Quantcast
Channel: Perù – Pagina 149 – eurasia-rivista.org
Viewing all 68 articles
Browse latest View live

La Grande Guerra nel mare Adriatico

$
0
0
Quando parliamo di Grande Guerra, la prima cosa che viene alla mente sono le carneficine consumatesi sul fronte dolomitico e sull’altipiano carsico.
Se poi pensiamo alle vicende marittime, la memoria va alle incursioni dei MAS, ma in realtà, specialmente nel mare Adriatico, hanno avuto luogo vicende ben più articolate. Una serie di recenti pubblicazioni ha cominciato ad informare il pubblico italiano in merito a tali vicende. La più recente di tali pubblicazioni si deve a Orio di Brazzano che ha dato alle stampe un’opera cospicua e di piacevole consultazione.

Venerdì 11 novembre alle ore 18:00, presso la sede della Lega Nazionale di Trieste (via Donota, 2 – terzo piano) verrà presentato il volume La Grande Guerra nel mare Adriatico, Luglio Editore.

Interverranno Lorenzo Salimbeni, dottorando di ricerca in Storia contemporanea e dirigente della Lega Nazionale, ed Orio di Brazzano, autore del libro ed appassionato di storia della Prima Guerra Mondiale.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il linciaggio di Gheddafi: il ritorno del sacrificio umano

$
0
0
Il trattamento del cadavere di Muhammar Gheddafi è stato indicativo della tragedia vissuta dal popolo libico. La sua salma è stata oggetto di un trattamento doppiamente d’eccezione, di una doppia violazione dell’ordine simbolico in cui si inserisce questa società. Invece di essere inumato il giorno stesso, come prevede il rito musulmano, il suo cadavere, al fine di essere lasciato sotto gli occhi dei visitatori, è stato esposto per quattro giorni in una camera fredda. A tale esibizione è poi seguita la sepoltura in un luogo segreto, malgrado la richiesta di avere indietro il cadavere fatta all’ONU dalla moglie. Questa doppia decisione del nuovo potere libico inserisce la popolazione in una situazione già trattata dalla tragedia greca. Impedendo alla famiglia di inumare il corpo, il nuovo potere politico si sustituisce all’ordine simbolico. Sopprimendo ogni articolazione della “legge degli uomini” e della “legge degli dei” il CNT le fonde e si arroga il monopolio del sacro. Inoltre, si pone al di sopra della politica. La decisione del CNT di non permettere alla famiglia di svolgere i funerali e quella di esibire il cadavere hanno come risultato la soppressione del significato del corpo, così da non mostrare altro che la sola immagine della morte.

Ciò significa che la pulsione, e l’ordine di gioire dell’immagine della morte di Gheddafi, non possono incontrare alcun limite. L’esposizione del corpo non è che un elemento della sua feticizzazione. L’essenziale si trova nelle immagini del linciaggio di Gheddafi. Riprese dai GSM, monopolizzano lo spazio mediatico e ritornano di continuo. Intrusive, appaiono in tempo reale nella nostra vita quotidiana. Ci catturano. Ci dicono molto, non sul conflitto di per sé, ma sullo stato delle nostre società, oltre che sul futuro programma della Libia: una guerra permanente. Queste immagini hanno la funzione di un sacrificio, quello di un capro espiatorio. Ci introducono nella violenza mimetica, vale a dire in un ciclo di pulsioni, la ripetizione della messa a morte del male in persona. Si torna quindi indietro nella storia umana, recuperando uno stadio dove il sacrificio umano occupava un ruolo centrale, definito dalla legge. Qui, l’esigenza di gioire soppianta la politica, la pulsione rimpiazza la ragione. L’esempio più significativo ci è dato dall’ intervista di Hilary Clinton, che accoglie queste immagini come un’offerta. Ilare, esalta tutta la propria potenza e dà mostra di tutto il suo giubilo in seguito al linciaggio: “Siamo venuti, abbiamo visto, e lui [Gheddafi] è morto!”, ha dichiarato al microfono del canale televisivo CBS.

