifestare fiducia nei confronti del presidente al-Asad e del suo recente processo di riforme. Sebbene le manifestazioni rivelino un generale malessere interno, affinché il cambiamento sia il più sano possibile sarebbe bene dare alle riforme recentemente approvate, il tempo di produrre i loro effetti sul piano pratico. Il delegato russo, inoltre, ha sollevato l’allarme sui presunti ribelli. Il generale sostegno della comunità internazionale a queste milizie sembrerebbe piuttosto preoccupante, perché non rappresentative del popolo e perché fornite di armi e munizioni in grosse quantità.

Attualmente, le difficoltà economiche e il sabotaggio ritardano l’efficacia degli sforzi di al-Asad. Anche in tale occasione, i mezzi di comunicazione hanno condotto ad una percezione errata degli eventi. Le rivolte arabe, piuttosto che essere state analizzate caso per caso, sono state descritte con toni leggendari ed epici che hanno trovato facile consenso nell’opinione pubblica. Il veto esercitato dalla Russia e dalla Cina rappresenta una mossa di valore anche dal punto di vista mediatico, ragione per la quale ad essa non è stato dato ampio spazio. Tuttavia, la determinazione dell’Europa e degli Stati Uniti non sembra dimostrare un’arresa. Non è escluso, infatti, che questi riescano a trovare delle altre vie per legittimare l’auspicata impresa contro la Siria.

[1] http://www.voltairenet.org/The-plan-to-destabilize-Syria

[2]

[3] “targeted measures, including sanctions”.

Laura Tocco è dottoranda presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari.

 

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Accordo in Belgio: verso la fine della crisi politica

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Il Belgio, la ventesima economia mondiale, sede delle principali Istituzioni Europee e del quartier generale della NATO, nonché membro fondatore dell’UE e capitale d’Europa, sembra finalmente vedere la fine del tunnel, quello di un interminabile governo provvisorio, durato 18 mesi, il più lungo della storia, anche più di quello dell’Iraq. Dalla metà di settembre, infatti, i rappresentanti di otto partiti sembrano aver raggiunto  un accordo per la riforma dello Stato, che entro due o tre settimane dovrebbe portare alla formazione di un governo effettivo. L’urgenza Dexia, il gruppo bancario franco-belga che per primo in Europa rischia il fallimento, avrebbe contribuito alla risoluzione dell’impasse politica di uno dei Paesi cardine dell’Unione Europea.

Quadro storico-economico belga

Il Belgio ha dovuto sempre fare i conti con le ancestrali divisioni tra le principali comunità linguistiche del Paese, divisioni legate peraltro alle differenti capacità economiche e produttive tra il Nord fiammingo e il Sud Vallone.

Così l’indipendenza del Paese nel 1830 dal Regno Unito dei Paesi Bassi fu portata avanti dalla minoranza francese, di religione cattolica, dall’attività industriale fiorente e dall’economia florida, contro le popolazione olandese. Fino alla fine del XIX secolo la sola lingua ufficiale fu il francese e i diritti dei fiamminghi furono drasticamente ridotti. Questo fu reso possibile anche grazie al fatto che fino agli anni Sessanta del ‘900 l’intera economia belga – così come l’intera Europa – si resse sul settore carbo-siderurgico, di cui la Vallonia, appunto, era maggiormente fornita. Quando questo settore andò in crisi negli anni Ottanta – parallelamente ad una rivalutazione delle attività industriali del Nord –, i fiamminghi riuscirono a ristabilire una situazione di uguaglianza ed, anzi, essi stessi sono oggi l’anima trainante del Paese. Mentre la Vallonia si trova oggi impegnata in un lento processo di riconversione del proprio apparato industriale, le Fiandre non sono solo la parte più popolosa del Paese, ma anche quella più produttiva, grazie alle imprese nel settore petrolchimico, meccanico, elettronico, automobilistico (il Belgio è il primo costruttore mondiale di autovetture pro capite), senza dimenticare quello delle pietre preziose. Da sole le Fiandre producono il 60% del PIL nazionale e la propria disoccupazione è 1/3 rispetto a quella del Sud. Discorso a parte, infine, per la Regione di Bruxelles-Capitale, regione come le altre due, enclave delle Fiandre, ma a maggioranza francese, vero nodo della contesa fra le due parti del Paese.

Perciò il sistema partitico belga riflette il multilinguismo e la complessità del sistema istituzionale: non esistono partiti belgi in senso stretto, ma solo partiti fiamminghi o valloni (anche i partiti di Bruxelles non hanno mai preso piede). Così anche il sistema elettorale non elegge deputati a livello federale: i cittadini possono votare solo un partito della propria comunità linguistica-culturale. La struttura belga, dunque, è duale, che riflette, cioè, le due comunità. Dalle elezioni politiche del 2007 queste divisioni si sono accentuate, si sono acuite le diversità di vedute riguardanti la riforma dello Stato, fino a condurre il Paese verso una vera e propria crisi istituzionale che è esplosa definitivamente in occasione delle elezioni del 13 giugno 2010 e dell’incapacità di formare un esecutivo.

Struttura e organizzazione belga

Il Belgio, situato al confine tra l’Europa germanofona e l’area linguistica e culturale romanza, in base alla Costituzione del 1831 è una Monarchia costituzionale ereditaria, anche se le riforme del 1994 e del 2001, che hanno trasferito maggiori competenze a livello locale e regionale, lo hanno reso un sistema federale (c.d federalismo per disaggregazione), che include entità di differente natura con sovrapposizione territoriale: a nord, la regione delle Fiandre, con popolazione di lingua fiamminga (variante dell’olandese) con il 58% della popolazione totale; a sud, la Vallonia, francofona ed una piccola comunità germanofona, di lingua tedesca, che formano complessivamente il 32% circa dell’intera popolazione; nel mezzo la regione diBruxelles-Capitale, ufficialmente bilingue, a maggioranza francofona.

Con le elezioni del giugno 2010, il governo belga sperava di poter superare la crisi politica causata dalla spaccatura tra i partiti fiamminghi e valloni, riguardo la determinazione della circoscrizione elettorale di Bruxelles. A nord aveva vinto largamente il partito nazionalista (ed indipendentista) della Nuova Alleanza Fiamminga (Nieuw-Vlaamse Alliantie = N-VA) di Bart De Wever, a sud il Partito Socialista di Elio di Rupo. Il risultato si è riflesso a livello parlamentare, dove i separatisti dell’N-VA hanno ottenuto 27 seggi, mentre i socialisti francofoni 26, affianco dei quali si pongono numerosi altri partiti.

La N-VA è diventato il primo partito fiammingo e la principale forza politica a livello nazionale. I rappresentanti dei partiti si sono succeduti nell’ultimo anno alla testa delle trattative per trovare un’intesa sulle problematiche più controverse, tra cui: la riforma dello Stato, la legge di finanziamento e lo status di Bruxelles, senza risultati positivi. Re Alberto II ha incaricato dapprima Yves Leterme, poi il deputato socialista fiammingo Johan Vande Lanotte, poi il socialista vallone Di Rupo e, infine, nuovamente Leterme come Primo Ministro ad interim per lo svolgimento degli affari correnti (quest’ultimo ha anche detenuto il semestre di presidenza dell’Unione Europea da luglio a dicembre 2010) e nel tentativo di trovare una soluzione alla situazione di stallo.

Ma quali sono i nodi della disputa? Innanzitutto la ridefinizione dell’assetto federale dello Stato. Da quando nel 1993 fu riformata la Costituzione, il Paese è stato suddiviso in tre entità amministrative autonome e tre lingue ufficiali: francese, olandese, tedesco. La comunità fiamminga, di tradizione olandese-tedesco, avrebbe voluto applicare con rigore il principio di sussidiarietà, limitando il più possibile il compito dello Stato. La comunità vallone, invece, propende per uno Stato centralista, con il mantenimento delle materie di competenza esclusiva dello Stato centrale come politica estera, difesa e giustizia.

Altri punti di contrasto sono: la riforma del senato; la nomina dei sindaci; i voti ai belgi all’estero; la separazione giuridica del distretto di Bruxelles, in cambio di alcune agevolazioni ai francofoni in termini di bilinguismo nei tribunali e nelle procure; il finanziamento della capitale francofona; la distribuzione della ricchezza e la conseguente riforma fiscale. I fiamminghi vorrebbero un sistema di tasse che renda giustizia all’economia del nord del Paese, più ricca e produttiva.

Questa perdurante instabilità politica e l’esistenza di un governo con competenze limitate, c’è da dire che comunque non hanno intaccato la situazione economica del Paese: il rapporto debito-PIL alla fine del 2010 è sceso sotto la soglia psicologica del 100%, il tasso di disoccupazione e in calo e, secondo le statistiche di Eurostat, il PIL nel 2010 è aumentato del 2,1% (uno dei dati migliori di Eurolandia, dove l’incremento medio è stato del +1,7%).

Il raggiungimento di un accordo

Il 13 settembre 2011 Leterme ha rassegnato le dimissioni per diventare, a fine anno, vicesegretario aggiunto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Il Re Alberto ha dovuto procedere nuovamente alle consultazioni per cercare di risolvere l’impasse politico-istituzionale.

Il 15 settembre 2011 è stata raggiunta un’intesa tra gli otto principali partiti del Paese. L’accordo, definito “storico”, con una mossa strategica di Di Rupo, incaricato in extremis di tentare il tutto per tutto, riguarda principalmente la questione dello status della circoscrizione bilingue a maggioranza francofona di Bruxelles-Hal-Vilvorde. Da anni i fiamminghi invocano la scissione del distretto e l’annullamento di una serie di diritti linguistici ed elettorali speciali di cui beneficiano i circa 130mila francofoni che vivono nella periferia fiamminga di Bruxelles. L’intesa sembra dare il definitivo benestare alla separazione del distretto, ma restano ancora nodi, come il finanziamento per la capitale, il bilanciamento della concessione fiamminga ed il trasferimento delle competenze. Tra le altre riforme in attesa di approvazione ci sono quelle del senato che diventerebbe un’assemblea degli “enti federali”; la nomina dei sindaci, con un iter molto complesso; la procedura semplificata per il voto dei belgi all’estero; il rifinanziamento di Bruxelles che avverrà in parallelo alla sua scissione.

Lo scorso 8 ottobre sono stati meglio chiariti alcuni punti: la durata della legislatura federale da 4 a 5 anni, portandola in linea con le legislazioni regionali, a partire dal 2014; il rafforzamento dell’autonomia regionale in materia fiscale, di gestione della sanità e della sicurezza sociale. Inoltre, la protezione civile e il sistema dei vigili del fuoco resteranno di competenza federale, così come il codice della strada. Saranno cancellati privilegi linguistici e amministrativi fino ad ora concessi ai francofoni che vivono nelle zone fiamminghe della regione di Bruxelles. Infine, occorrerà valutare se nella futura maggioranza ci saranno i due partiti Verdi del Paese (Groen e Ecolo), i quali hanno contribuito al raggiungimento dell’accordo, ora in discussione al Parlamento.

Sicuramente anche la crisi della banca franco-belga Dexia, ha costituito un altro problema urgente da risolvere e ha evidentemente indotto le parti ad accelerare le trattative per uscire dallo stallo.

Conclusioni

Il punto chiave della governance belga è stato ancora una volta la sua forte tradizione consociativa, che le ha sempre permesso di risolvere conflitti, anche piuttosto aspri, attraverso la partecipazione di tutte le parti sociali interessate a tavoli di trattative istituzionali ed informali. Anche il ruolo della Monarchia, in questo senso, ha giocato un ruolo importante nel mantenimento della coesione – politica e sociale – del Paese in un momento tanto delicato. Così sembra anche essere stato ridimensionato il rischio dell’approfondirsi delle spaccature tra fiamminghi e valloni e delle possibili conseguenze a livello europeo dello stesso. Esistono, infatti, numerosi casi di richieste autonomistiche in tutta Europa – in Spagna, nel Regno Unito, in Germania, in Italia, in Slovacchia, in Romania, senza dimenticare il caso del Kosovo – che guardavano e continuano ad osservare l’evolversi della situazione belga. Il sistema federale belga è sempre stato utilizzato come modello di riferimento per i sostenitori di un federalismo efficace, ponderando le esigenze autonomiste con le caratteristiche proprie di uno Stato centrale. Di conseguenza, le diatribe belghe avrebbero potuto dare una nuova spinta ai movimenti autonomisti estremisti, disseminati per il continente.

La crisi politica del Belgio aveva, infine, preoccupato molto l’Unione Europea – soprattutto nel semestre di presidenza che Bruxelles ha detenuto nel secondo semestre del 2010 – dubitando della capacità di gestire gli impegni comunitari. Il Belgio è riuscito, tuttavia, ad ottenere alcuni importanti risultati: nell’arco del proprio semestre, infatti, è stato adottato il dossier riguardante la supervisione finanziaria che consiste nella creazione di autorità di vigilanza sui rischi prudenziali delle banche, delle compagnie assicurative e dei mercati finanziari; è stato trovato un accordo per la creazione di un semestre europeo che permetta di verificare sia gli sforzi compiuti dagli Stati membri riguardo al Patto di stabilità e crescita, sia i progressi sulle iniziative più importanti della Strategia Europea 2020; è stato peraltro trovato un accordo sulla cooperazione in materia di lotta all’evasione fiscale; altre importanti misure sono state prese, infine, nel campo della sanità transfrontaliera, dell’ambiente (Bruxelles ha condotto le trattative dei Vertici di Nagoya e di Cancun), della cittadinanza e sono stati conclusi tre nuovi capiti dei negoziati di adesione della Croazia. È sulla base di ciò che la Commissione ha dato piena fiducia al governo provvisorio belga ed è convinto che l’incipiente governo sarà forte, efficace e stabile.

Donatella Ciavarroni è laureanda in Storia delle Relazioni Internazionali (Università di Urbino)

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Abbonati a “Eurasia”: in regalo il libro che ha previsto la rivolta libica 10 anni prima

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“[…] in Libia, in Cirenaica, dove, sul tracciato delle vecchie reti senussite, l’agitazione islamista potrebbe provocare l’esplosione di questo paese artificiale e recente. Nella Cirenaica si concentrano le ricchezze petrolifere; e il regime di Gheddafi irrita certe capitali occidentali che non vedrebbero male una divisione della Libia”.

Così scriveva, nel 2002, François Thual, uno dei guru della geopolitica francese odierna. Ex funzionario del Ministero della Difesa, docente di lungo corso al Collège Interarmes de Défense (la storica École de Guerre), oggi insegna anche all’École Pratique des Hautes Etudes ed è consulente del Senato di Parigi. Nel corso della sua lunga carriera ha consegnato alle stampe una trentina di opere sulla geopolitica, che spaziano dalla demografia alla massoneria, dal Caucaso all’America Latina, anche se il suo nome è legato principalmente agli studi sulla geopolitica delle religioni. “Eurasia” ha l’onore d’avere il professore Thual tra i membri del suo Comitato Scientifico.

Il vaticinio di cui sopra, realizzatosi quest’anno con la rivolta scoppiata a Bengasi e subito sostenuta dai paesi atlantici, è contenuta in un libro del 2002 di Thual, La planète émiettée. In quest’opera lo studioso francese disvela le dinamiche e gli attori che si celano dietro la progressiva frantumazione politica del paese, una tendenza che prosegue ormai da un secolo circa. Nel 2008 le Edizioni all’Insegna del Veltro hanno portato in Italia quest’opera, destinata a diventare un classico della geopolitica, col titolo Il mondo fatto a pezzi. Essa contiene anche un’appendice d’eccezione: un lungo dialogo tra il professor Thual e il nostro direttore Tiberio Graziani; un confronto tra due dei più noti geopolitologi europei contemporanei.

“Eurasia” e le Edizioni all’Insegna del Veltro hanno deciso di mettere gratuitamente a disposizione dei suoi lettori quest’opera. Chi si abbonerà per 5 numeri della rivista “Eurasia” entro e non oltre il 30 novembre 2011, riceverà in regalo il libro Il mondo fatto a pezzi di F. Thual (prezzo di copertina 15 euro).
Scoprite subito come abbonarvi e ricevere il vostro regalo cliccando qui!

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Washington alla conquista dell’Africa

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Creare dei gruppi terroristici per giustificare una lotta contro il terrorismo è diventato il modus operandi del governo USA in Afghanistan, Pakistan, Europa, e più recentemente, in Africa.
Grazie all’operatore video francese Julien Teil, Nazemroaya ricostruisce l’incredibile, ma vero, scenario dei terroristi promossi dagli Stati Uniti, ma ricercati dall’Interpol, protagonisti del genocidio che la NATO sta realizzando attualmente in Libia. Una replica dei disordini e del pandemonio scatenati in Afghanistan è in corso di preparazione anche per il continente africano. Gli Stati Uniti, con l’aiuto della Gran Bretagna, del Pakistan, e dell’Arabia Saudita, hanno creato il talebano crudele e, in un secondo momento, hanno finanziato una guerra contro gli stessi alleati talebani. Allo stesso modo, in Africa, gli USA e i loro alleati stanno creando una nuova serie di futuri nemici da combattere, dopo aver lavorato con loro o dopo averli sfruttati per seminare i semi del caos in Africa.


Washington sta aiutando letteralmente, attraverso dei finanziamenti, le sollevazioni e i progetti di cambio del regime in Africa. “Diritti umani” e “democratizzazione” sono utilizzati come cortina fumogena del colonialismo e della guerra. I cosiddetti diritti umani e le organizzazioni umanitarie sono oggi partners del progetto imperialista contro l’Africa.

 

Francia e Israele: strumenti con cui Washington delocalizza il lavoro sporco in Africa?

L’Africa è solamente uno dei fronti internazionali del sistema di espansione imperiale. Su questo fronte, stanno lavorando i meccanismi di un vero sistema globale imperiale. Washington sta agendo attraverso la NATO e i suoi alleati in Africa. Ciascuno degli alleati di Washington e dei suoi satelliti ha un ruolo specifico da giocare in questo sistema imperiale.

Tel Aviv svolge un ruolo attivo nel continente africano. Israele era il più incallito sostenitore del Sud Africa, all’epoca del sistema razzista dell’apartheid. Inoltre, Tel Aviv ha aiutato il contrabbando delle armi in Sudan e nell’Africa Orientale al fine di balcanizzare quelle importanti nazioni africane e per destabilizzare le loro regioni. Ad esempio, gli israeliani sono stati molto attivi in Kenya e in Uganda. La presenza israeliana si è fatta sentire ovunque vi fossero conflitti e “diamanti insanguinati”. Attualmente, Israele sta lavorando con Washington per stabilire la totale egemonia sul continente africano. Inoltre, è attivamente coinvolto attraverso legami affaristici e operazioni di intelligence nel determinare i contatti e gli accordi di cui Washington ha bisogno per l’espansione in Africa e per distruggere la crescita dell’influenza cinese.

La Francia, in quanto ex-potenza coloniale, che vive oggi il declino del suo potere, è stata tradizionalmente l’avversario e il contendente di Washington nel continente africano. Con la crescita dell’influenza dei poteri non tradizionali in Africa, come quello della Repubblica Popolare di Cina, sia Washington che Parigi hanno iniziato a guardare verso possibili vie di cooperazione. Ciò risulta più evidente da una prospettiva globale. Sia gli USA che le maggiori potenze dell’Unione Europea consideravano la Cina e altri poteri emergenti delle minacce tanto consistenti da riuscire a porre fine alla loro concorrenza e dare inizio ad una collaborazione. Pertanto, si è giunti ad un consensus finalizzato all’integrazione, ampiamente promosso dalla presidenza di Nicolas Sarkozy nel 2007.

Il Presidente Sarkozy non ha perso tempo nel favorire la reintegrazione della struttura del reparto militare francese con la NATO, che ha subordinato l’esercito francese al Pentagono. Nel 1966, il Presidente Charles de Gaulle spinse le sue forze fuori dalla NATO e rimosse la Francia dalla struttura della NATO allo scopo di conservare l’indipendenza francese. Nicolas Sarkozy ha invertito questa tendenza. Nel 2009, il presidente francese ordinò che la Francia si riunisse al reparto militare della NATO. Inoltre, nel 2010 firmò un accordo per iniziare la fusione delle forze militari francesi e britanniche.
Sul continente africano, Parigi ha un posto speciale e di nicchia nel sistema globale imperiale USA – ossia quello di gendarme regionale nel Nord Africa, in Africa Occidentale, in Africa Centrale e in tutte le sue ex-colonie. Il ruolo speciale della Francia, in altre parole, è dovuto alla storia e alle condizioni esistenti, che vedono una Francia in declino, in particolare nella Françafrique. L’Unione del Mediterraneo, che Sarkozy lanciò ufficialmente, è uno degli esempi degli interessi francesi nel Nord Africa.

In aggiunta, la Fondazione Nazionale per la Democrazia (National Endowment for Democracy-NED) sta lavorando attraverso il braccio francese della Federazione Internazionale per i Diritti Umani di Francia (Fédération internationale des ligues des droits de l’Homme-FIDH). Il FIDH è molto più definito in Africa. Il NED ha essenzialmente delocalizzato verso il FIDH il suo lavoro per manipolare e controllare il governo africano, i movimenti, la società e gli stati. Erano il FIDH e l’affiliata Lega Libica per i Diritti Umani (Libyan League for Human Rights-LLHR) ad aiutare e ad organizzare il terreno per la guerra della NATO contro la Libia attraverso le Nazioni Unite e attraverso le false e non comprovate rivendicazioni.

Il NED e il FIDH

In seguito all’elezione di Nicolas Sarkozy nel 2007 come Presidente della Repubblica Francese, la Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH) iniziò a sviluppare una reale cooperazione con la Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED). Entrambe le organizzazioni collaboravano all’interno del Movimento Mondiale per la Democrazia. Carl Gershman, il presidente del NED, si recò persino in Francia nel Dicembre del 2009 per incontrare gli esponenti del FIDH, per approfondire la collaborazione tra le due organizzazioni e per discutere dell’Africa. Molte delle collaborazioni tra il FIDH e il NED hanno la loro base in Africa ed investono il mondo arabo. Queste collaborazioni operano in una zona che copre paesi come la Costa d’Avorio, il Niger, e la Repubblica Democratica del Congo. Il Nord Africa, che include la Libia e l’Algeria è stata una zona specifica per le azioni del FIDH e rappresenta una zona in cui Washington, Parigi e la NATO hanno chiaramente maggiori ambizioni.

Il FIDH, che è direttamente coinvolto nell’avvio della guerra in Libia, ha ricevuto anche dei diretti finanziamenti, delle forme di sovvenzioni, dalla Fondazione Nazionale per la Democrazia per la realizzazione dei suoi programmi in Africa. Una sovvenzione del NED di $140,186 (U.S.) è stata l’ultimo ammontare consegnato al FIDH per i suoi lavori in Africa. Il NED è anche uno dei primi firmatari, insieme alla Lega Araba per i Diritti Umani (LLHR) e alla UN Watch, della campagna di intervento internazionale contro la Jamāhīriyya araba libica.

AFRICOM e la strada del Post 9/11 verso la conquista dell’Africa
Nel 2002, il Pentagono ha iniziato le prime grandi operazioni mirate al controllo militare dell’Africa. Ciò si realizzò sotto forma dell’iniziativa Pan-Sahel, che venne lanciata dall’EUCOM (United States European Command) e dal CENTCOM (United States Central Command). Sulla base di questo progetto, i militari USA avrebbero addestrato le truppe del Mali, Chad, Mauritania e Niger. Tuttavia, i piani per stabilire l’iniziativa Pan-Sahel risalivano al 2001, quando l’iniziativa per l’Africa venne lanciata in seguito ai tragici eventi dell’undici settembre 2001 (9/11). Washington stava chiaramente pianificando un’azione militare in Africa, che già includeva almeno tre paesi (Libia, Somalia e Sudan), identificati come obiettivo dal Pentagono e dalla Casa Bianca secondo il generale Wesley Clark.

Jacques Chirac, all’epoca Presidente francese, cercò di contenere la pressione degli USA in Africa rafforzando il ruolo della Germania come strumento di supporto della Francia. Nel 2007, il summit franco-africano, per la prima volta, aprì le porte alla partecipazione della Germania. Allora, Angela Merkel aveva idee diverse sulla direzione e sulla posizione che la partnership franco-tedesca avrebbe dovuto assumere nei confronti di Washington.

Dal 2001 ha inizio il percorso verso la creazione dell’AFRICOM. Questa fu ufficialmente autorizzata nel dicembre del 2006, la decisione di crearlo fu annunciata alcuni mesi dopo il febbraio del 2007. Quindi, l’AFRICOM sarebbe stato stabilito effettivamente nel 2007. L’evento fu incoraggiato anche da Israele. L’Institute for Advanced Strategic and Political Studies (IASPS), per esempio, fu una delle organizzazioni israeliane di supporto alla creazione dell’AFRICOM.

Sulla base dell’iniziativa del Pan-Sahel, nel 2005 venne lanciato il Trans-Saharan Counterterrorism Initiative (TSCTI) dal Pentagono sotto la direzione di CENTCOM. Al Mali, Chad, Mauritania e Niger si aggiunsero anche Algeria, Mauritania, Marocco, Senegal, Nigeria, Tunisia nella rete di cooperazione militare con il Pentagono. Il Trans-Saharan Counterterrorism Initiative sarebbe stata trasferita alla direzione dell’AFRICOM il 1 ottobre del 2008, quando l’AFRICOM sarebbe stato attivato.

Sahel e Sahara: gli USA adottano chiaramente i vecchi progetti coloniali francesi in Africa. “Sconfiggere il terrorismo” ed eseguire “missioni umanitarie” sono solamente operazioni di facciata o cortine fumogene per il colonialismo. Mentre gli obiettivi del Pentagono intendono sconfiggere il terrorismo in Africa, il vero fine di Washington è quello di ristrutturare l’Africa e di stabilire un ordine neo-coloniale. A questo proposito, Washington ha effettivamente adottato il vecchio progetto coloniale della Francia in Africa. Questo include la vecchia iniziativa degli USA, Regno Unito, Italia e Francia di dividere la Libia dopo il 1943 per ridisegnare il Nord Africa.

La mappa usata da Washington per combattere il terrorismo nell’ambito dell’iniziativa del Pan-Sahel ci dice molto. Il raggio di azione dell’attività dei terroristi, all’interno dei confini di Algeria, Libia, Niger, Chad, Mali e Mauritania, secondo quanto indicato da Washington, è molto simile ai confini dell’entità coloniale che la Francia cercò di costruire in Africa nel 1957. Parigi aveva pianificato di realizzare questa entità africana nel Sahara centro-occidentale come provincia francese, insieme al litorale dell’Algeria.

Questa desiderata entità era affidata alla Common Organization of the Saharan Regions-OCRS (Organizzazione Comune delle Regioni del Sahara) e comprendeva i confini interni del Sahel e dei paesi del Sahara del Mali, Niger, Chad e Algeria. L’obiettivo francese era di raccogliere e legare tutte le risorse delle aree ricche in un’entità centrale per il controllo francese e per la sua estrazione. Le risorse della zona includono petrolio, gas e uranio. Tuttavia, i movimenti di resistenza africani e, nello specifico, la lotta dell’Algeria per l’indipendenza, inflissero a Parigi un duro colpo. La Francia dovette abbandonare le sue ricerche e dissolvere finalmente l’OCRS nel 1962, in seguito all’indipendenza dell’Algeria e alla posizione anti-coloniale in Africa, che tagliò fuori la Francia dall’area interna del Sahara e creò un’opposizione nei confronti della Francia in Africa.
Questa ricchezza di risorse e di energia, era ciò che Washington aveva chiaramente in mente quando individuò queste aree dell’Africa perché bisognose di essere ripulite dalle presunte cellule terroristiche e dalle bande. L’istituto Francese delle Relazioni Internazionali (Institut français des relations internationals, IFRI) ha discusso apertamente di questo nel marzo del 2011. In questo contesto la fusione degli interessi franco-tedeschi e degli interessi anglo-americani sta permettendo alla Francia di diventare una parte integrante del sistema globale imperiale degli USA attraverso la condivisione degli interessi.

Il cambiamento di regime in Libia e il NED: un legame tra il terrorismo e i diritti umani

Dal 2001, gli USA hanno ingiustamente presentato sè stessi come i campioni contro il terrorismo. Il Trans-Saharan Counterterrorism Initiative (TSCTI), che aprì le porte dell’Africa all’AFRICOM, fu giudicata necessaria da Washington per combattere le organizzazioni come il Salafist Group for Preaching and Combat-GSPC (Gruppo dei Salafiti per la Preghiera e il Comattimento) in Algeria e il Libyan Islamic Fighting Group-LIFG (Gruppo di lotta islamico libico) in Libia. Tuttavia, attualmente Washington sta cooperando e sfruttando questi stessi gruppi in Libia, come il Fronte Nazionale Libico per la Salvezza e i Fratelli Musulmani e altri gruppi di soldati in Libia e in Africa. Inoltre, molti degli individui chiave in Libia sono membri della Fondazionale Nazionale per la Democrazia (NED) e hanno partecipato anche a delle conferenze e a dei vecchi piani per favorire il cambio di regime in Libia.
Uno degli incontri chiave per fondare quello che sarebbe diventato l’attuale Consiglio di Transizione Libico si ebbe nel 1994, quando il Centro per gli Studi Strategici e Internazionali (Center for Strategic and International Studies-CSIS) organizzò una conferenza con Ashur Shamis e Aly (Ali) Abuzakuuk. Il titolo della conferenza del 1994 era “Post-Qaddafi Libya: The Prospect and the Promise”. Nel 2005 a Londra ebbe luogo un’altra conferenza con Shamir Ashur che avrebbe pianificato l’idea di un cambiamento di regime in Libia.

Ashur Shamis è uno dei fondatori membri del Fronte Nazionale Libico di Salvezza, fondato nel 1981. Ricercato dall’Interpol e dalla polizia libica, Ahshur era anche direttore della Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED) e del Forum per lo Sviluppo Umano e Politico (Human and Political Development Forum) (era anche redattore della webpage di Akhbar, che fu registrata come Akhbar Cultural Limited e collegata al NED). Inoltre, ha partecipato anche a conferenze chiave, inclusa quella a Londra realizzata dalla Chatham House nel 2011, iniziativa che discuteva dei piani NATO finalizzati all’invasione di Tripoli.

 

Come Ashur, Aly Abuzaakouk è membro del Fronte Nazionale Libico per la Salvezza ed è legato alla Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED). Fu uno dei partecipanti chiave alla tavola rotonda organizzata per il Democracy Awards 2011 dal NED. Come Ashur, anche egli è ricercato dall’Interpol, ed è direttore del Forum Libico per lo Sviluppo Umano e Politico (Libyan Human and Political Development Forum).

Noman Benotman, fondatore ed ex- leader del Gruppo Combattente Islamico Libico (LIFG), è un terrorista ricercato. Per convenienza ha lasciato il LIFG in seguito all’11 settembre 2001. Benotman, oltre ad essere direttore della Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED) e del Forum Libico per lo Sviluppo Umano e Politco, è anche legato alla rete di Al Jazeera.
Questi tre uomini, non solo vivevano indisturbatamente nel Regno Unito mentre erano ricercati dall’Interpol per i loro contatti con il terrorismo o, nel caso di Benotman, per crimini legati alla droga e alla contraffazione, ma hanno riscosso anche finanziamenti da parte degli Stati Uniti. Ricevettero sovvenzioni dagli USA che formalizzarono le organizzazioni legate al NED, le quali avevano supportato il cambio di regime contro la Jamāhīriyya araba libica. Questa agenda politica sul cambiamento di regime in Libia fu predisposta con l’aiuto del MI6 e della CIA. I documenti legali che sono stati schedati per le loro organizzazioni del NED sono stati deliberatamente e illegalmente manomessi. Una delle identità chiave è stata nascosta nella lista dei direttori del NED. Così i documenti legali sono stati compilati fraudolentemente per celare l’identità di un individuo sotto lo pseudonimo di “Beata Wozniak”. Persino il compleanno di Wozniak è falso poiché risulta essere il 1 gennaio 0001 (1/1/0001). Questa persona è considerata direttore e segretario di Akbar, della Transparency Libya Limited e di altre società britanniche.

La porta per l’Africa è stata aperta

L’ingresso del terrorismo in Africa è parte di una ferma strategia usata dagli USA e dai suoi alleati, inclusa la NATO, per aprire la porta del continente africano espandendo la cosiddetta “guerra globale contro il terrorismo”. Ciò fornirà agli Stati Uniti una legittimazione nel perseguire l’obiettivo di espandere la loro presenza militare nel continente africano e, inoltre, giustificherà la creazione dell’AFRICOM del Pentagono, pensato per gestire l’Africa attraverso una versione africana della NATO come strumento per stabilire il controllo di Washington. A tal proposito, gli USA e i suoi alleati hanno già messo da parte il budget per combattere quelle organizzazioni terroristiche con cui hanno cooperato, e che hanno incoraggiato, cresciuto, armato e diffuso attraverso l’Africa, dalla Somalia, Sudan, Libia e Mali fino alla Mauritania, Niger, Algeria e Nigeria.
I terroristi non solo lottano per Washington sul campo, ma interagiscono anche con Washington attraverso le cosiddette organizzazioni per i diritti umani che promuovono la democrazia. Questi individui non solo destabilizzano i loro paesi, ma lavorano anche attivamente per il cambio di regime e per l’intervento militare. La Libia è un esempio chiaro di tutto ciò.