La violenza inflitta al capo di Stato libico è inoltre, per gli altri dirigenti occidentali, un momento propizio per esprimere la propria soddisfazione e gioire della riuscita della propria iniziativa. “Non dovremo più versare lacrime per Gheddafi”, ha dichiarato Alain Juppé. I media ci confermano che “i dittatori finiscono sempre come lui”. Il linciaggio diviene la prova stessa che il suppliziato fosse un dittatore. La violenza dell’omicidio, perpetrato dai “liberatori”, ci mostra che si tratta di una meritata vendetta. Ciò attesta che i suoi autori non sono altro che delle vittime. Le prese di posizione dei nostri dirigenti politici, in seguito alla diffusione di queste immagini, ci confermano che l’obiettivo di questa guerra fosse senz’altro l’eliminazione di Gheddafi, e non la protezione della popolazione. La violenza di quest’ultimo è consistita sostanzialmente nel fatto che non ha abbandonato il potere, quand’era inconcepibile che restasse. La sua immagine ha incarnato la tirannia, giacché egli non ha attirato l’amore dei dirigenti occidentali verso le popolazioni libiche. “Egli [Gheddafi] si è comportato in maniera troppo aggressiva. Aveva ottenuto delle buone condizioni per arrendersi, ma le ha rifiutate”, ha aggiunto Juppé. Il corpo straziato è diventato un’icona. I segni della violenza fanno apparire l’invisibile. Queste stigmati ci mostrano ciò che non avevamo potuto vedere: la prova che il massacro sia stato perpetrato da Gheddafi. Essi sono una rivelazione delle sue intenzioni, in nome delle quali la NATO ha giustificato il proprio intervento. Così è stata creata un’identità nei massacri attribuiti al colonnello e al suo cadavere sanguinolento. Le ferite sul corpo vivente, in seguito sulla salma, non rappresentano la violenza dei “liberatori”, ma portano i segni del sangue versato per Gheddafi. Le immagini dell’atto sacrificale permettono ai nostri dirigenti di esibire un potere illimitato. Il ministro della Difesa francese, Gérard Longuet, ha rivelato che l’aviazione francese, su richiesta dello stato maggiore NATO, ha “fermato”, vale a dire bombardato, il convoglio in fuga al bordo del quale si trovava Gheddafi. Egli rivendica inoltre una violazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. In questa occasione, Alain Juppé ha riconosciuto, inoltre, che l’obiettivo dell’invasione era di mettere il CNT al potere: “l’operazione, ora, deve avere termine, poiché l’obiettivo che ci eravamo prefissi, e cioè accompagnare le forze del CNT nella liberazione del loro territorio, è ormai raggiunto”.

La morte di Gheddafi, questo atto di “vendetta delle vittime”, ha portato conseguenze che non saranno giudicate. Questo assassinio va incontro agli interessi delle compagnie petrolifere e dei governi occidentali. I loro rapporti intimi con il regime del colonnello non verranno mai resi pubblici. La sostituzione delle immagini del linciaggio all’organizzazione di un processo davanti alla Corte penale internazionale ha soprattutto come conseguenza che, invece di essere fermata dalla parola, la violenza diventa infinita.

La Libia, come l’Iraq e l’Afghanistan, diventerà lo scenario di una guerra perenne.

Quanto ai nostri regimi politici, essi si rafforzano in uno stato di instabilità permanente. Ciò accompagna l’emergenza di un potere assoluto, in cui l’atto politico si posiziona al di là dell’ordine di diritto. Un intervento militare, ingaggiato in nome dell’amore dei dirigenti occidentali per le popolazioni vittime di un “tiranno” e magnificato dall’ esibizione del sacrificio di quest’ultimo, rivela una regressione delle nostre società verso la barbarie.

I lavori etnologici, come la psicanalisi, ci hanno mostrato che il sacrificio umano attua un ritorno a una struttura materna.

L’amore e il sacrificio sono gli attributi di una organizzazione sociale che non distingue più l’ordine politico da quello simbolico.

Questi sono i paradigmi di una società matriarcale che realizza il fantasma primordiale dell’unificazione alla madre, in questo caso la fusione dell’individuo con il potere.