 

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İtalyan Gazeteci Aldo Braccio ile Şanlıurfa üzerine röportaj

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Kaynak: http://www.balikligol.com/haber/italyan-gazeteci-aldo-braccio-ile-sanliurfa-uzerine-roportaj-11091.html

 

İtalyan Gazeteci Aldo Braccio; Şanlıurfa çok rahatlatıcı bir şehir
27 Ekim 2011 Perşembe 08:26

İtalya merkezli Avrupa ve Asya’ya yayın yapan Eurosia dergisinin editörü Aldo Braccio, eşi Paola Zanardi ve arkadaşı Enzo Astolfi ile birlikte Şanlıurfa’ya geldi. Aldo Braccio az bildiği Türkçesi ile Roma’da tanışmıştık. Şanlıurfa’ya geldiğinde ise telefonla görüştük. Tarihi bir mekanda sözleştik ve buluştuk. 

Şanlıurfa’yı tarih kenti Roma’ya benzeten Aldo Braccio ile güzel bir sohbet ettik. Türkiye ve Şanlıurfa hakkında konuştuk. Türkiye’ye 20 kez gelen Aldo Braccio, Türkiye hakkında “Turchia ponte d’Eurasia” isimli kitap yazdı. Aldo Braccio “Turchia ponte d’Eurasia” (Türkçesi; Türkiye, Avrasya köprü) isimli kitabını imzalayarak hediye etti.

Kitap özetle; “Tra Mediterraneo e Asya centrale: il Ritorno di İstanbul sulla Scena internazionale” (Türkçesi; Akdeniz ve Orta Asya arasında: İstanbul Uluslararası Sahne Dönüşü) diyor.  Kitap için teşekkür ettim. Hem bakış açıcısından dolayı hem de nazik hareketinden dolayı takdir ettim.

Şanlıurfa’ya Aldo Braccio’nun 3. Gelişi.

Spontane gelişen bir sohbet ortamı ile bir röportaj yapmak istedim. Dostum Aldo Braccio, Şanlıurfa’nın rahatlatıcı havası ve sıcakkanlı insanlarından dolayı huzur bulduğunu anlatarak, sohbete başladık.

İşte İtalyan Gazeteci Aldo Braccio gözüyle Türkiye ve Şanlıurfa;

ÖMER ASLAN; Türkiye’ye kaç kez geldiniz ve Türkiye nasıl bir ülke?

ALDO BRACCİO ; Türkiye’ye 20 kez geldim. Türkiye’yi çok seviyorum. Asya ile Avrupa arasında bir köprüdür. Avrupa kıtası içinse Türkiye’nin ayrı bir değeri vardır. İki kıtayı birbirine bağlayan, zengin kaynakları ve nüfusu ile dinç bir ülkedir.

ÖMER ASLAN: İtalya’da (Avrupa’da) gazetecilik yapıyorsunuz, Avrupa’da gazetecilik mesleğinin zorluklar çok mu?

ALDO BRACCİO: Sanırım Türkiye gibi zor değil. Çünkü meslek kuruluşlarımız var. Gazetecilik yapan sadece gazetecilik yapıyor. Dolayısıyla gazetecilik ahlakına aykırı bir davranış sergileyen oldu mu cezasını meslek kuruluşlarımız veriyor. Sanırım Türkiye’de daha bu şartlar oluşmadı. Yani özetle işiniz bizden daha zor

ÖMER ASLAN: İtalya’dan Türkiye nasıl görünüyor?

ALDO BRACCİO: Aslında İtalya ile Türkiye arasında bir sıcaklık ve yakınlaşma var. Paralellikler var. Ama Avrupa genelinde Türkiye’ye karşı bir önyargı var. Bireysel olarak Avrupa’daki insanlarda Türkiye sevgisi var.

ÖMER ASLAN: O halde AB neden Türkiye’ye karşı mesafeli davranıyor?

ALDO BRACCİO: Avrupa’daki yönetimin ABD ile bağlantıları oldukça yüksek. ABD ise Türkiye’nin AB’ye girmesine karşı. Çünkü bölgede güçlü bir Türkiye ABD çıkarlarına zarar verebilir. Bu nedenle Avrupa’daki yöneticiler Türkiye’yi göz ardı ediyorlar.  Avrupa’da özgürce yönetilen bir devlet yok, hemen hemen hepsi bağlantılı. Çünkü ekonomik çevrelerin baskısı oldukça yüksek. Bu nedenle ekonomi ağırlıklı yönetim var. Gerçek siyasi erk yok.

ÖMER ASLAN: Uzun yıllardır Türkiye’ye gelip gidiyorsun. Türkiye’deki değişimi fark edebiliyormusunuz?

ALDO BRACCİO: Roma’dan bakınca; Türkiye hem yer altı hem de yer üstü zenginliklerinin yanı sıra genç nüfusu ile hızlı değişen bir ülkedir. AK Parti hükümeti ile çok ciddi adımlar attı. Artık Türkiye’de özgür düşünme ve kendini rahat ifade etme dönemine girildi. Bu bakımdan çok değişimler görülüyor.  Ekonomik olarak da Çin’den sonra en güçlü ekonomi Türkiye olarak görülüyor. Ayrıca komşuları ile barıştı. Özelikle Rusya ve İran’la dost olması Dünya barışına büyük katkıları oldu. Komşuları ile pozitif ilişkiler kurması Türkiye’ye büyük yarar sağladı. Türkiye artık stratejik derinliği iyi tahlil edip ona göre siyaset üretiyor. Bu nedenle güçlü siyasi irade oluşturabiliyor.

ÖMER ASLAN: Gelelim Şanlıurfa’ya. Şanlıurfa’ya kaçın gelişiniz ve Şanlıurfa nasıl bir şehir?

ALDO BRACCİO: Ben Şanlıurfa’ya ilk olarak 2007 yılında geldim. Daha sonra 2010’da geldim ve bu üçüncü gelişim. Şanlıurfa tarihi ile Roma’ya benziyor. Göbeklitepe’yi gördük. Harran’ı gördük. Bu gelişimimizde ise Atatürk barajını da gördük.

ÖMER ASLAN: Şanlıurfa ile ilgili düşüncelerin nelerdir?

ALDO BRACCİO: Şanlıurfa şehir merkezi Balıklıgöl, Dergah, kale bölgesi tarihi ve mistik bir havası var. İnsanın doyasıya izleyeceği ve dinleneceği bir mekandır. Buraların çok önemli değeri olduğuna inanıyorum.

ÖMER ASLAN: Şanlıurfa insanını gözlemlemişsiniz. İnsanları nasıl buldunuz?

ALDO BRACCİO: Şanlıurfa halkı çok rahatlık veriyor insana. İnsanların Müslüman oluşu ve sıcak kanlı görünümü ile insanı mıknatıs gibi çekiyor.

ÖMER ASLAN: Şanlıurfa halkı İslami inanca sahip olması Hıristiyanlara da aynı huzuru veriyor mu?

ALDO BRACCİO: Aslında Müslümanlar ile Hıristiyanlar arasında çatışma değil, barış olmalı. Ama tabi çıkarını düşünen, bazı devletler karışıklık ve çatışma istiyorlar. Dünya’da bunun öncülüğünü ise ABD yapıyor.

ÖMER ASLAN: zaman ayırdığınız için ve Türkiye’ye karşı derinlemesine araştırma yapıp gerçekleri gördüğünüz için teşekkür ediyorum.

ALDO BRACCİO: Ben teşekkür ediyorum.

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Репортаж из Дамаска итальянской делегации в Сирии

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Стефано Верноле, редактору итальянского журнала “Евразия”, недавно довелось побывать в Сирии вместе с представителем сирийской общины в Италии. Он провел несколько дней в Дамаске, где имел возможность встретиться с правительственными деятелями , а также свободно поговорить с простыми гражданами. Ниже его репортаж:

 

 

Тому, кто имел бы возможность отправиться в Сирию, нужно было бы прежде всего освободить свою голову от пропаганды СМИ, передаваемой в эфире телекомпанией Аль Джазира и тому подобными.

 

Следуя классическому Голливудскому стилю, Аль Джазира – “символ ближневосточной демократии”, оплачиваемая самодержцем – эмиром Катара, рассказывала нам в течение нескольких месяцев о грандиозных антиправительственных демонстрациях, жестоко подавляемых президентом Башаром аль-Асадом, описываемым телеканалом и прессой как безжалостный диктатор.

 

Мне жаль разочаровывать многочисленных поклонников “альтернативной” прессы “международного” стиля или тех, кто попал под обаяние лозунгов, выдвинутых Белым домом по поводу “арабской весны” и “нового падения Берлинской стены”, но, насколько я смог увидеть во время моего пребывания в Дамаске, Сирия и ее руководство пребывают в добром здравии.

 

Во-первых, нет больше никаких следов реальных или предполагаемых массовых антиправительственных демонстраций в столице Сирии, где царит общественный мир и жизнь течет максимально спокойно от центра и до окраин.

 

Проверки в аэропорту достаточно мягки, есть возможность перемещаться без ограничений и фотографировать по собственному желанию.

 

Редко при посещении городов по всему миру я видел настолько безмятежных людей, места, где не видно ни малейших следов преступлений даже без какого-либо развертывания сил безопасности.

 

Первое, что нужно было бы узнать о реальном положении дел, это то, что именно делегаты Лиги арабских государств, требующие “вывода танков с улиц”, демонстрируют поведение, когда они, закончив переговоры в президентском дворце, выходили из него смеясь и без какой-либо охраны …

Дело в том, что Государство, на самом деле, содержит своих собственных военных в казармах, и на улицах Дамаска хорошо видны только городские регулировщики, занимающиеся управлением движения.

 

После начала несколько месяцев назад скромных антиправительственных демонстраций, именно сирийский народ, вышел на площадь в поддержку своего президента, о чем свидетельствуют грандиозные манифестации, фотографии и плакаты, висящие во всех магазинах и на всех главных улицах столицы, или транспарант, который стоит на одной из главных городских эстакад, который гласит: “Спасибо России” (со ссылкой на вето Москвы на санкции ООН ).

 

Даже если некоторые представители руководства, воображая себе Ливийский сценарий, вначале не решались, чью сторону принять, именно мелкие партии – коммунистическая и социал-националистическая, которые взялись за организацию про-правительственной мобилизации , понимая, что альтернативой Асаду может быть только оккупация страны НАТО.

 

То, почему большая часть сирийского народа осталась вместе со своим Президентом очевидно: Сирия – это лоскутное одеяло из этнических групп и культур, уважающих друг друга и широко представленных мечетями, католическими костелами и православными христианскими церквями, которые мирно живут вместе бок о бок.

 

Противоположный смысл желаемого Пентагоном “столкновения цивилизаций” в том, что с логикой “разделяй и властвуй” Пентагон стремится сохранить контроль над соседним Ираком.

 

Слова, которые мы услышали в Великой мечети Омейядов от Великого муфтия Сирии Ахмеда Бадр Аль-Дин Хассуна, не оставляют сомнений: «Любая человеческая жизнь важнее, чем религиозные символы. Любую мечеть выстроить заново, но потеряв жизнь, нельзя ее вернуть».

 

Это сообщение, однако, не является полностью понятным для тех, кто работает на дестабилизацию страны , то есть для групп сирийских салафитов, которые уже давно разжигают ожесточенную партизанскую войну в приграничных районах с Ливаном, Иорданией, Ираком и Турцией.

 

После предполагаемого убийства Бен Ладена, США, по сути, даже не потрудились более скрывать свой альянс с Аль-Каидой, наследницей исламских наемников на службе у Вашингтона с 1979 года в Афганистане.

 

Поэтому мы смогли посетить в военном госпитале в Дамаске “плоды мирных манифестаций”, о которых рассказывают собственные средства массовой информации в Хаме и в других местах: многих сирийских солдат, раненных в приграничных районах, которые потеряли руки и глаза, но не желание продолжать служить своему отечеству..

 

Так же, как в Ливии, финансируемые и защищенные тайными руководящими центрами Саудовской Аравии, Израиля и США, эти исламистские группировки действуют без всякого милосердия против всех тех, кто отказывается идти на их стороне, и единственной целью которых является вернуть страну в каменный век.

 

Имеются единодушные свидетельства, что конфликт не имеет в действительности никакого отношения к призыву к “большой демократии”: Сирия говорят о внешнем заговоре в целях укрепления атлантической геополитической стратегии, приведшем к хаосу на Ближнем Востоке, единственный антидот к неизбежному росту влияния России и Китая в регионе.

 

Необратимый кризис западного финансового капитализма, как нам сообщает заместитель министра иностранных дел правительства в Дамаске, Абдель-Фаттах Аммура, может только ускорить эту отчаянную попытку отсрочить конец гегемонии Сити и Уолл-стрит.

 

Конечно, очередь реформ, инициированных Асадом впечатляет, но, как заявила г-жа Клинтон, если Сирия хочет видеть конец беспорядкам, она должна “признать Израиль, избавиться от поддержки Хамас и Хезболлах, и, возможно, дать самостоятельность 3 или 4 министрам из Братьев-мусульман в исполнительной власти” (это последнее заявление особенно приветствуется в Анкаре).

 

Скрытая война продолжалась так много месяцев и стоила так дорого сирийской армии (речь идет о 1600 убитых), но в конце концов она добилась улучшения ситуации, за единственным исключением – города Хомс и нескольких небольших городов, где салафистские экстремисты смешались с гражданскими лицами.

 

Экономическая и социальная выносливость страны, несмотря на некоторые видимые последствия международных санкций, позволяет теперь Асаду вести себя с позиции силы и принять требования Лиги арабских государств.

 

как рассказывают британские газеты в эти дни, мяч сейчас находится в руках Белого Дома, который не делает секрета из своих планов атаковать не только против Дамаска, но и в отношении Тегерана.

 

Сирия, однако, надеется на то, что решат в Пентагоне и штаб-квартире НАТО в Брюсселе, уверенная в устойчивости своей армии и мобилизации населения, из чего следует, что в случае войны, весь Ближний Восток будет разрушен и первый, кто заплатит за это , будет израильский народ будет иметь свой собственный, молчаливый региональный союзник Соединенных Штатов, который после после суровых уроков, полученных в Ливане в 2006 году подвергся бы риску реальной катастрофы.

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Antonella Appiano: “Cosa ho visto in Siria”

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Antonella Appiano, esperta giornalista a lungo basata in Siria ed oggi collaboratrice de “L’Indro”, è stata una dei pochi giornalisti italiani a seguire i recenti sviluppi politici siriani direttamente da Damasco, Aleppo, Homs e Yabrud, nel periodo tra marzo e luglio scorsi. Da quest’esperienza è nato anche un libro, Clandestina a Damasco, recentemente pubblicato da Castelvecchi, in cui ha cercato di dare voce alle varie anime della Siria, pro e anti-governative. Kawkab Tafwik l’ha incontrata ed intervistata per noi.

 

Sappiamo che a seguito delle prime rivolte a Homs, il governo siriano negò il visto a tutti i giornalisti e operatori internazionali, da cui il motivo principale della quasi totale assenza di giornalisti italiani in Siria; come è riuscita ad aggirare l’ostacolo?

Mi trovavo in Siria dal 7 di Marzo 2011, prima dell’inizio delle rivolte ed ero entrata nel Paese senza accredito giornalistico, come semplice turista. Ero quindi già “sotto copertura”. Un metodo di lavoro seguito da molti giornalisti all’estero ma poco in Italia. Puoi muoverti libero, in anonimato. Il prezzo da pagare consiste nel fatto che sei obbligato a lavorare da solo, senza aiuti e in condizioni “tecniche” più difficili (mancanza per esempio di connessioni internet fisse). In condizioni abitative più spartane (nessun albergo, solo case private, di amici o in affitto e in zone popolari della città). Ho dovuto cambiare spesso “ruolo”, mischiarmi magari con gli studenti, cercare notizie, senza espormi troppo, evitare di fotografare. Prudenza, attenzione. Anche per non mettere in pericolo chi avvicinavo. Per esempio, evitavo di portare con me il computer e cancellavo il materiale compromettente. Ero prudente anche al telefono. Sempre consapevole della presenza massiccia dei mukhabarat, i servizi segreti siriani e degli informatori.

Nelle primissime settimane lei ha diverse volte smentito notizie di manifestazioni annunciate a Damasco dalla stampa internazionale ed italiana. Come giudica l’approccio che la stampa internazionale ebbe in quei giorni? Ritiene che abbia giocato un ruolo rilevante per gli sviluppi successivi delle rivolte anti-regime?

Il 15 di marzo, per esempio, ho assistito a una mini-manifestazione a Damasco, davanti alla moschea degli Ommayadi, che si è svolta in maniera pacifica e nell’assoluta indifferenza della gente intorno che guardava stupita. La manifestazione venne invece descritta dai media internazionali come massiccia (decine, addirittura centinaia di migliaia di siriani). All’inizio della crisi, la stampa internazionale ha riportato alcuni fatti ampliandoli. Ero perplessa. I siriani erano perplessi. Ricevevo e-mail e telefonate preoccupate dall’Italia quando nella capitale era ancora tutto tranquillo. Ritengo che dopo le Primavera arabe in Tunisia e in Egitto, l’opinione pubblica si aspettasse un effetto domino identico in Siria. Con sollevazioni di massa, soprattutto a Damasco. Un’altra piazza Tahrir. I mass media mainstream hanno il potere di confermare “il pensiero comune”, di rafforzarlo. Di far nascere aspettative. Detto questo non possono creare dal nulla gli avvenimenti. A volte basta una scintilla. In Siria, l’elemento scatenante, è stato il “caso” di Daraa con l’arresto dei ragazzini che avevano scritto sui muri della scuola slogan contro il governo, le proteste dei genitori inascoltate dalle autorità, gli incidenti del venerdì 18 marzo.

Ha avuto forse l’impressione che le notizie venissero ‘filtrate’ dall’estero?

Non esattamente filtrate. Piuttosto “sdoppiate”. C’è stata molta confusione a livello d’informazione. Una specie di “schizofrenia mediatica” con la tv di stato che riportava i fatti in un modo e le tv arabe al-Jazeera, al-Arabiya e quelle occidentali in un altro. Ai giornalisti occidentali- e anche ai turisti- già dopo le rivolte di Daraa è stato ostacolato l’accesso nei luoghi degli incidenti. Ho tentato di entrare a Daraa, il 24 marzo ma l’autobus di linea fu fermato a un posto di blocco. Quel giorno potevano entrare in città solo i residenti o i parenti dei residenti e dovetti tornare a Damasco. Rumors, voci. “I manifestanti hanno bruciato il palazzo di giustizia”. “No sono stati delinquenti comuni che stanno approfittando della confusione”. Qualcuno aveva parenti a Daraa ma non voleva parlare. Non si fidava. Altri minimizzavano o comunque sembravano piuttosto indifferenti. Giudizi mormorati pro o contro la “rivoluzione”. Senza dubbio in quei giorni e , ancora durante i primi due mesi, ho raccolto molte testimonianze di gente che chiedeva solo un processo di “democratizzazione” del Paese, riforme ma senza “caos”, senza “stravolgimenti”. In tanti dichiaravano di “non voler cambiare”. Eppure le proteste continuavano, di venerdì in venerdì.

A questo proposito, come è stato il suo rapporto con i media italiani?

Ho chiesto alle varie testate che mi hanno contattato la libertà di riferire ciò che vedevo sul campo. Se non riuscivo ad essere testimone diretta dei fatti, volevo almeno poter riportare le opinioni di tutti. Senza condizionamenti o preconcetti. A volte qualche collega sembrava non credermi. Per esempio sul fatto che i siriani potessero guardare tutti i canali satellitari e non solo la tv di stato. Avevo l’impressione che tutti si aspettassero una rapida caduta del regime. Come in Egitto e in Tunisia. Ma era chiaro invece, vivendo in Siria, che l’evoluzione sarabbe stata lenta.

Lei era in contatto sia con attivisti dell’opposizione che con persone pro-Bashar; come sono stati i rapporti con le sue fonti? Come è riuscita a guadagnare la fiducia di entrambe le parti?

Con pazienza, tenacia. Cercando sempre di ascoltare ma senza dare giudizi. E soprattutto senza pretendere di capire tutto. Mi sono concessa il lusso del dubbio. Credo sia stato il mio atteggiamento a farmi guadagnare la fiducia dei due “schieramenti”. Non è stata una conquista facile. E neppure veloce. Ha richiesto tempo. A volte ho seguito piste sbagliate. E ho dovuto ricominciare da capo. Durante i primi due mesi è stato facile contattare gli attivisti on- line, quelli che non si esponevano nelle manifestazione ma solo attraverso i gruppi di rivolta sui Social Network. Con i veri oppositori di strada ho avuto i primi contatti importanti solo a maggio.

Ritiene personalmente che l’opposizione sia sufficientemente matura per prendere in mano la situazione se si dovesse verificare in futuro la caduta dell’attuale regime?

Quando sono uscita la prima volta dal Paese alla fine di maggio, dopo tre mesi di permanenza, l’opposizione era molto disorganizzata e divisa. Mancava un progetto comune. Se ponevo domande precise su “come si sarebbe svolta la transizione” ricevevo risposte vaghe, spesso ingenue. Però quando sono riuscita a rientrare in Siria all’inizio di luglio, la situazione era cambiata. E l’opposizione si era delineata meglio, pur se ancora frammentata. C’erano laici, islamisti, attivisti dei diritti civili. Comunque si erano formate tre correnti principali. In patria, i dissidenti siriani disposti a tenere aperto il dialogo con la leadership di Damasco. Ancora in patria, la corrente dei Comitati siriani di Coordinamento locale, e infine il gruppo dell’opposizione all’estero. Ma il passaggio da un regime a partito unico al pluralismo democratico è comunque lento ed esige fasi precise. Necessita di una società civile che in Siria non è più riemersa dopo la storica Primavera di Damasco. In Siria non esistono partiti veri, organizzazioni sindacali, una magistratura indipendente. Nel caso di caduta dell’attuale regime, l’intero sistema andrebbe riorganizzato.

Nel quadro della cosiddetta “primavera araba”, ogni paese ha affrontato e sta affrontando questa fase di “regime change” in modo differente. Quali sono a suo parere le caratteristiche sociali peculiari della nazione siriana che la differenziano da tutte le altre nazioni arabe?

Prima di tutto, dopo circa 7 mesi e mezzo di proteste, il Presidente Bashar tiene ancora le redini del potere, ma le rivolte continuano, seguite dalle repressioni e il Paese versa in difficoltà economiche dovute alla mancanza del turismo e delle sanzioni imposte dall’Occidente. Una situazione insostenibile. Proprio oggi (n.d.r 2 novembre) la Siria ha accettato il piano di mediazione della Lega Araba per porre fine alla crisi. Damasco ha dichiarato che acconsente a cessare le violenze, a ritirare i militari dalle città e a rilasciare i prigionieri politici. La Lega Araba continuerà a tenere contatti tra il governo e l’opposizione siriana “in preparazione a un dialogo nazionale entro due settimane”. Il comunicato non specifica il luogo del possibile incontro. Il regime siriano ha sempre sostenuto la necessità di organizzarlo a Damasco. L’opposizione invece insiste perché tutto avvenga fuori dai confini siriani. Vedremo. Ho parlato in questi giorni con due siriani che sono riusciti a venire in Italia. Non credono alle promesse di Bashar neppure questa volta. Ma conosco anche siriani che continuano a stare dalla parte del presidente per motivi economici, d’interesse o perché credono in lui. E comunque prima dell’inizio delle repressioni, delle uccisioni e degli arresti, a differenza del Presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali e del Presidente egiziano Hosni Mubarak, Bashar al- Assad era un leader piuttosto popolare. Durante le prime dimostrazioni infatti i manifestanti chiedevano solo maggiore “hurriyya”, libertà, misure contro la corruzione, una giusta ridistribuzione delle ricchezze, la fine dello stato di emergenza in vigore dal 1963. Solo dopo le repressioni, gli arresti e l’intervento dell’esercito, la gente ha cambiato slogan, invocando la caduta del regime. Ai primi di marzo 2011, a Damasco la situazione era tranquilla. Gli amici mi raccontavano che la caduta di Mubarak era stata vista in maniera positiva perché la leadership sperava in un nuovo governo egiziano più favorevole ai Palestinesi e meno dipendente dagli Stati Uniti. In generale, la gente si augurava che ciò che era successo in Tunisia e in Egitto avrebbe indotto il governo a concedere le riforme desiderate da tempo senza thawra, “rivoluzione”. Molti sottolineavano la peculiarità della Siria, un Paese multietnico e multi religioso e il pericolo di una eventuale guerra civile. Di divisioni territoriali e su base confessionale come in Libano.

Ma il popolo siriano che vive al di fuori della sfera politica come ha reagito, e sta reagendo, al clima di scontro nel paese? Vede una nazione unita nel desiderio delle dimissioni del presidente, come è avvenuto in Tunisia ed in Egitto?

L’evoluzione in Siria è stata lenta. Il cambiamento l’ho notato a luglio. Molti che ancora a maggio non avevano preso posizione oppure erano contrari al regime ma non partecipavano alle manifestazioni, erano scesi in piazza. Il movimento di protesta, incominciato a metà di marzo, dopo cinque mesi era cresciuto. Le repressioni avevano inasprito gli animi. A luglio, secondo gli attivisti per i diritti umani erano stati uccisi per strada più di 1.600 dimostranti e almeno 10.000 erano stati arrestati. Ma certo allora, come anche adesso, larghe fette della borghesia commerciale e imprenditoriale, minoranze religiose appoggiano ancora il Presidente Bashar al-Assad. Secondo Joshua Landis, docente all’università dell’Oklahoma e fondatore del blog Syria Comment “un 40 per cento dei siriani sostiene ancora il regime”. Le defezioni nell’esercito sono avvenute fra le fila dei soldati, a luglio soprattutto fra i militari di leva, ma i generali (alawuiti come il can degli Assad), tranne poche eccezioni, sono dalla sua parte. I disertori stanno comunque aumentando. Ormai da ottobre, secondo testimonianze di amici con cui sono rimasta in contatto, nella zona centrale di Homs, nell’area nord-occidentale di Idlib, in quella meridionale di Daraa, avvengono scontri regolari fra i sostenitori di Bashar e oppositori, fra l’esercito e le forze fedeli al Presidente e militari disertori e gruppi di manifestanti anti-regime. Tensioni, vendette. Potrebbe essere l’inizio di una guerra civile. La gente non è più distante. È preoccupata, coinvolta. Angosciata dal futuro. Viaggiare all’interno del Paese è diventato pericoloso. “Siamo stanchi” mi ha scritto un oppositore con cui sono rimasta in contatto.

Lei è in contatto anche con le comunità cristiane siriane alle quali ha dato voce più di una volta. Ritiene che l’equilibrio interconfessionale in Siria sia mutato in questi ultimi mesi o potrebbe mutare in futuro? In che modo?

Nel Paese i cristiani rappresentano circa il 10% della popolazione e sono divisi in ben undici confessioni. Si sono schierate a fianco del regime, dall’inizio delle rivolte. Ho raccolto numerose testimonianze in tutto il Paese. A Pasqua i cristiani di Damasco erano preoccupati. Nel quartiere di Bab Touma, nella città vecchia di Damasco, avevano organizzato milizie private. In quei giorni circolavano voci insistenti sulla presenza di islamisti, salafiti. E i cristiani avevano paura. Hanno paura anche ora proprio perché si sono alleati con Bashar e gli alawuiti e temono le “vendette” dei sunniti in caso di sconfitta. Però la minoranza alawita al potere ha cooptato una larga fetta di sunniti. Il divario quindi esiste fra gli alawiti e i sunniti (anche i cristiani) che stanno ai vertici e si spartiscono privilegi economici e gli altri. I poveri. Certo i sunniti poveri sono più numerosi degli alawuiti o dei cristiani poveri, ma solo perché appunto costituiscono la maggioranza del Paese. Le tensioni non sono nate su base confessionale pura, quindi. Le paure dei cristiani che mi citavano sempre “l’incubo Iraq” sono comprensibili ma per ora, gli equilibri non sono mutati. Potrebbero mutare certo. Nel caso di caduta del regime le forze religiose sunnite chiederanno un ruolo politico nella guida del Paese anche se non sono state all’origine della sollevazione. Il movimento islamico indipendente, attraverso i suoi leader, ha dichiarato di non essere interessato a instaurare la shari’a. Però gli islamisti “spaventano” i laici, le classi medio alte educate all’occidentale, non solo i cristiani. In uno scenario post-Assad bisognerebbe garantire tutte le comunità confessionali. La Siria – al contrario di quanto può apparire- è un Paese molto religioso.

Lanciando uno sguardo al passato, alla Siria “pre-rivolte”, e facendo un confronto con il presente, quali sono le prime impressioni sulla Siria che le che saltano all’occhio?

In questo momento la Siria è un Paese profondamente ferito. È cambiata l’atmosfera, la vita. E come non potrebbe? Alberghi deserti, carri armati lungo l’arteria Aleppo Damasco. Disoccupazione. Intere categorie sono rimaste senza lavoro, insegnanti di arabo, guide turistiche, affittacamere, commercianti. Il turismo non è l’unica voce nell’economia siriana però la presenza di studenti stranieri muoveva il giro degli affari immobiliari. L’inquietudine per un futuro incerto è ormai palpabile, e trasversale, anche se più forte fra il ceto piccolo borghese.

Ci ha detto di aver lavorato “sotto-copertura”, senza dubbio questo deve aver comportato, oltre a dei pro, anche dei contro. Ci può parlare dei principali rischi che ha corso nella sua esperienza professionale in Siria?

Lavorare come giornalista in Paese dove non è consentito espone a un rischio continuo. Era rischioso avvicinarsi alle moschee che mi venivano segnalate come centri di rivolta. Era rischioso uscire il venerdì quando le città erano deserte. Viaggiare. Andare a richiedere il rinnovo del visto. Consegnare il passaporto a un posto di blocco. Senza dubbio è stato pericoloso andare a casa di alcuni oppositori. Potevano essere stati segnalati. E mi sono esposta molto quando sono andata a Yabrud, a maggio ad incontrare un oppositore che aveva organizzato le manifestazioni nella sua città. Un giorno la polizia segreta mi ha fermata, alla stazione di Homs. Sapevo che non si poteva fotografare ma avevo chiesto l’autorizzazione a un poliziotto. Quando ho sentito una mano sulla spalla e l’ordine di seguire i due agenti, ho pensato di essere stata scoperta. E restare chiusa in una stanza con due persone che mi fissavano immobili, senza dire nulla, è stata una esperienza più che spiacevole. Il pericolo maggiore l’ho corso quando sono riuscita ad entrare in una zona dove si svolgeva una manifestazione. Gas lacrimogeni, gente che scappava. Chi mi aveva accompagnato, si era raccomandato “se sparano buttati a terra”. Quel giorno, il 22 luglio, eravamo a Midan, un quartiere sunnita di Damasco, non ci sono stati spari, solo lacrimogeni. Ma il venerdì prima, il 15 luglio, a Qaboun avevo visto la polizia sparare sui manifestanti disarmati.

Dalle sue testimonianze e dai suoi articoli si nota un cambiamento nelle sue personali considerazioni circa l’operato del governo in risposta alle rivolte. Se inizialmente la situazione era relativamente calma e pacifica (l’episodio della Moschea degli Omayyadi di cui ci ha parlato ne è una conferma), in una seconda fase, ci dice, il regime ha iniziato ad utilizzare risposte decisamente più violente. Lei afferma infatti di essere stata testimone di violenze da parte dell’esercito contro i manifestanti. Ce ne può parlare?

Prima di luglio, avevo sentito racconti e testimonianze. Avevo visto immagini in tv. In internet. Ma come essere sicura? Senza la presenza della stampa, in Siria mancava fonti indipendenti. L’unica soluzione, vedere con i miei occhi. Però è sempre stato difficile entrare nei quartieri a rischio. Venivano isolati, già dal mattino presto da cordoni di polizia e militari. Guardie di sicurezza. Finalmente a luglio, il gruppo di oppositori con cui ero venuta in contatto ha accettato di accompagnarmi nel quartiere sunnita di al-Qaboun, a nord est della capitale dove, fin dall’inizio delle rivolte, c’erano state ogni venerdì proteste. Ho visto tante gente che camminava nelle strade, gridando “libertà”. Disarmata. Ho visto la polizia in tenuta antisommossa pronta, schierata. Ad un certo punto qualcuno a tirato sassi contro i poliziotti. La prima volta hanno reagito sparando in aria. La seconda, sparando dritto al petto dei manifestanti. Ho vista la gente cadere come fantocci. Era il 22 luglio 2011.

 

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Intervistata e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”.

 

Un’altra testimonianza dalla Siria: il reportage di Stefano Vernole da Damasco (clicca)

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“Responsabilità di proteggere” la “liberazione” di Sirte: le atrocità commesse dalla NATO

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Fonte: “Global Research

Secondo i calcoli della NATO la forza aerea alleata ha assestato 415 attacchi sulla città di Sirte tra sabato 28 Agosto e martedì 20 Ottobre. Abbiamo comparato questi attacchi con i bombardamenti di Guernica e altre comparazioni sono state fatte con le ampiamente condannate operazioni di pulizia di Grozny.

Inoltre, i ribelli, descritti nei circoli della Nato come una “proxy army” , erano autorizzati dalla NATO ad attaccare la città con carri armati, mortai e artiglieria. Ecco alcuni video dimostrativi provenienti dall’ “Ufficio informazioni del Battaglione Misrata Mujahid”:


Ed ecco altri video, girati a settembre, che mostrano cannoni pesanti e missili nella città. È chiarissimo che la NATO, che stava perlustrando i cieli e bombardando la città, a quanto si dice per proteggere i civili, non stava facendo alcuno sforzo per proteggere gli abitanti di Sirte da questo uso indiscriminato di armi pesanti.