Jean-Claude Paye – sociologo, autore di De Guantanamo à Tarnac: L’emprise de l’image, Editions Yves Michel, ottobre 2011.

Traduzione a cura di Alessandro Parodi

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

La stabilità del Golfo dipende dal Bahrain

$
0
0

Le proteste scoppiate in Bahrain dal febbraio 2011 si collocano nella specificità endemica della storia politica e socio-religiosa del regno, legate da un fil rouge alle manifestazioni che dall’indipendenza, avvenuta nel 1971, sono condotte dall’opposizione sciita, in dissenso con la politica settaria del governo, gestita dalla famiglia regnante degli Al-Khalifa.

Il 14 febbraio in alcuni villaggi sciiti poco lontani alla capitale Al-Manamah è esplosa la protesta di carattere spontaneo e non coordinato, mentre la grande manifestazione nazionale organizzata, ha avuto luogo il 17 febbraio, quando migliaia di cittadini si sono radunati nella piazza centrale della capitale, la Piazza della Perla (Midan al-Lulu), avanzando al governo la annosa rivendicazione di riforme socio-politiche, per poi essere repressi brutalmente dalle forze di polizia.

Nello specifico le richieste di apertura politica avanzate dalla popolazione hanno riguardato la formazione di un parlamento maggiormente rappresentativo, una nuova costituzione, il rilascio dei prigionieri politici e maggiori opportunità economiche.

È utile sottolineare, fin da subito, che benché i manifestanti fossero per la maggioranza sciiti, essendo essi il gruppo religioso più numeroso in Bahrain, e anche il più discriminato (sin dal 1971 la comunità sciita viene ripetutamente accusata dal governo di essere la quinta colonna del potere iraniano), le rivendicazioni hanno avuto il carattere nazionalista dell’unità tra sunniti e sciiti, i quali rivendicano i propri diritti in quanto cittadini bahreiniti1.

Le manifestazioni e gli scontri tra popolazione e le forze di polizia bahreinite hanno radici profonde nella storia del piccolo regno, e per comprendere appieno l’importante risvolto che le rivolte popolari del 2011 potrebbero apportare a livello geopolitico regionale e internazionale, è necessario indagare brevemente nella storia politica e socio-economica del Bahrain.

Contesto socio-economico e politico.

Il regno del Bahrain (lett. in arabo “Regno dei Due mari”) è un piccolo arcipelago governato dal 1783 dalla famiglia musulmano sunnita degli Al-Ḫalifa, la quale riuscì a riscattare il potere sul territorio allontanandosi dall’ingerenza persiana e riparandosi sotto l’ala britannica, a seguito di accordi commerciali che hanno trasformato il regno in un protettorato britannico.

Dal 1971, anno del ritiro inglese, il Bahrain è formalmente uno stato indipendente, protetto dall’ombrello militare statunitense.

La popolazione è di un milione e 200mila cittadini, per l’81,2% musulmani (di cui il 65-70% sciiti).

Il Bahrain, data la sua posizione geografica, ha sempre avuto un’importanza strategica primaria per il commercio internazionale, la cui fortuna economica è derivata, prima della scoperta del petrolio, dalla pesca delle perle.

La produzione petrolifera, iniziata nel 1932, è nettamente inferiore rispetto agli altri paesi produttori di petrolio del Golfo, e per questo il Bahrain ha avuto la necessità di diversificare la propria economia più degli altri.

La diversificazione e le riforme economiche si sono rese necessarie per diversi fattori: tra i più importanti si inquadrano l’esaurimento delle risorse petrolifere e la pressione demografica interna ( la popolazione tra i 15 e i 64 anni è il 70%, di cui il 15% disoccupato).

La diversificazione economica ha riguardato l’industria pesante, soprattutto la produzione di alluminio (attraverso la Aluminium Bahrain), il ferro e l’acciaio; l’industria manifatturiera e soprattutto i servizi finanziari (che corrisponde al 27,6% del PIL) e il turismo. Il Bahrain attualmente è il paese del Golfo che possiede l’economia più diversificata, in competizione con la Malesia per assurgere a centro finanziario islamico mondiale. La costruzione di un “porto” finanziario per le maggiori economie, mostra la chiara ambizione di costituirsi come “business friendly” e di essere esso stesso un modello di offshore commerciale.

Le riforme strutturali, invece, hanno interessato la privatizzazione dei settori delle comunicazioni e del trasporto pubblico, nonché l’apertura agli IDE (Investimenti Diretti Esteri) e la costituzione di dieci Free Trade Zones. Imponenti sono stati gli accordi commerciali con altri paesi, come il Qatar, con il quale il Bahrain ha iniziato nel 2009 la costruzione del “Ponte dell’amicizia”, in conclusione entro il 2015. Ancora più importante dal punto di vista degli investimenti strategici è stato, però, l’accordo bilaterale di libero scambio (Free Trade Agreement) con gli Stati Uniti, firmato nel 2006, che ha rassicurato gli statunitensi circa l’alleanza e la lealtà del Bahrain.

A conferma dell’attenzione posta dal Consiglio per lo Sviluppo Economico (Maǧlis al-Tanamiya al-Iqtisadiya), l’istituzione governativa che organizza le strategie di diversificazione economica, nel 2009 il settore petrolifero ha contribuito al PIL per il 10%, mentre quello finanziario del 30%2.

Questo nuovo clima economico è stato inaugurato nel 2001 dall’attuale re Hamad bin Isa Al-Khalifa (salito al trono nel 1999), insieme al programma di riforme istituzionali di apertura politica, in risposta alle rivolte e agli scontri condotti dalla popolazione durante gli anni ’90. Infatti, tra il 1994 e il 1999, si sono verificati scontri la cui causa sottesa principale era il rifiuto della famiglia regnante, rappresentata dalla figura del re Isa bin Salman Al-Khalifa e del Primo Ministro Šaikh Khalifa bin Salman Al-Khalifa in carica dal 1971, di promuovere una effettiva partecipazione politica della popolazione nonché la privazione economica e la discriminazione della popolazione sciita.

La leadership degli oppositori era composta da religiosi sciiti e laici: bahreiniti esiliati a Londra, che avevano formato il Bahrain Freedom Movement e gli esiliati in Iran, raggruppati nel Fronte Islamico di Liberazione del Bahrain.

In realtà, i primi scontri tra l’opposizione sciita e le forze di polizia avevano avuto luogo già nel 1975, quando il governo decise di sopprimere l’Assemblea Nazionale, creata nel 1973, e di bandire i partiti politici, per accentrare il potere nelle mani della famiglia regnante, e condurre la politica nazionale in modo informale. Soprattutto a seguito della rivoluzione iraniana del 1979, il governo della famiglia Al-Khalifa ha tacciato gli oppositori sciiti di essere sostenuti e radicalizzati dall’Iran, accuse ripetute fino ad oggi. Allora, come nel 1994 e nel 2011, infatti, le proteste sono sorte nei villaggi sciiti vicini la capitale, e l’epilogo è stato una repressione violenta da parte delle forze di polizia.

Nel 1995 sono cominciate le espulsioni di alcuni religiosi sciiti, tra cui Šaikh Ali Salman attuale leader di Al-Wefaq, il principale partito di opposizione sciita, nonostante abbiano avuto luogo prove di dialogo con il governo, al quale gli sciiti chiedevano il rilascio dei prigionieri, il ritorno degli esiliati e una trattativa circa le richieste politiche, in cambio dell’interruzione delle violenze.

Nel 1999 è succeduto al trono l’erede Hamad bin Isa Al-Khalifa, il quale ha mostrato la volontà di intavolare un dialogo nazionale con la popolazione, affinché la violenza fosse placata. Come era accaduto con il passaggio di potere tra Hafez e Bashar Al-Assad in Siria, anche in Bahrain i cittadini riponevano grandi speranze di progresso caratterizzato da un’apertura politica in direzione della democrazia, guidata da un giovane regnante attento alle richieste e ai bisogni della popolazione.