La NATO si è rifiutata di spiegare le ragioni della mancata protezione di civili a Sirte e il perché si sia resa complice di questi crimini di guerra.

Il video qui sotto mostra che quando la fanteria è entrata nel centro di Sirte le infrastrutture della città, inclusi i suoi edifici, il sistema idrico e sanitario, erano state completamente distrutte:

Ed ecco un altro video della città che mostra l’estensione dei danni; in questo video è chiaro che ogni edificio è stato oggetto di un attacco sistematico per assicurarsi che la città fosse inabitabile:

Atrocità a Sirte

In questo dovrebbe vedersi il colpo mortale all’assunto che la forza aerea NATO, combinata con forze indisciplinate e in alcuni casi genocide, fornite di armi Nato sul campo possa effettivamente “proteggere” la popolazione civile. È chiaro che 53 persone sono state sommariamente giustiziate dai ribelli nel giardino dell’hotel Mahari a Sirte.

È paradossale che i corpi siano stati trovati da Peter Bouckaert, direttore del dipartimento emergenze allo Human Right Watch. Alcuni corpi hanno le mani legate dietro la schiena quando sono stati colpiti. Inoltre, alcuni di essi hanno fasce su ferite gravi, ciò suggerisce che sono stati curati per altre ferite prima di essere giustiziati, un cocente ricordo della precedente violenza assassina dei ribelli all’ospedale Abu Saleem di Tripoli.

Gli abitanti di Sirte hanno identificato quattro dei morti come abitanti di Sirte: Ezzidin al-Hinsheri (un funzionario del governo), Muftah Dabroun (un funzionario militare), Amar Mahmoud Saleh e Muftah al-Deley (entrambi civili).

Alcune delle vittime sono state all’ospedale Ibn Sina di Sirte, dopo essere state curate – lo stesso ospedale che curava bambini con orribili ferite, di cui abbiamo parlato in un’altra inchiesta.

Sulle pareti dell’albergo c’erano i nomi delle brigate di Misrata: la “brigata tigre”, la “brigata supporto”, la “brigata giaguaro”, la “brigata leone”, la “brigata cittadella”. Le brigate di Misrata si sono già rese responsabili della pulizia etnica di Misrata e del genocidio di Tawergha.

Nel frattempo i funzionari della Croce Rossa hanno riferito di aver trovato 267 morti a Sirte, la maggior parte dei quali si pensa esser stati uccisi giovedì, giorno della liberazione.

Come spiega HRW, la violenza e gli omicidi, inflitti durante un conflitto a combattenti che hanno deposto le armi o si trovano in stato di detenzione costituiscono un crimine di guerra secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. La Corte ha giurisdizione in Libia per tutti i crimini compresi nel suo mandato commessi a partire da febbraio 2011. Secondo il trattato, le responsabilità penali si estendono sia a quelli che fisicamente commettono il crimine sia agli ufficiali più alti in grado, inclusi quelli che danno gli ordini e quelli in una posizione di comando che avrebbero dovuto aver conoscenza degli abusi ma che non hanno saputo prevenirli o denunciarli o perseguire i loro responsabili.

Come dice Peter Bouckaert:

L’ultimo massacro sembra essere parte di una tendenza all’omicidio, al saccheggio e ad altri abusi commessi da combattenti anti-Gheddafi che considerano loro stessi al di sopra della legge.

Il procuratore della Corte Penale Internazionale non ha intrapreso azioni contro le forze pro-NATO, infatti è stato coinvolto nella diffusione di propaganda e nell’incitazione all’odio razziale durante il conflitto. Per di più, i leader del Consiglio di Transizione (NTC) sono fortemente implicati negli attacchi alla popolazione civile di Sirte. Mustafa Abdel Jalil ha visitato le brigate assediando la città l’11 Ottobre e dichiarò:

Voi avete il sostegno di tutti i membri del Consiglio di Transizione”.

Oltre a questo, Mahmoud Jibril ha dato il via libera alla pulizia etnica permanente dei Tawergha da parte delle brigate di Misrata durante un incontro al Misrata Town Hall

Quello che ora resta di Sirte è stato compleatamente saccheggiato, con camion che caricano auto e beni personali da riportare a Misrata.

Nel frattempo, secondo l’inchiesta di Wyre Davies della BBC da Sirte, la città sarà l’ultima ad essere ricostruita o potrebbe non essere ricostruita affatto “sarà lasciata invece nel suo stato fatiscente, in segno di commemorazione delle vittime del Colonnello Gheddafi.”

La responsabilità di protezione

È chiaro che la dottrina della “responsabilità per la protezione” (R2P) è stata manipolata dalla NATO e dai suoi sostenitori come giustificazione per le sue campagne militari e ha perso il suo contenuto umanitario, divenendo poco più che un’arma nella guerra di propaganda per estorcere consensi sulle azioni militari ai cittadini poco informati.

Una autentica responsabilità per la protezione (GR2P) deve proteggere le persone dalle devastazioni della guerra, durante la quale si verificano le violazioni dei fondamentali diritti umani, e deve considerare la R2P come la reincarnazione del peso dell’uomo bianco e come giustificazione dell’imperialismo e avventurismo militare della NATO.

 

(Traduzione di Lomé Galliano)

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Rivolte arabe: la primavera non arriva

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Rivolte arabe: la primavera non arriva. I popoli di Nord Africa e Vicino Oriente tra “lotta per la democrazia” e “interventi umanitari” della NATO. Questo il tema al centro della serata in calendario il prossimo 9 novembre a Bologna presso il Centro Sociale “Giorgio Costa” di via Azzo Gardino 48. L’iniziativa, organizzata dall’Associazione Eur-Eka, vedrà la partecipazione di Daniele Scalea, co-autore di “Capire le rivolte arabe”, segretario scientifico dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) nonché redattore di “Eurasia”, e di Joe Fallisi, artista lirico e militante antimperialista testimone dell’aggressione militare alla Libia. L’evento tenterà di chiarire le dinamiche politiche, economiche e sociali che sottendono la cosiddetta “primavera araba”, espressione inflazionata negli ultimi mesi che, al di là del significato meramente letterale, merita un dibattito attento ed approfondito, che tenga necessariamente conto dei fattori interni ai singoli Paesi e, elemento forse ancor più determinante, delle ingerenze delle potenze esterne. La morte di Gheddafi – che ha sancito la fine della missione NATO dopo circa otto mesi di guerra – ci pone di fronte ad un ventaglio di questioni cruciali su quello che accadrà dopo. Quesiti che accomunano Egitto, impegnato in una “transizione democratica” tutt’altro che priva di ostacoli e punti interrogativi, e Tunisia dove, a nove mesi dalla caduta di Ben Ali, il 90% della popolazione si è recata alle urne per l’elezione dell’Assemblea Costituente. E poi la mobilitazione del popolo siriano e la situazione nello Yemen. Rivolte arabe: la primavera non arriva rappresenta una preziosa occasione per analizzare, considerando le specificità locali di ciascun contesto, il nuovo riassetto dello scacchiere da un punto di vista geopolitico, come si disporranno sul tavolo le carte delle risorse – il caso libico è al riguardo esemplificativo – i rapporti di forza e le aree di influenza delle potenze nella regione. Un’opportunità di incontro e dibattito, dunque, che arriva puntuale per cercare di fornire strumenti di analisi necessari al fine di comprendere al meglio la reale portata e le prospettive dell’attuale “primavera araba”. Un evento sicuramente da non perdere.

L’ingresso è riservato ai soci. La tessera Uni.Ass.Bo costa 3 euro. Sono riconosciute anche le tessere Ancescao.

 

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Putin e Medvedev: la staffetta verticale

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Comprendere le dinamiche della politica è molto complicato. Tracciare consequenzialità tra gli eventi politici russi è un compito ancora più arduo. Per alcuni giornalisti ed esperti sarebbe facile riprendere i propri archivi e tagliare corto con un “nel 2007 l’avevo previsto”. Le vicissitudini di breve periodo, i cambiamenti nella politica estera e interna e la situazione energetica hanno permesso che l’avvicendamento alla presidenza tra Medvedev e Putin si verificasse. Bisognerà capire se l’atteggiamento di quest’ultimo sarà lo stesso di quattro anni fa o se, da bravo politico, modificherà la sua agenda a seconda delle necessità.

Introduzione
Ultimamente, le agenzie e i giornali sono tornati a occuparsi della corsa alla presidenza russa e delle conseguenti dinamiche di potere. Il 4 dicembre si terranno le elezioni parlamentari, qualche mese prima delle presidenziali. Dopo qualche remora, il presidente uscente Dmitrij Medvedev ha confermato il suo sostegno alla candidatura dell’attuale primo ministro, ed ex-presidente, Vladimir Putin. Tutto pare ricalcare il copione scritto quattro anni fa quando Putin fece un passo indietro. Ciononostante, alcuni segnali di politica interna ed estera ci presenteranno con ogni probabilità una Russia diversa rispetto a quella presa in mano da Putin ad inizio secolo.
In ambito interno, oltre all’investitura di Putin quale “candidato designato” dal partito Russia Unita, nella seconda parte del 2011 sono avvenuti alcuni cambiamenti molto importanti. Alla fine di settembre, il Ministro delle finanze che ha accompagnato Putin nel suo percorso presidenziale, Aleksej Kudrin, è stato costretto alle dimissioni dopo un duro scontro con Medvedev.
Qualche mese prima, il presidente aveva condotto una sorta di rivoluzione al vertice, impedendo la compatibilità tra le cariche politiche legate al Cremlino e gli incarichi all’interno dei quadri delle più grandi compagnie russe. Molti uomini potenti, ai quali Putin aveva permesso il doppio incarico, si sono ritrovati a doverne abbandonare uno.

Il capitolo pietroburghese
La collaborazione tra Putin e Medvedev ha le sue radici nell’amministrazione comunale di San Pietroburgo, che negli anni Novanta diventò una fucina di politici giovani e rampanti. L’elezione di Anatolij Sobchak permise al suo staff di influenzare la vita politica della capitale europea della Russia. Molti di coloro che parteciparono a questo milieu furono poi chiamati da Putin come collaboratori o ministri durante i primi due suoi mandati presidenziali. Conoscerli meglio durante l’epoca pietroburghese ci aiuterà a capire chi sono diventati nello scorso decennio e perché.
Sobchak era professore presso la facoltà di giurisprudenza all’Università di Leningrado quando si candidò per le elezioni comunali del 1989. Alla sua campagna lavorarono molti suoi studenti ed ex-studenti, non ultimi Dmitrij Medvedev e Vladimir Putin.
Nelle sfere più alte del liberalismo pietroburghese, accanto a Sobchak, militavano Sergej Stepashin e Anatolij Chubais, importanti esponenti negli esecutivi durante la presidenza Eltsin. Inoltre, un folto gruppo di giovani politici si distingueva per l’intraprendenza che gli avrebbe permesso di inserirsi nel salotto del Cremlino già verso la fine degli anni Novanta. Grazie all’elezione alla presidenza di Putin, questo gruppo avrebbe dominato la scena politica russa dal 2000 in avanti.
L’operazione di occupazione del potere da parte di Putin ha riguardato anche i suoi ex compagni nei servizi di sicurezza (KGB, poi FSB). Il neo-presidente scelse con cura gli incarichi e consegnò le chiavi dei ministeri più importanti ai cosiddetti siloviki (dal russo silovye struktury, rappresentanti delle strutture di potere) e le redini delle aziende a partecipazione statale più forti ai suoi “amici” pietroburghesi  (1).
Tra i siloviki si annoverano Viktor Ivanov, ex membro del KGB e vicecapo dello staff presidenziale dal Gennaio 2000, Sergej Ivanov, a lungo ministro della difesa e principale sostenitore di Mikhail Fradkov, primo ministro dal 2004 al 2007. Inoltre, nato in Cina, ma con un immenso senso patriottico, Sergei Stepashin, fu primo ministro per tre mesi nella transizione tra Primakov e Putin del 1999 (2) e rimase una figura molto influente negli ambienti militari e governativi. Nikolaj Patrushev lavorò a stretto contatto con Stepashin e Putin presso i servizi di sicurezza, prendendo il posto di quest’ultimo al FSB nel 1999 . L’ultima importante figura di questo seppur incompleto ritratto dei siloviki, Igor Sechin, è descritta nelle righe successive, visto che egli è anche parte del “gruppo dei pietroburghesi”.
Agli amici di San Pietroburgo che avrebbero fatto parte dell’establishment putiniano sarebbero stati concessi posti di rilievo. A cominciare dal futuro presidente Medvedev, inserito nell’amministrazione presidenziale fin dal 1999 e successivamente anche alla presidenza di Gazprom dal 2001. Sempre accanto a Medvedev, Sechin sarebbe diventato un uomo chiave del Cremlino. Il “cardinale grigio”, come lo definisce l’Economist (3), durante il secondo mandato di Putin accrebbe il suo potere sia all’interno dell’amministrazione presidenziale, sia grazie alla nomina a capo del colosso del petrolio, Rosneft’, nel 2004. Ancora in ambito energetico, uno stretto collaboratore di Putin durante l’amministrazione Sobchak, Aleksej Miller, avrebbe sostituito Rem Vyakirev come amministratore delegato di Gazprom nel 2001. Un altro illustre originario della grande città baltica, German Gref, fu nominato prima ministro dello sviluppo economico nel 2000 e poi trasferito al ministero dell’economia nel 2004.
Il pietroburghese di cui ci occupiamo maggiormente, però, non rimase fedele al neo-centralismo democratico (4) che caratterizzò la nascita e il successo del partito di maggioranza, Russia Unita. Aleksej Kudrin si trasferì a Mosca per prendere il posto di ministro delle finanze lasciato libero da Mikhail Kasyanov , nominato primo ministro nel Marzo del 2000. I suoi servizi saranno molto utili alla crescita economica della Russia e alla sua stabilità finanziaria interna. Memore della grave crisi del 1998, Kudrin aggiunse un pizzico di interventismo statale alla tendenza liberale del governo Kasyanov (5). Questo atteggiamento fu importante per Putin, grazie al quale Kudrin sopravvisse nel suo incarico anche dopo l’emarginazione di Kasyanov poco prima delle elezioni presidenziali del 2004 (6).
In questo intricato groviglio di personalità, Putin ha rappresentato chiaramente il filo conduttore. La sua abilità nell’intessere le trame politiche e bilanciare il potere tra le varie cariche politiche e affaristiche gli ha garantito la stabilità come leader indiscusso. Anche durante il periodo in cui, per rispetto verso la Costituzione, decise di lasciare la presidenza come aveva fatto Eltsin, designando il suo naturale successore.

Il gioco di potere
Proprio come era capitato nel 1999, nel 2007 Putin scelse Dmitrij Medvedev quale suo successore preferito e lo propose al bagno di folla del congresso di Russia Unita. Nei mesi precedenti alle elezioni, giornalisti e accademici si dividevano sul nome di colui che avrebbe preso il posto di Putin. Molti puntavano sul neo-premier Viktor Zubkov, non più giovane, che avrebbe gestito la cosa pubblica russa con una chiara deferenza verso Putin, conscio che il proprio mandato dipendesse dall’ex presidente. Altri scommettevano su Medvedev, quale giovane inesperto, che Putin avrebbe potuto modellare a piacimento, anche in virtù della decennale amicizia. Insomma, non c’era alcuno che ritenesse possibile che il presidente, che si sarebbe insediato nel 2008, avrebbe mostrato un’autonomia decisionale rispetto a Putin.
Non è a torto che si sospettasse di un pluralismo “zoppo”, visto che i candidati indipendenti erano stati censurati ed esclusi (da Kasparov a Kasyanov) e che i candidati di opposizione classica (Zyuganov e Zhirinovskij) non avevano un bacino popolare sufficiente a poter avvicinare la macchina elettorale di Russia Unita (7). Fu senza difficoltà, infatti, che Medvedev, il predestinato, ricevette circa il 70% dei voti.
Medvedev mostrò un’autonomia decisionale intermittente, soprattutto a causa della congiuntura internazionale in cui si trovò a operare. Pochi mesi dopo la sua elezione, le tensioni crescenti in Abkhazia e Ossezia del Sud lo spinsero a decidere unilateralmente di intervenire con l’esercito russo nei territori contesi. L’azione, che rispondeva a determinati dettami del diritto internazionale e ne infrangeva altri, sorprese lo stesso Putin. Nel 2011, l’intervento in Libia creò un ulteriore solco nelle relazioni tra Putin, che comparò la risoluzione ONU num. 1973 a una «medievale chiamata alla crociata», e Medvedev, il quale si distanziò da tale posizione appoggiando la decisione del Palazzo di vetro (8). Inoltre, Medvedev rilanciò più volte la sua volontà di giungere a una concreta liberalizzazione economica per scongiurare il pericolo di «stagnazione», parola che Putin mai avrebbe usato per descrivere la “sua” Russia.
L’autonomia decisionale si è altresì palesata nella posizione che Medvedev ha assunto nei riguardi di personalità politiche di spicco con cui non si è trovato d’accordo. Titoli di giornale sono stati spesi nel 2010 sul sindaco di Mosca, Jurij Luzhkov (9), sostituito da Sobyanin e nel 2011 su Sechin e Kudrin. Tutti accomunati dalla loro vicinanza al premier Putin. Con frequenza incostante, gli esperti spesero parole sulla capacità di Medvedev di distanziarsi dal suo predecessore. Tuttavia, l’attuale presidente ha sempre cercato di giustificare le proprie azioni attraverso il suo programma di liberalizzazione e modernizzazione (10). A questo proposito, Medvedev ha provato a far breccia tra le mura delle fortezze energetiche erette grazie alla rinazionalizzazione voluta da Putin, occupandosi poco di politica energetica, soprattutto di risorse tradizionali, come petrolio e gas naturale, a differenza del suo predecessore.
D’altra parte, durante la sua reggenza come primo ministro, Putin ha ottenuto dalla Duma un rafforzamento dei poteri del premier, costruendo le basi per il suo ritorno al Cremlino. Pur avendo perso qualche fedele alleato a causa dei “capricci” liberali di Medvedev, è rimasto saldamente al controllo del suo Paese. Inoltre, non ha esitato a cercare soluzioni anche nella revisione di una politica accentratrice. Alla ricerca della soluzione per l’uscita dalla crisi, dopo aver messo mano al Fondo Nazionale (11) (che aveva negli ultimi anni accumulato le risorse monetarie ottenute dalla vendita di idrocarburi), Putin ha ritenuto opportuno immettere nuovamente sul mercato porzioni minoritarie delle aziende statali, scelte soprattutto tra i giganti in difficoltà. Su tutti, Gazprom, impossibilitato ad aumentare il volume delle vendite, visti i problemi a Ovest (Ucraina) e a Sud (Turkmenistan), con la stessa forza di inizio secolo e mancando gli obiettivi di ricapitalizzazione nel 2008-10.

Il colpo di coda di Medvedev
La battaglia di Medvedev contro il “doppio incarico” tra quadri d’impresa e ruoli di partito è stata condotta dall’inizio del 2011. A Kudrin fu chiesto di scegliere tra la guida di VTB (la banca di investimenti più attiva nell’attrarre capitali dall’estero, di cui venne contestualmente venduto il 10% ) (12) e la poltrona di ministro delle finanze. A Sechin venne intimato di lasciare prima di luglio il suo ruolo di amministratore delegato di Rosneft’ se avesse voluto conservare il suo ruolo nell’amministrazione presidenziale. Entrambi optarono per l’esecutivo, dove Putin avrebbe potuto proteggerli da ulteriori attacchi. Uno scambio di vedute poco cortese, però, causò l’allontanamento di Kudrin a settembre, quando si vide costretto alle dimissioni dopo la pubblica nota di demerito riferita da Medvedev in diretta televisiva.
Quest’ultima forse un’ultima zampata prima di cedere il potere, ripetendo il ritornello dei suoi predecessori durante il congresso del partito. Come da tradizione, quasi hollywoodiana, il presidente parla per ultimo e designa il suo successore, presentandolo al partito. Questi, che aveva parlato poco prima, viene richiamato sul palco per accettare la candidatura e ricevere trenta minuti di applausi.
Aleksej Kudrin era infatti l’unico ministro della Federazione a dare del “tu” a Vladimir Putin e aveva recentemente sottolineato quali fossero gli svantaggi che la dipendenza dal petrolio presentava per l’economia russa (13). Pur non trovandosi d’accordo con l’atteggiamento statalista e centrato sull’energia di Sechin, Kudrin condivise con lui la vicinanza a Putin e il destino preparato loro da Medvedev. In particolare, in seguito al congresso di Russia Unita che mostrava i segni della distensione tra Putin e Medvedev e la ridefinizione dei rispettivi ruoli, Kudrin si lasciò scappare un’esternazione a distanza, secondo la quale avrebbe lasciato il governo se si fosse trovato a lavorare con Medvedev come primo ministro. Qualche giorno dopo, di ritorno in Russia, Kudrin incontrò il presidente a un summit governativo. Medvedev aprì bruscamente i lavori, in diretta TV, stigmatizzando le parole di Kudrin e intimandogli di lasciare il suo incarico di ministro. Kudrin passò il resto della riunione a redigere la propria lettera di dimissioni, che consegnò alla fine dei lavori. Il 27 settembre, Putin, accordatosi con Medvedev, nominò ministro delle finanze Anton Siluanov (14).

Conclusione
Nonostante Putin abbia dimostrato di poter vincere il gioco di potere, Medvedev ha ottenuto diverse soddisfazioni che, almeno sulla carta avvicinano di più la Russia al concetto occidentale di democrazia. La battaglia anti-corruzione, l’aumento della trasparenza e l’abolizione dei doppi incarichi tra esecutivo e mondo degli affari hanno indorato le pillole che l’Europa e gli Stati Uniti hanno dovuto inghiottire con l’intervento militare nel Caucaso, con l’inasprimento della censura nell’informazione e con la posizione antagonista russa nei fora internazionali (da ultimo il veto al Consiglio di Sicurezza ONU sulle sanzioni alla Siria).
Si sentono già i primi segnali di cambiamento: Putin ha recentemente pubblicato un articolo su Izvestiya che traccia il nuovo disegno geopolitico russo includendo l’area post-sovietica quale spazio economico prioritario. La spinta “eurasista” si iscrive in modo coerente nell’idea di un risorgimento dell’area tra l’Unione Europea e le emergenti potenze asiatiche.
Ma se le aspettative di un ritorno alla presidenza di Putin sono state attese, il futuro post-elettorale non è ancora scritto. I nuovi rapporti istituzionali che si delineeranno, la congiuntura economica e i temi energetici – dal progetto South Stream alle forniture all’Ucraina, dal condotto tra Burgas e Alexandroupolis all’incostante sostegno al nucleare in Bulgaria – modificheranno sicuramente lo scenario in cui Putin dovrà operare. L’impostazione del 2012 potrebbe rappresentare un “ritorno al passato” (vozvrat k proshlomu): solo mantenendo un atteggiamento intransigente in termini di sicurezza (estremismo e separatismo saranno combattuti ferocemente, soprattutto nel Caucaso del Nord), la collaborazione economica permetterà alla regione eurasiatica di stare al passo con i suoi concorrenti d’oltreconfine.

 

* Paolo Sorbello ha ottenuto la Laurea Specialistica in Scienze Internazionali e Diplomatiche dall’Università di Bologna (sede di Forlì). La sua tesi di ricerca è stata successivamente pubblicata da Lambert Academic Publishing con il titolo “The Role of Energy in Russian Foreign Policy towards Kazakhstan” (Giugno 2011). L’autore ha condotto i suoi studi presso istituzioni accademiche in Spagna, Russia e negli Stati Uniti. Ha lavorato presso importanti istituti di ricerca negli Stati Uniti e attualmente collabora con il centro di ricerca IECOB pubblicando articoli e approfondimenti su tematiche inerenti alla geopolitica dell’energia.

Note:

1) Si veda la definizione di “Friends of Putin” in Marshall I. Goldman, Petrostate: Putin, Power, and the New Russia, Oxford University Press, Oxford, 2010
2) Ian Bremmer and Samuel Charap, “The Siloviki in Putin’s Russia: Who They Are and What They Want”, The Washington Quarterly, vol. 30, n. 1, 2006-07; “The Making of a Neo-KGB State”, The Economist, 23 Agosto 2007.
3) “New jobs, old faces”, The Economist, 15 Maggio 2008. http://www.economist.com/node/11376699 . È interessante notare che il “cardinale grigio” per eccellenza fu Mikhail Surkov, ideologo sovietico. Nella Russia post-sovietica, in molti sono stati defininti “cardinali grigi”: Sechin e Surkov con più ricorrenza, ma, ironicamente, anche Chubais, cognato dello stesso Surkov.
4) Forse sarebbe più appropriato definirlo “centralismo organico” sull’esempio bordighiano, ma non è questa la sede per disquisire della natura dei processi decisionali all’interno di Russia Unita.
5) Olga Oliker, Keith Crane, Lowell H. Schwartz, Catherine Yusupov, Russian Foreign Policy: Sources and Implications, RAND Corporation, Santa Monica, CA, 2009.
6) Una ulteriore causa del divorzio tra Kasyanov e Putin è stata la divergenza sul caso Yukos.
7) Elfie Siegl, “Do Russian Liberals Stand a Chance?”, Russian Analytical Digest, n. 1, Giugno 2006; Fabrizio Dragosei, “Plebiscito per Medvedev: Mosca ha il nuovo zar”, Corriere della Sera, 3 Marzo 2008, pagina 2; Ennio Di Nolfo, “La mossa riuscita di Putin che vale la stabilità”, Il Messaggero, 3 Marzo 2008, pagina 1.
8 Inoltre, Medvedev censurò le parole di Putin, abbassando i toni da «scontro di civiltà». Doug Mataconis, “Putin, Medvedev Publicly Disagree Over Libya Intervention”, Outside the Beltway, 21 Marzo 2011 http://www.outsidethebeltway.com/putin-medvedev-publicly-disagree-over-libya-intervention/
9) Brian Whitmore, “Medvedev Comes Into His Own”, Radio Free Europe / Radio Liberty, 6 Aprile 2011.
10) Presidente della Federazione Russa, “Meeting on economic issues”, 22 Aprile 2011, http://eng.kremlin.ru/news/2122
11) La creazione del Fondo Nazionale è da attribuire all’ex ministro delle finanze Aleksej Kudrin.
12) “Medvedev says privatization plan must be fixed, govt officials quit company boards”, RIA Novosti, 30 Marzo 2011. http://en.rian.ru/business/20110330/163289993.html
13) Nona Mikhelidze, “The 2012 Presidential Elections in Russia: What Future for the Medvedev-Putin Tandem?”, Istituto Affari Internazionali, working paper n. 1125, Settembre 2011.
14) Antonella Scott, “Kudrin sostituito dal suo vice: un tecnocrate alle Finanze”, Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2011.

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Rivolte arabe: la primavera non arriva

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Si è tenuta a Bologna mercoledì 9 novembre 2011 alle ore 20.30, presso il centro sociale “Giorgio Costa” di Via Azzo Gardino 48, la conferenza “Rivolte arabe: la primavera non arriva”. 

Sono intervenuti come relatori: Daniele Scalea (co-autore di Capire le rivolte arabe, segretario scientifico dell’IsAG, redattore di “Eurasia”) e Joe Fallisi (attivista, testimone dell’aggressione alla Libia).

L’organizzazione è stata a cura dell’associazione “Eur-Eka“.

L’ingresso è riservato ai soci (la tessera Uni.Ass.Bo costa euro 3; sono riconosciute anche le tessere Ancescao).

Per maggiori informazioni cliccare qui.

 

 

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L’orizzonte sino-iraniano tra cooperazione energetica e strategia militare

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Lo scorso 15 Luglio si è celebrato il 40° anniversario delle relazioni diplomatiche sino-iraniane, data che ha riproposto agli occhi del mondo la cooperazione strategica che vede impegnati, da quattro decenni a questa parte, i due paesi asiatici. L’evento, al quale è seguito un incremento della strategia bilaterale nella quale i due paesi sono impegnati, per quanto significativo, non rappresenta affatto una novità per quella che è, a tutti gli effetti, un’alleanza secolare, dettata da esigenze territoriali e d’intesa strategica.

 

Già dal secolo II l’Impero di Mezzo e la Persia, due giganti con vastissima influenza territoriale nel semicontinente asiatico, hanno stretto i primi rapporti di mutua difesa ed intesa politica, intrecciando i propri interessi geopolitici a scambi economici sulla Via della Seta. Ancora oggi il primo fattore che influisce sul partenariato sino-iraniano sono gli scambi economici, al di là di un comune impegno anti-imperialista e post-coloniale; scambi incentrati in questo caso sulla politica energetica dei due paesi. L’Iran difatti già dalla seconda metà degli anni ’70 diviene il maggior fornitore petrolifero della Cina, riaffermando i rapporti secolari apparentemente interrotti. Tutt’oggi la Cina risulta essere l’acquirente privilegiato degli idrocarburi iraniani, oltre che il maggior partner economico dello stesso paese. L’Iran, sottoposto a dure sanzioni dalle Nazioni Unite per lo sviluppo del suo programma nucleare ed isolato dagli acquirenti internazionali, ha conservato però l’alleanza e l’intesa economica con la Cina che, pur pur rivestendo un ruolo predominante nell’ONU, propende per una politica bifronte nei confronti del partner centro-asiatico. S’è vero che le Nazioni Unite lavorano a pieno ritmo per ostacolare l’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran, la Cina, pur dovendo necessariamente convenire con le istanze dell’organismo sovrannazionale contro la progettazione dell’atomica, propone la via soft della negoziazione, schierandosi nettamente contro una politica ONU di netta contrapposizione allo sviluppo energetico del paese (sviluppo che, come vedremo, è incentivato dalla Cina stessa), e proclamando d’altronde il diritto iraniano a possedere una tecnologia nucleare “pacifica”.  D’altro canto tutti i vuoti creatisi dopo l’emanazione del pacchetto di sanzioni sono così stati colmati dalla Cina stessa che, in nome di un pragmatismo politico ormai noto, approfitta di questi per potersi imporre come interlocutore esclusivo dell’Iran. In quest’ottica l’isolamento forzato del paese risulta essere il primo vantaggio dell’Impero est-asiatico, che preferisce notoriamente i rapporti economici bilaterali, esclusivi, a quelli multilaterali, mercatisti. Il volume di affari sino-iraniano, in continuo incremento, ha toccato vette che raggiungono i 21,2 miliardi di dollari. L’esportazione massiccia di oro nero da parte di Pechino (in quantità che hanno raggiunto nel 2009 i 3,12 miliardi di dollari, e per la quale sono stati investiti 6,5 miliardi di dollari da Sinopec e Cnpc nel 2010 per la costruzione di raffinerie) è contraccambiata dallo stabilimento di più di 100 imprese cinesi sul territorio iraniano, dall’offerta sia di manodopera che di tecnici e competenti per la costruzione di infrastrutture (metodo analogo a quello proposto in Africa), dal pagamento di numerosi contratti per l’esplorazione del sottosuolo e lo sfruttamento degli idrocarburi . Non potendo tra l’altro operare la raffinazione degli idrocarburi in loco, l’Iran importa benzina dal partner per 40.000 barili al giorno. Il governo di Teheran gode in questo modo della possibilità di incrementare l’industrializzazione, mantenendo stabile il proprio livello di modernizzazione, per rimanere al passo delle potenze internazionali e svolgere il proprio ruolo sullo scacchiere geopolitico. E sebbene gli Stati Uniti cerchino d’imporre la propria linea nei confronti dell’Iran sulla politica internazionale, sostenendo che stringere rapporti con l’Iran sia una mossa scorretta “in questo momento in cui Teheran continua ad arricchire l’uranio a dispetto della Comunità Internazionale”, come detto dal membro del Congresso Howard Berman, la Cina continua a fornire all’Iran stesso materiale fondamentale per la costruzione di missili nucleari (alluminio, titanio, rame tungsteno…).

È chiaro quindi che l’assetto asiatico si stia dirigendo in una direzione univoca, quella di una coesione tra due interessi congiunti con, da un lato la Cina in Asia orientale, dall’altro l’Iran nella zona contro-asiatica. Tale rapporto bilaterale è coadiuvato da una sempre più evidente intesa macrocontinentale, che vede nella Russia e nella Cina i due massimi giocatori nell’area, entrambi legati a doppio filo con la politica iraniana. Quale stato non allineato, in sviluppo economico e con ottime fonti energetiche, l’Iran non può che essere l’alleato principale di entrambe le super-potenze, che si sono impegnate per consolidare il loro supporto ad esso, bloccando congiuntamente in sede ONU la risoluzione militare proposta contro Damasco, storico alleato regionale di Teheran, e definendo, attraverso il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, l’attacco all’Iran proposto da Shimon Peres quale “un errore molto grave e dalle conseguenze imprevedibili”. Colpire l’Iran significherebbe a tutti gli effetti destabilizzare tutta la politica e l’economia asiatica. È per questo che l’interesse di Russia e Cina è nel mantenere stabile l’asse Iran-Siria. La Cina stessa, comprendendo l’estrema manovrabilità dei settori politici dell’Islam radicale, come nel caso dei Fratelli Musulmani nel tentativo di destabilizzazione della Siria, in un ultimo raduno del PCC ha deciso di proporsi come primo paese impegnato nella lotta al terrorismo nel XXI secolo.