D’altra parte, il supporto concesso alla popolazione era necessario per il nuovo re affinché si mostrasse forte e autonomo rispetto al Primo Ministro che controllava effettivamente il potere politico e economico. Egli, infatti, con la morte del re Isa Al-Khalifa, aveva aumentato il proprio peso politico all’interno del circolo di potere familiare, e la competizione per il potere all’interno della famiglia regnante non si è mai sopita. Ciò è stato dimostrato nel 2008, quando per cercare di contenere il potere di Šaikh Khalifa è stato rimosso il ministro della Difesa sostituito dal principe ereditario Salman bin Hamad bin Isa Al-Khalifa, ed è stata introdotta una nuova legge che incrementava i ministri da 6 a 16, senza il parere del Primo Ministro.

La via intrapresa dal nuovo re è stata quella dell’apparente sostegno alle richieste mosse dai suoi sudditi: la riforma democratica del re Hamad è iniziata nel 2001, attraverso l’approvazione referendaria della Carta Nazionale (Al-Dustur), accettata dalla stragrande maggioranza della popolazione con l’89% dei voti favorevoli, che doveva trasformare il Bahrain in una monarchia costituzionale. Al suo interno sono stati stabiliti i ruoli delle due camere del Parlamento: il Consiglio dei Rappresentanti, il Maǧlis Al-Nuwab, con potere legislativo, composto da 40 membri eletti attraverso il suffragio universale, e il Consiglio Consultivo, il Maǧlis al-Šura, composto anch’esso da 40 membri ma nominati dal re. Il supporto per una monarchia costituzionale a legislatura eletta proveniva anche dai leader religiosi sciiti, che guardavano alla riforma come uno sforzo di riconciliazione tra il governo e la comunità sciita.

L’adozione della Carta è stata una vittoria politica strategica per il re Hamad, ma non prevedeva alcun ruolo di potere decisionale delle opposizioni, rappresentate principalmente dal partito sciita Al-Wefaq, tuttora il maggior partito di opposizione, e dal Al-Waʿad di ispirazione socialista. Inoltre nella Costituzione era previsto il potere esercitabile dal re di sciogliere il Parlamento e di porre il veto alle leggi dell’Assemblea Nazionale, il Maǧlis Al-Watani: il disegno della costituzione si presentava come un atto unilaterale senza trasparenza, che salvaguardava il potere tribale tradizionale degli Al-Khalifa e che preveniva, de jure, ogni futuro cambiamento da parte del Parlamento.

Nel 2002, sulla scia delle riforme democratiche, si sono tenute le elezioni municipali, le prime a suffragio universale attivo e passivo, vinte dal partito di opposizione sciita Al-Wefaq, il quale però ha boicottato le successive elezioni parlamentari, a causa delle predisposizioni costituzionali sul ruolo legislativo del Maǧlis Al-Šura e della suddivisione dei distretti elettorali, ripartiti in 12 municipalità nei 5 governatorati.

Queste elezioni, che dovevano essere il test di legittimità politica e sociale del re, hanno in realtà mostrato il fallimento della riforma democratica

Le seconde elezioni parlamentari hanno avuto luogo nel 2006 e, questa volta, Al- Wefaq si è presentato vincendo 18 seggi, nonostante al suo interno si fosse verificata una scissione tra coloro che rifiutavano la legittimità costituzionale, che costituirono il gruppo Al-Haqq, e i moderati, guidati dallo Šaikh Ali Salman.

Il nodo problematico principale è sempre stato il settarismo, in Bahrain: esso infatti è l’unico paese del Consiglio di Cooperazione del Golfo in cui gli sciiti sono la maggioranza della popolazione, ma sono esclusi dalle più importanti cariche pubbliche, come l’impiego nelle forze armate e di polizia e nel lucroso settore bancario. Il governo, per riequilibrare le percentuali socio-religiose, ha invitato e naturalizzato molti musulmani sunniti provenienti da altri paesi islamici (tra cui il Pakistan), affinché lavorassero nelle forze di sicurezza, assicurandosi così la lealtà e l’efficienza dei militari.