Ma il triangolo strategico Cina-Russia-Iran rivela anche prospettive future di consolidamento di un potenziale militare asiatico: in un summit della Shangai Cooperation Organization del giugno 2010 si è specificato che “lo sviluppo unilaterale e illimitato di sistemi di difesa missilistici da parte di un governo o di un piccolo gruppo di governi potrebbe danneggiare la stabilità strategica e la sicurezza internazionale”, riferendosi chiaramente al proliferare degli “scudi missilistici” occidentali. La soluzione di un blocco cooperativo di forza militare nucleare, a tutti gli effetti, è l’alternativa alla cortina nucleare che la NATO e gli Stati Uniti hanno sviluppato attorno all’intero blocco euroasiatico. E se le sperimentazioni russe e cinesi si stanno già mobilitando in questo senso, non può che essere evidente che il ruolo giocato dall’Iran sarà fondamentale per contrapporre lo schieramento missilistico occidentale.

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Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism

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INTERNATIONAL CONFERENCE

«Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism»

Russian Foreign Affairs Ministry and Federal Communications Agency are organizing a conference, «Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism».

Globalization is one of the most important tendencies in the development of our communities. Integration and unification of multitudes of social processes, from politics and economics to culture and even religion, are happening on vast scales and cannot be ignored. For this reason, the topic of global processes is increasingly becoming a subject of discussion and scientific research.

Rapid developments in the telecommunications sector in the past decade have significantly contributed to this process. We are now facing a new information-aware society formed by a number of both legacy and new delivery instruments that include mobile communications, Web and social networks. These developments inevitably affected Mass Media, continuously introducing major disruptions into established processes.

Journalism, and particularly international journalism, continues to perform a significant part in the practices of mass communications. It is continuously forced to adapt to changing conditions imposed by the factors described. Information delivery methods, international standards, legal and ethical best practices that regulate work of professionals in this field are all coming to the forefront.
Main topics of the conference will be discussed in the format of round tables. Topics will include:
· National interests and international journalism
· Access to information issues experienced by media representatives in Russia and in Europe
· Part Mass media plays in international relations and the effect it has on them
· International journalism: international law and common ethical best standards

Effective approaches to examine these questions require consolidated effort of scientists, practiotioners, journalists and various other affected parties. This is what the conference « Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism » is designed to address.
The conference will be opened by João Soares, President Emeritus of the OSCE Parliamentary Assembly, Member of Parliament in Portugal and Armen Oganessian, editor-in-chief of the magazine “Mezhdunarodnaya zhizn” (“International life”).

Among conference participants are: Marek Halter, French novelist, director of the French College in Moscow and St.Petersburg; professor Dr. Heitor Romana, Associate Professor, School of Political and Social Sciences, Technical University of Lisbon; Henrikas Iouchkiavitchious, Assistant Director General of UNESCO; Prof. (FH) Dr. Anis H. Bajrektarevic, Acting Deputy Director of Studies EXPORT EU–ASEAN–NAFTA, Professor and Chairperson, International Law and Global Political Studies, University of Applied Sciences IMC–Krems; George Protopapas, Research Associate – Media Analyst, Research Institute for European and American Studies (RIEAS); Tiberio Graziani, Editor-in-Chief, Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici; Piotr Fedorov, Head of Foreign Relations at VGTRK, Michael Peters, managing director of EuroNews etc, .

Conference will take place November 24-25 in Radisson Blu Ambassador Hotel, Paris Opera, Paris, France.

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Malvinas o Falkland: una sovranità che è destinata a contrapporre il nuovo sistema emergente Indiolatino al vecchio sistema occidentale.

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Nell’aprile 1982 l’esercito argentino invase le Falkland rivendicandone la sovranità a discapito dell’Inghilterra. Senza dimenticarne il valore oggettivo, che vedremo in seguito, l’azione militare aveva in quel momento delle finalità propagandistiche: l’obiettivo finale era quello di distogliere l’attenzione della popolazione dall’operato di una dittatura sanguinaria e repressiva e di spostarla su un “nemico” esterno e soprattutto distante 12.000 Km.

In Argentina era forte la sofferenza popolare nei confronti del regime di Galtieri che rispondeva di contro accrescendo la popolazione dei desaparecidos. Col tempo però il regime di terrore non fu più sufficiente a mantenere nel torpore la coscienza popolare che riscoprì l’attivismo politico e la forza di contestare apertamente le ingiustizie dittatoriali. Galtieri aveva bisogno di un diversivo in grado di riportarlo in una posizione di stabilità interna e quale miglior occasione del risveglio del nazionalismo argentino?

 

Ecco perché la mattina del 2 Aprile 1982 la popolazione argentina si risvegliò con la notizia dello sbarco delle truppe nazionali sulle coste delle Falkland. L’idea di riportare le isole sotto la bandiera sudamericana e traslare il nome anglofono Falkland nel più argentino Malvines* fece riunire la popolazione argentina nel nome dell’orgoglio nazionale e paradossalmente il regime di Galtieri, tanto odiato e prossimo a capitolare, si ritrovò osannato dall’intera Nazione. La strategia sin qui esposta mi è stata confermata da un’intervista informale fatta a Juan Carlos Iampietro (nato a Buenos Aires nel 1958) – un ex dipendente pubblico argentino che oggi risiede in Italia. Il Signor Iampietro nel ripercorrere la situazione socio-politica durante la dittatura ha avuto modo di approfondire l’episodio della guerra delle Malvines del 1982:

 

“… il 2 Aprile 1982 il dittatore di turno chiamato Galtieri decise di occupare queste isole. I militari argentini dovevano spostare l’attenzione del popolo visto che il clima sociale di quei giorni era molto delicato. Basti pensare che il giorno prima dell’occupazione il popolo argentino ha manifestato davanti alla casa del governo e stava per entrarci. Il clima era teso. Il giorno dopo ci siamo svegliati con la notizia dell’occupazione. La gente aveva cambiato il nemico: adesso erano gli inglesi… è stato tutto molto stupido e il risultato furono tanti soldati morti: ragazzi di 18 anni che facevano il servizio militare si sono ritrovati sopra una nave per partire. Sull’isola i ragazzi hanno lottato con patriottismo, senza mai tradire il popolo argentino. Le isole, si diceva a quei tempi, appartenevano alla signora Tatcher che era prima ministro (inglese). La gente che abita sull’ isola é tutta inglese: lavorano e commerciano lana e carne di pecora ma la vera ricchezza è sotto il mare ( petrolio e pesce)… la gente dell’ Isola non si è comportata male con i nostri soldati…”

 

Dallo stralcio di intervista riportato si individuano diverse tematiche interessanti e meritevoli di approfondimento. Innanzi tutto viene confermata la funzionalità del conflitto del 1982: distogliere l’attenzione della popolazione da problematiche endogene ad una situazione esogena alla Nazione. Il tutto, se pur per un breve periodo, ha rinvigorito la legittimità del potere – portando in secondo piano il costo di vite umana della stessa operazione militare. Galtieri sottovalutò però l’orgoglio inglese che reagì immediatamente e in maniera decisa all’offesa subita ripristinando la propria sovranità il 14 giugno 1982. Si può dedurre che è proprio questo il sentimento scatenante del Conflitto delle Falkland: l’orgoglio. Anche perché nel 1982 non si era in possesso della tecnologia necessaria per individuare il potenziale energetico presente nei fondali marini dell’arcipelago; per di più la popolazione presente sull’isola ammontava a 1500 individui, numero “irrilevante” per giustificare una così dura e rapida risposta inglese.

 

Oggi, invece, l’arcipelago britannico torna ad essere oggetto di attriti internazionali non più per strategie politiche, ma per motivazioni economiche e più indirettamente, per un riaffiorare della “consapevolezza latinoamericana”.

 

Per quanto concerne “l’oro nero”, già in passato (1998) vi furono iniziative volte a quantificare il potenziale petrolifero dei fondali marini dell’arcipelago. Ma le principali multinazionali interessate – tra cui la Shell – arrivarono all’unanime conclusione che le riserve presenti non garantivano un quantitativo di greggio sufficiente a giustificare l’investimento economico necessario per la trivellazione. Il tempo trascorso dal ’98 ad oggi ha notevolmente cambiato gli scenari: l’innovazione tecnologica consente una più accurata analisi del sottosuolo e delle risorse celate al suo interno; le risorse energetiche sono sempre più il fulcro delle strategie relazionali internazionali, specialmente se non rinnovabili; scendendo ad un livello più materiale e monetario, dal ’98 ad oggi il prezzo del petrolio è passato da 10 $ al barile a circa 100 $. Questo mix di fattori ha spinto il gruppo inglese Rockhopper a manifestare l’intenzione di investire 2 miliardi di dollari per l’estrazione di petrolio al largo delle Falkland. Il progetto è di certo ambizioso ed ha lo scopo di raggiungere i 120.000 barili di estrazione giornaliera entro il 2018.

Il reale intento inglese di approfondire l’analisi della vasta area marina dell’arcipelago ha risvegliato “l’orgoglio” argentino che negli ultimi giorni per voce del suo massimo esponente – il presidente Fernándezha rivendicato la sovranità sulle isole e sull’annesso mare. Tale rivendicazione si è concretizzata con la limitazione della navigazione delle acque argentine a discapito delle imbarcazioni inglesi e il sorvolo dei cieli previa autorizzazione argentina.

 

Il contrasto però tende a non ridimensionarsi per due motivi:

 

La recente conferma alla presidenza della Fernández . Ciò presuppone la continuità della politica estera sin qui tenuta e, quindi, un più incisivo ritorno sulla questione della sovranità delle Malvines/Falkland.

 

La “consapevolezza latinoamericana”. Si tratta di una presa di coscienza che man mano coinvolge le popolazioni del Sud America. Più volte tale valore ha tentato di prendere il sopravvento sul fluire della storia del continente. Nell’ottocento era cavalcato da Simon Bolivar che si fece promotore dell’unione del Sud America sotto un’unica bandiera. Negli anni ’60 del XX secolo era l’utopia dei movimenti rivoluzionari delle numerose “guerre di guerriglia”. Oggi lo scenario è di gran lunga cambiato: vi è un allineamento tra politica e società. Pian piano ogni Stato sembra acquisire consapevolezza dei propri mezzi e delle proprie capacità, ricercando un’autonomia esogena – distacco della propria economia dalla dipendenza dal sistema occidentale; diversificazione produttiva; maggiore attenzione al benessere sociale; autonomia nel dialogo internazionale. Tutto ciò porta ad un’ulteriore evoluzione: la nascita di una solidarietà tra Stati sempre più forte. Le rivendicazioni argentine sono accolte positivamente dal Brasile – interessato a sua volta al controllo delle risorse presenti nei fondali al largo delle coste brasiliane – dal Venezuela – Chavez proprio in questi giorni si è reso protagonista dell’esproprio di 300mila ettari ad una multinazionale britannica – e l’Uruguay che ha condiviso con l’Argentina le restrizioni sulla navigazione delle acque. In sintesi, si sta delineando un’idea comune volta a preservare le risorse sud americane dal saccheggio neo-coloniale da parte dei vicini U.S.A. e dei non meno agguerriti capitali europei in cerca di ossigeno per le proprie casse.

Non poco oserei dire. Ovviamente bisogna considerare non solo che tale processo di allineamento è ancora in fieri , ma soprattutto che continuano a sussistere forti legami di alcuni Stati con il blocco statunitense – ad esempio la Colombia.

In tutto ciò resta da chiedersi: ma gli abitanti delle Falkland cosa ne pensano?

Si tratta di circa 4000 persone che vivono di pastorizia, di pesca o operando all’interno delle basi militari. Sono ufficialmente cittadini britannici e lo sono di fatto essendo i figli dei figli di quegli inglesi che popolarono per la prima volta l’arcipelago nel 1833. Non risultano atti di protesta contro la Corona Inglese da parte di questa piccola popolazione, anzi durante l’occupazione argentina del 1982, per protestare – in maniera pacifica – continuarono a tenere la guida dei mezzi a sinistra. Ciò fa pensare che, magari, tali cittadini siano solo parte di un oggetto in balia di una contesa internazionale e che fondamentalmente per loro vada benissimo essere britannici pur se a 12.000 Km dalla corona…

Per concludere e tornando alla “consapevolezza latinoamericana” possiamo dire che se il mondo è in forte evoluzione, il Sud America non staoma di certo a guardare.**

 

*In realtà il termine Malvines ha origini francesi. La colonia ha subito numerose variazioni di sovranità dal 1763 al 1982. Inizialmente fu colonizzata dai francesi che le diedero il nome di Malouines per sottolineare la provenienza dei coloni dal porto di Saint-Malo. Nel 1766 le isole passarono sotto la bandiera spagnola per poi diventare argentine (1810) in seguito alla proclamazione d’indipendenza dell’Argentina. Nel 1833 l’arcipelago fu occupato dagli inglesi finché nel 1982 l’Argentina ne riacquisii la nazionalità per pochi giorni, tornando subito dopo territorio inglese. Oggi gli abitanti dell’arcipelago detengono lo status di cittadini britannici a pieno titolo.

 

** Un ringraziamento a Juan Carlos Iampietro che condividendo con me un buon Mate, ha affrontato un discorso a 360° sull’Argentina, dal passato alle speranze future. Ascoltare l’esperienza altrui e poter avere uno scambio di idee e opinioni costruttive non ha prezzo.

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 

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Il Fronte di Liberazione della Libia si organizza nel Sahel

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Fonte: Information Clearing House

 

Sahel” in arabo significa “costa” o “litorale“. Sebbene fosse presente 5000 anni fa quando, secondo gli antropologi, le prime colture del nostro pianeta iniziarono allora a lussureggiare in questa regione, oggi semi-arida, dove le temperature raggiungono i 50 gradi, e solo i cammelli e un assortimento di creature possono fiutare sorgenti d’acqua; sembra uno strano nome, per questo luogo geografico largo 450 miglia di sabbia cotta, che si distende dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso.

Eppure, stando in piedi lungo il bordo, il Sahel ha l’aspetto di una sorta di linea costiera che demarca le sabbie infinite del Sahara dall’erba della savana, a sud. Parti di Mali, Algeria, Niger, Ciad e Sudan, lungo tutto il confine con la Libia, rientrano in questa supposta terra di nessuno. Oggi il Sahel sta fornendo protezione, raccolta e depositi di armi, campi di addestramento, nascondigli, così come una formidabile base generale per coloro che lavorano per organizzare il crescente Fronte di Liberazione Libico (LLF). Lo scopo del LLF è liberare la Libia da quelli che sono considerati dei burattini coloniali insediati dalla NATO.

La regione del Sahel è solo una delle diverse posizioni che stanno diventando attive, mentre la controrivoluzione libica, guidata dalle tribù Wafalla e Gadahfi, si prepara per la prossima fase della resistenza.

Quando sono entrato in una sala conferenze in Niger, recentemente, per incontrarmi con alcuni sfollati dalla Libia, fui avvertito che stavano preparandosi a lanciare una “lotta popolare, impiegando la tattica maoista dei 1000 tagli“, contro il gruppo attuale che sostiene di rappresentare la Libia, due fatti mi hanno colpito.

Uno era quanti fossero i presenti, che non sembravano trasandati, troppo zelanti o disperati, ma che erano normalmente riposati, calmi, organizzati e metodici nel loro comportamento. Il mio collega, un membro della tribù di Sirte dei Gheddafi, ha spiegato: “Più di 800 organizzatori sono arrivati dalla Libia solo in Niger, e molti altri ancora giungono ogni giorno“. Un ufficiale in uniforme ha aggiunto: “Non è come i vostri media occidentali presentano la situazione, di disperati fedelissimi di Gheddafi che freneticamente distribuiscono fasci di banconote e lingotti d’oro per comprare la propria sicurezza dalle squadre della morte della NATO, che ora brulicano nelle aree settentrionali della nostra patria. I nostri fratelli controllano le strade sconfinate di questa regione da migliaia di anni, e sanno di non essere rilevati neanche dai satelliti e dai droni della NATO.“

L’altro argomento a cui ho pensato, mentre mi sono seduto per un primo incontro, era la differenza che tre decenni possono fare. Mentre me ne stavo lì, ho ricordato la mia visita con l’ex leader della gioventù di Fatah, Salah Tamari, che aveva fatto un buon lavoro nel campo di prigionia israeliano ad Ansar, nel sud del Libano, durante l’aggressione del 1982, come negoziatore eletto dai suoi compagni. Tamari insisteva per fare entrare alcuni di loro nella nuova base dell’OLP, a Tabessa, in Algeria. Questo fu poco dopo che la leadership dell’OLP, erroneamente a mio giudizio, accettasse di evacuare il Libano nell’agosto del 1982, piuttosto che ingaggiare una difesa alla Stalingrado (certamente meno attesa di una inesistente Armata Rossa) e la leadership dell’OLP apparentemente accreditò le promesse dell’amministrazione Reagan di “uno Stato palestinese, garantito dagli americani entro un anno. Potete prenderlo alla banca“, secondo le parole dell’inviato statunitense Philip Habib. Apparentemente fiducioso verso Ronald Reagan per una qualche ragione, il leader dell’OLP Arafat mantenne la promessa scritta da Habib nel taschino della camicia, per mostrarlo ai dubbiosi, tra cui il suo vice, Khalil al-Wazir (Abu Jihad), e le donne, tra gli altri, dello Campo di Shatila, che avevano qualche perplessità verso i loro protettori, che li lasciavano partendo.