Il carattere settario e economico del Bahrain ha influenzato negativamente le condizioni per lo sviluppo di una classe media borghese: non si è verificato lo sviluppo del settore commerciale privato e la classe media stenta ad avere potere per combattere per un cambiamento politico.

Risvolti geopolitici regionali e internazionali della stabilità del Bahrain

Gli scontri tra la popolazione e le forze di polizia bahreinite, iniziate il 17 febbraio sulla scia delle rivolte popolari in Nord Africa, hanno fatto sobbalzare più di un capo di Stato, non solo arabo.

La centralità strategica e la stabilità del “Regno dei due mari” nel Golfo è motivo di interesse per diversi attori internazionali, primi fra tutti Stati Uniti e Arabia Saudita, e le conseguenze geopolitiche dell’instabilità del Bahrain potrebbero riflettersi a livello regionale e internazionale.

Il Bahrain è baluardo della strategia militare statunitense nella regione, avendo gli Stati Uniti posizionato la V flotta della US NAVY, nel 1995, in funzione di copertura e di controllo del Mar Rosso e del Golfo persico-arabico. Attualmente la base navale statunitense, oltre che necessaria per le missioni in Iraq e Afghanistan, si presenta come strumento di deterrenza e di contenimento verso un Iran con ambizioni nucleari. La preoccupazione destata da un aggressivo Iran non riguarda solamente le mire nucleari, ma anche la minaccia del blocco dello Stretto di Hormuz, nel quale transita il 20% del petrolio mondiale. L’imbarazzo americano si è palesato nella cautela delle posizioni adottate nei confronti gli eventi iniziati a metà febbraio: anche in questo caso, come per l’Egitto, hanno rinunciato ad agire da registi delle crisi politiche, districandosi come equilibristi nelle trame della diplomazia.

La retorica della missione di esportazione della democrazia del mondo ha portato gli Stati Uniti a chiedere agli Al-Khalifa di intavolare un dialogo con i manifestanti e di iniziare un processo di riforme politiche ed economiche, avvertendo che l’ingerenza iraniana negli affari interni sarebbe dipesa dalla capacità, o meno, della famiglia regnante di soddisfare le richieste della maggioranza sciita. Infatti, sebbene le manifestazioni non siano state fomentate dagli iraniani (nonostante le accuse dell’Arabia saudita e degli stessi Al-Khalifa), questi potrebbero intervenire in Bahrain attraverso il sostegno agli sciiti, permettendo la realizzazione della più grande paura degli USA e dell’Arabia Saudita stessa.

Il paese che più di tutti si è esposto per la difesa della casa regnante degli Al-Khalifa, è stato l’Arabia Saudita. Il governo saudita è fortemente preoccupato di un dilagare della protesta sciita nel suo territorio, data anche la vicinanza geografica del Bahrain con la costa orientale saudita, regione in cui vive la popolazione sciita che rappresenta una consistente minoranza saudita e in vi cui si trovano le più grandi riserve petrolifere del paese, resa ancor più vicina a seguito della costruzione del Ǧisr al-Malik Fahd.

L’obiettivo primario in politica estera della casa Al-Saud è sempre stato quello di osteggiare e contenere la spinta sciita proveniente dall’Iran, che porterebbe instabilità interna, ma ciò si configura nel progetto più ampio di legittimazione politico-religiosa in tutto il mondo islamico sunnita, di custode dei due luoghi sacri di Mecca e Medina e di difensore del vero Islam.

Alla luce del timore di un contagio micidiale per la stabilità interna, l’Arabia Saudita ha fomentato la repressione dell’opposizione da parte degli Al-Khalifa, fino a prendere in mano la situazione inviando nel piccolo arcipelago (considerato “cortile di casa”) mille soldati, affiancati da altri 500 provenienti dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar. Il contingente militare, inviato il 14 marzo, opera sotto la bandiera della Peninsula Shield Force, le forze militari del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui sono membri Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Oman).

L’intervento, da una parte, ha consentito all’Iran di ergersi a difensore degli sciiti, attraverso la richiesta di immediato ritiro delle forze militari. Dall’altra ha mostrato la volontà e la capacità del Consiglio di Cooperazione del Golfo di agire non più come docile alleato degli Stati Uniti ma di essere riconosciuto come attore autonomo nelle decisioni.

L’organizzazione militare del CCG nasce già nel 1984, quando venne costituita la Peninsula Shield Force come inter-force di difesa collettiva, a seguito dello scoppio del conflitto Iraq-Iran.

L’intervento in Bahrain si pone come dettato dagli interessi geostrategici sauditi, in funzione anti-iraniana, ma è anche uno smacco all’inazione della Lega Araba, grande assente negli eventi. Le prossime misure devono essere gestite meticolosamente, poiché una rapida “exit strategy” potrebbe far pensare ad una vittoria delle forze di opposizione sciite, ma una lunga permanenza potrebbe inasprire le reazioni dell’Iran.

La crisi del Bahrain ha segnato una svolta negativa nelle relazione tra i due grandi alleati, Stati Uniti e Arabia Saudita: già il precedente appoggio americano all’opposizione egiziana e il conseguente abbandono del fedele alleato Mubarak, aveva provocato disappunto agli Al-Saud. Ora, la richiesta agli Al-Khalifa di negoziare e trovare un accordo nazionale con l’opposizione sciita ha portato i sauditi ad agire autonomamente, seppur con il beneplacito assenso degli americani, in Bahrain. D’altra parte gli americani non hanno accolto benevolmente l’intervento armato saudita e lo scarso rispetto dei diritti umani nel paese.

La stabilità interna è il tema preponderante nell’agenda politica saudita, anche alla luce della recente morte dell’erede al trono, Sultan bin Abdullah ʿAzizi Al-Saud. Infatti il prossimo erede al trono, per la prima volta nella storia del regno, sarà scelto dal Consiglio di fedeltà creato nel 2006, benché non ci si possa che aspettare l’elezione dell’attuale Ministro degli Interni e secondo vice premier, il principe Nayef.

Per quanto riguarda il CCG, si potrebbe parlare di una nuova fase dell’organizzazione, che si è evoluta da istituzione con compiti volti esclusivamente al coordinamento economico tra gli stati membri, a organismo che possiede anche un’agenda politico-militare di difesa comune.

Un altro attore si affaccia interessato sulla scena bahreinita, il Pakistan, per il quale si prospetta una nuova stagione politica, essendo stato nominato membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per gli anni 2012-2013, insieme al Marocco.

La visita del Ministro degli Esteri del Bahrain, Šaikh Khalid Al-Khalifa, ha segnato dei risvolti interessanti. Il colloquio, che ha coinvolto il presidente pakistano, Asif ali Zardari, il Primo Ministro Gilani e il Ministro degli Esteri, era incentrato sulla richiesta di cooperazione nel settore della difesa, che il Pakistan ha favorevolmente accolto. Appoggiando l’intervento saudita nel regno, il Pakistan ha mostrato tutto l’interesse per mantenere salda la stabilità del Bahrain: a livello di politica interna, vede favorevole la possibilità di allargare l’intesa con il Bahrain per permettere l’impiego di propri cittadini espatriati, forniture di petrolio agevolate e aiuti finanziari per l’economia in crisi. In realtà il paese sta camminando su un terreno scivoloso, in quanto al suo interno vive una forte minoranza sciita, e la presa di posizione in favore di un governo sunnita, filo-occidentale e discriminatorio nei confronti degli sciiti, potrebbe fomentare delle tensioni intra-religiose.

Tutto fa prospettare una nuova congiuntura politica-religiosa, che si ricollega all’invito formale da parte del CCG a Giordania e Marocco, quasi a voler formare uno scudo musulmano sunnita, una linea di faglia intra-religiosa volta a protezione dalla minaccia esterna iraniana, e un filo conduttore di aiuti e cooperazione contro quella interna.

Intanto in Bahrain il 24 settembre e il 1 ottobre si sono svolte le elezioni a doppio turno per l’attribuzione dei 18 seggi vacanti dell’opposizione di Al-Wefaq al Maǧlis al-Nuwab. I posti furono abbandonanti dai rappresentanti a fine febbraio, per protesta contro gli esigui compiti attribuiti alla Camera dei Rappresentanti e la violenza esercitata sui manifestanti.