A Tabessa, da qualche parte nel deserto algerino, i già orgogliosi difensori dell’OLP erano essenzialmente inattivi e ingabbiati nel campo e, a parte alcune sessioni di allenamento fisico, si ritrovarono a trascorrere le loro giornate a bere caffè e a fumare, e a preoccuparsi per i loro cari in Libano, quando la notizia del massacro di Sabra e Chatila, organizzato da Israele nel settembre 1982, cadde sul campo di Tabessa come una enorme bomba, e molti combattenti respinsero gli ordini di Tamari e partirono per Shatila. Questo non è il caso degli sfollati libici in Niger. Hanno telefoni satellitari di ultimo modello, computer portatili e attrezzature migliori della maggior parte delle ricche agenzie di stampa che si presentavano negli alberghi dei media di Tripoli, negli ultimi nove mesi. Domanda di questo osservatore, “come avete fatto tutti ad arrivare e dove ti sei procurato tutte queste nuove attrezzature elettroniche, così in fretta?” mi è stato risposto con un sorriso muto e una strizzatina d’occhio da una ragazza con l’hijab, che avevo visto l’ultima volta ad agosto, mentre distribuiva comunicati stampa a Tripoli, all’Hotel Rixos, del portavoce libico, dottor Ibrahim Musa, a fine agosto scorso.

In quel giorno particolare, Musa stava dicendo ai media mentre era accanto al viceministro degli esteri Khalid Kaim, un amico di molti statunitensi e attivisti dei diritti umani, che Tripoli non sarebbe caduta in mano ai ribelli della NATO e che “abbiamo 6500 soldati ben addestrati, che sono in attesa di loro“. Come si è scoperto, il comandante dei 6500 era dalla parte della NATO ed istruì i suoi uomini a non opporsi alle forze ribelli che entravano. Tripoli cadde il giorno dopo, e il giorno dopo Khalid venne arrestato ed è ancora all’interno di una delle decine di carceri dei ribelli, mentre ci si appella ai suoi rapitori che non rispondono alle visite dei familiari, e mentre una team di legali internazionali, organizzato dagli statunitensi, sta negoziando una visita.

La LLF ha progetti militari e politici in corso. Una di questi è competere per ogni voto alle elezioni promesse per la prossima estate. Un membro dello staff che ho incontrato, ha il compito di studiare le elezioni in Tunisia, Egitto e altrove nella regione, per possibili applicazioni in Libia. Un altro comitato del LLF sta mettendo insieme una campagna di messaggi nazionalisti, più altre azioni specifiche per la campagna elettorale dei propri candidati, e per creare liste di raccomandazioni per i singoli candidati. Nulla è ancora deciso con certezza, ma un professore libico mi ha detto “di sicuro i diritti delle donne saranno un importante pilastro. Le donne sono inorridite dal presidente del CNT Jalil, che ha detto, cercando il sostegno di al-Qaida, che minaccia di controllare la Libia, che la poligamia è il futuro della Libia e che le donne resteranno a casa, se divorziate. La Libia è stata molto progressista nei diritti delle donne, come nei diritti dei palestinesi.” Aisha Gheddafi, l’unica figlia di Muammar, che ora vive nella vicina Algeria con i membri della famiglia, tra cui il suo bambino di due mesi, fu una forza importante nella promulgazione del 2010, al Congresso del Popolo, di maggiori diritti per le donne. Le è stato chiesto di scrivere un opuscolo sulla necessità di conservare i diritti delle donne, che sarà distribuito se le elezioni del 2012 effettivamente si concretizzeranno.

Mentre il loro paese è in sostanziale rovina, per i bombardamenti della NATO, il LLF pro-Gheddafi ha alcuni importanti vantaggi dalla sua parte. Uno sono le tribù che, durante la scorsa estate, hanno iniziato a opporsi alla NATO, mentre Tripoli cadeva prima che avviassero i loro sforzi che includevano una nuova Costituzione. Il LLF crede che le tribù possano essere fondamentali per ottenere il voto. Forse, una freccia anche più potente, nella faretra del LLF, mentre lancia la sua controrivoluzione, sono i 35 anni di esperienza politica dalle centinaia di Comitati del Popolo libici, da tempo stabilitisi in ogni villaggio in Libia, insieme ai Segretariati delle Conferenze del Popolo. Mentre attualmente sono inattive (messe al bando dalla NATO, a dire il vero) si stanno rapidamente raggruppando.

A volte, soggetti al ridicolo da parte di alcuni sedicenti “esperti” della Libia, i Congressi del Popolo, basati sulla serie di libri verdi scritta da Gheddafi, sono in realtà molto democratici e uno studio del loro lavoro rende chiaro che essi hanno sempre più funzionato non come semplici timbratori delle idee che uscivano dalle mura della caserma Bab al-Azizyah. Un segretario generale di uno dei Congressi, ora lavora in Niger, ha ripetuto ciò che a una delegazione occidentale è stato detto, alla fine di giugno, nel corso di una conferenza di tre ore presso la sede di Tripoli della Segreteria nazionale dei Comitati Popolari. Ai partecipanti furono mostrati le presenze e le votazioni, nonché ogni articolo votato, nel decennio passato, ed i verbali dei dibattiti del Congresso del popolo più recenti. Illustravano le somiglianze tra un Congresso del Popolo e il New England Town Meeting, in termini di popolazione locale che prende decisioni che riguardano la comunità, e un ordine del giorno aperto, in cui i ricorsi e le nuove proposte potessero essere fatte e discusse.

Questo osservatore, ha particolarmente apprezzato nei suoi 4 anni di rappresentante del Ward 2A di Brooklin, al Massachusetts Town Meeting, mentre al college di Boston, a volte sedeva accanto ai suoi vicini Kitty e Michael Dukakis. Sebbene entrambi abbiamo vinto un seggio alle elezioni, ho ricevuto 42 voti in più di Mike, ma lui è risorto politicamente, mentre si può dire che io sono affondato, seguendo i miei incontri con la Students for a Democratic Society (SDS), l’ACLU e le Pantere Nere, tutti in un semestre, quale studente dell’Università di Boston, a seguito di uno stimolante incontro con i professori Noam Chomsky e Howard Zinn, nell’ufficio di Chomsky al MIT.

I dibattiti del Town Meeting erano interessanti e produttivi e “Mustafa“, il Segretario Nazionale dei Congressi del popolo libico, che ha studiato alla George Washington University di WDC, e ha scritto una tesi di laurea sul New England Town Meeting, sosteneva che il suo paese ha modellato i suoi Congressi popolari su di essi. Purtroppo, “Mustafa” è anche lui, oggi, in carcerato dal CNT, secondo amici comuni.

Quali saranno i candidati del LLF alle elezioni, in realtà non è noto, ma alcuni suggeriscono che il Dr. Abu Zeid Dorda, che ora si sta riprendendo dal suo “tentativo di suicidio” (l’ex ambasciatore libico alle Nazioni Unite è stato gettato da una finestra al secondo piano, durante gli interrogatori del mese scorso, dagli agenti della NATO, ma lui è sopravvissuto di fronte a dei testimoni, così è ora ricoverato in reparto medico del carcere). Contrariamente alle storie dei media, Saif al-Islam non è sul punto di consegnarsi alla Corte penale internazionale e, come Musa Ibrahim, sta bene. Entrambi sono stati sollecitati a tenere un profilo basso, per ora, a riposare e a cercare di curare i familiari e i molti amici stretti delle vittime della NATO. Molti analisti giuridici e politici, pensano che la ICC non procederà in relazione alla Libia, per motivo delle contorte regole e struttura dell’ICC, e per l’incertezza nell’assicurare l’arresto dei sospetti ‘giusti’.

Qualunque cosa accada su questo argomento, se il caso va avanti, i ricercatori si prepareranno a riempire il tribunale dell’ICC con la documentazione sui 9 mesi di crimini della NATO, per le sue 23.000 sortite e i suoi 10.000 bombardamenti sui 5.000.000 di abitanti del paese. Alcuni osservatori della Corte penale internazionale sono incoraggiati dall’impegno di questa settimana del Procuratore del CPI, come riportato dalla BBC: “a indagare e perseguire eventuali reati commessi sia dai ribelli che dalle forze pro-Gheddafi, comprese quelli eventualmente commessi dalla NATO.”

Come vittima dei crimini della NATO, che il 20 giugno 2011 ha perso quattro dei suoi familiari, tra cui tre bambini piccoli, mentre cinque bombe MK-83 della NATO venivano sganciate bombe e due missili statunitensi sparati, sul compound di famiglia, in un fallito attentato contro il padre, un ex assistente del colonnello Gheddafi ha scritto a questo osservatore, ieri, dal suo rifugio segreto, “Questa è una buona notizia, se è vera“.

Mentre la NATO sposta la sua attenzione e i suoi droni sul Sahel, è possibile che i suoi nove mesi di carneficina contro questo paese e questo popolo, alla fine, non raggiungeranno i loro obiettivi.

 

(Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora)

 

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Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai – metà dell’umanità fa da contrappeso a USA e NATO

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Fonte: Global Research

Il 10° incontro dei leader dei governi della Shanghai Cooperation Organization (SCO), avrà luogo il 7 novembre a San Pietroburgo, in Russia. Il primo ministro del Pakistan parteciperà alla riunione su invito del primo ministro russo Vladimir Putin. L’Organizzazione, fondata nel 2001, si è evoluta in un meccanismo efficace, nel corso degli anni, permettendo ai suoi Stati membri di poter agire su questioni regionali strategiche e sullo sviluppo economico. I problemi della regione sono troppo strategici per essere risolti da un solo paese, senza la collaborazione di altri, da qui la necessità della creazione della SCO (originariamente conosciuto come Shanghai cinque) da parte di Cina e Russia.

L’ultima conferenza tenutasi in occasione del 10° anniversario della formazione della SCO, è stata ad Astana, in Kazakistan, il 15 luglio di quest’anno. La dichiarazione rilasciata al termine della conferenza, riguardava la strategia anti-droga e un piano d’azione per gli anni 2011-2016, le procedure e le condizioni per diventare membri della SCO e le relazioni sulle attività della organizzazione regionale dell’anti-terrorismo della SCO durante l’ultimo anno.

Fin dalla sua nascita l’organizzazione ha fatto molta strada in cui, prima di avere la giusta importanza da tutte le organizzazioni regionali e internazionali. Come succede con ogni organizzazione in formazione, ha affrontato molte sfide esterne e interne. Esternamente, i suoi concetti di sicurezza erano in contrasto con quelli della NATO e degli Stati Uniti. La SCO crede nel ‘non-allineamento, non-confronto e non ingerenza negli affari di altri paesi’, preferendo convincere i paesi a risolvere le loro differenze con mezzi pacifici. Gli Stati Uniti si basano ancora sul loro valore militare per realizzare la propria sicurezza, e così come quella dei loro alleati attraverso i mezzi militari. La SCO lavora per porre fine ai concetti da ‘guerra fredda’ e trascenderne le ideologie, a differenza degli statunitensi, che ancora li seguono. Internamente, mentre la Cina preferisce che la cooperazione economica sia la carta principale della SCO, la Russia preferisce che la SCO agisca come un blocco di sicurezza, al fine di soddisfare le esigenze di sicurezza dei suoi membri, derivante da un Afghanistan instabile e dalle ambizioni militari globali degli Stati Uniti.

Nel corso degli anni la SCO si è trasformata in una potenza regionale, mentre il mondo sta rapidamente trasformandosi da un unipolare a multipolare. Nel confronto con le altre organizzazioni regionali come la SAARC, la SCO ha guadagnato più peso nella regione. Si è aperta ad altri paesi della regione, con il Pakistan in prima linea nel diventare suo aderente. Con i progressi limitati della SAARC nello sviluppo della regione e dei suoi paesi membri, soprattutto a causa dell’intransigenza indiana, le speranze dalla SCO hanno costretto i responsabili politici pachistani a spostare l’attenzione verso l’alleanza della SCO, per una cooperazione più stretta con gli Stati dell’Asia centrale.

Il Pakistan aveva presentato domanda di piena adesione alla SCO nel 2006, l’Iran e l’India hanno seguito l’esempio nel 2007 e 2010 rispettivamente. Con il numero allargato dei componenti, la SCO si permetterà di svolgere un ruolo efficace nella regione dopo la partenza degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Il pantano dell’Afghanistan può essere risolto solo attraverso un accordo regionale, e la SCO può essere la piattaforma ideale per fare affrontare all’Afghanistan il diffuso terrore e gli scontri tra fazioni etniche per crearsi le loro aree di influenza, mentre gli Stati Uniti finiranno il loro mandato in Afghanistan. La situazione in Afghanistan ha già iniziato a peggiorare, e la richiesta degli Stati Uniti di cinque basi permanenti in Afghanistan dopo il 2014, aggraverà ulteriormente non solo la situazione della sicurezza afgana, ma anche l’ambiente regionale.

La percezione degli Stati dell’Asia centrale sul ruolo del Pakistan, riguardo la guerra al terrorismo e all’estremismo, è estremamente favorevole. La maggior parte di questi stati apprezzano il ruolo del Pakistan ed i sacrifici che ha speso per controllare il terrorismo e l’estremismo, e hanno assicurato al Pakistan il loro pieno sostegno nella sua ricerca di stato membro a pieno titolo della SCO. Pakistan, da parte sua, inoltre, non può permettersi di ignorare la dimensione della popolazione e dei mercati degli Stati dell’Asia centrale per il proprio sviluppo. Il Pakistan affamato di energia può guadagnarvi molto diventando un vero e proprio membro del raggruppamento. Gli investimenti bilaterali nel raggruppamento, soprattutto nel settore energetico, hanno superato un totale enorme di 15 miliardi di dollari USA. Le riserve di gas della Russia, degli Stati dell’Asia centrale e dell’Iran costituiscono il 50% delle riserve mondiali, con l’attenzione immediata del governo sulla questione energetica, che ha praticamente bloccato l’economia del Pakistan.

Il Pakistan, divenendo membro della SCO può realizzare pienamente le potenzialità dell’organizzazione collegando cinesi e gli Stati asiatici centrali con i paesi del Golfo e dell’Asia meridionale. A tal fine, il Pakistan ha già offerto il suo Porto di Gwadar e altre vie di terra. Il Pakistan oggi sta attraversando un momento difficile della sua storia, mentre si sforza di eliminare l’intolleranza, il terrorismo e l’estremismo dal suo stesso tessuto. I paesi della SCO sono anche vittime del fenomeno terroristico, in una forma o nell’altra, e come tale, attraverso sforzi collettivi, il Pakistan può contribuire enormemente negli sforzi dell’organizzazione per sradicare queste tendenze che minacciano la loro sicurezza.

Con l’incorporazione di India e Pakistan, questa organizzazione unica avrà quattro potenze nucleari (due riconosciute e due ancora da riconoscere), un paesaggio pieno di risorse energetiche e di risorse minerarie, accogliendo metà della comunità globale, ha tutti gli ingredienti per svolgere un ruolo importante negli affari del mondo, mantenendovi l’equilibrio. L’ascesa della SCO, sia come gruppo di sicurezza che come entità economica, rispecchia la necessità dei paesi membri della SCO a mantenere gli USA e la Nato lontano dall’interferire nei loro rispettivi domini, senza sfidarli direttamente. Questo può essere fatto solo con l’ampliamento del gruppo, comprendendo altri importanti paesi regionali come il Pakistan.

 

(Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora)

 

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Census delle Nanotecnologie a Milano e NanotechItaly2011 a Venezia

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III Census delle Nanotecnologie a Milano e NanotechItaly2011 a Venezia

L’AIRI – Associazione Italiana per la Ricerca Industriale presenta due importanti iniziative dedicate alle nanotecnologie che si terranno in novembre a Milano e a Venezia.

14 novembre 2011, Milano

Realtà e potenzialità del nanotech in Lombardia
Analisi della situazione a partire dal
Terzo Censimento delle Nanotecnologie in Italia curato da AIRI / Nanotec IT

Sala conferenze della Camera di Commercio di Milano, Palazzo Turati, Via Meravigli 9/b, Milano.
Ingresso gratuito previa iscrizione.

I partecipanti al convegno hanno diritto ad uno sconto del 40% sul prezzo di acquisto del Censimento.

Programma e modalità di iscrizione

23 – 25 novembre, Venezia

NanotechItaly 2011 è il convegno internazionale organizzato congiuntamente da AIRI/Nanotec IT, Veneto Nanotech, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e l’Istituto Italiano di Tecnologia, in collaborazione con Federchimica, il Politecnico di Torino (Latemar Research) e Assobiotec-Federchimica, e costituisce l’appuntamento annuale dedicato alle nanotecnologie al quale partecipano rappresentanti delle più importanti realtà italiane impegnate nel settore ed esperti di fama riconosciuta provenienti da vari Paesi.

Per maggiori informazioni visiti il sito dell’evento: www.nanotechitaly.it

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