Tra il primo e il secondo turno, il governo aveva approvato una raccomandazione per rivedere il sistema delle circoscrizioni elettorali e per trasferire alcuni poteri dal Consiglio Consultivo, il Maǧlis Al-Šura, al Consiglio dei Rappresentanti. Queste riforme, da sempre richieste dall’opposizione, si inquadrano nelle raccomandazioni elaborate in seno al Dialogo Nazionale, intavolato dell’erede al Trono, Salman bin Hamed, sospinto per volontà della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Al-Wefaq ha però abbandonato il tavolo negoziale, dal momento che il governo non ha accettato come base del dialogo le sue richieste: il rilascio dei prigionieri, un parlamento democraticamente eletto con pieni poteri esecutivi e una legge elettorale equa. Le rivendicazioni sono assolutamente legittime da un punto di vista democratico, e se fossero accolte potrebbero evitare un inasprimento della situazione interna e internazionale. Per uscire dalla situazione di impasse, il governo dovrebbe prendere coscienza del fatto che non è possibile adottare la strategia della carota e del bastone (prima regalando denaro, 2650$ a famiglia, per poi reprimere nel sangue le proteste). È necessario un compromesso con le opposizioni, benché la famiglia regnante sia diventata lo spauracchio di sé stessa: la popolazione ha perso fiducia in un governo che ha utilizzato le forze armate, provenienti addirittura da altri paesi, contro il suo stesso popolo, e questo è motivo di preclusione di ogni possibile negoziazione politica.

*Francesca Blasi laureata in Lingua e Civiltà araba presso la facoltà di Studi Orientali dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.

1 Osservatorio di politica internazionale – Mediterraneo e Medio Oriente – n°6 gennaio/marzo 2011 www.parlamento.it

2 U.S. Department of State www.state.gov

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il significato della morte di Gheddafi per la Russia e la sfida della Siria

$
0
0
Valerij Rashkin è segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista della Federazione Russa e deputato alla Duma di Stato. Antonio Grego lo ha intervistato per noi in esclusiva l’8 novembre scorso, a margine di una tavola rotonda sul tema “La personalità e l’eredità politica di Muammar Gheddafi” svoltasi a Mosca. Rashkin ha parlato di come la guerra in Libia, la morte di Gheddafi e le minacce alla Siria pesino sulla strategia internazionale della Russia.

Antonio Grego – Quanto è importante la morte di Gheddafi per il vostro partito e per la Russia in generale?

Valerij Rashkin – In primo luogo penso che questa sia una tragedia. Una tragedia non solo per il popolo libico, ma una tragedia di carattere globale. Leader come Gheddafi, credo che è necessario proteggere ovunque, nell’intero globo. Bisogna studiare la sua storia, leggere i suoi scritti e maledire tutti quelli che hanno commesso questa sconsiderata aggressione e avventura. In secondo luogo si deve imparare la lezione che viene da questa esperienza ovvero che la NATO e gli Stati Uniti non amano i Paesi con una forte politica sociale e una forte rete di sicurezza sociale per i deboli e la popolazione. E in terzo luogo che tutti coloro che hanno stima di sé, un sentimento di indipendenza politica per la loro Nazione, non hanno alcun diritto di rimanere in silenzio, hanno come esempio la lotta di Gheddafi e del suo popolo per trarre le dovute conclusioni e per prevenire tali avvenimenti nei loro Paesi, in ogni caso.

A.G. – Perché, secondo lei, l’Occidente ha deciso di invadere la Libia ed eliminare Gheddafi? Quale esempio rappresentava la Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare per il mondo?

V.R. – Credo che il golpe militare, che è stato organizzato in Libia, abbia portato il Paese ad una situazione di schiavitù. Gli Stati Uniti ed il loro blocco NATO oggi sono i poliziotti internazionali. Di ciò ne parla tutto il mondo. Questo gendarme usa il suo potere di intervento ovunque a piacimento. Ecco alcuni esempi: Afghanistan. Fanno entrare le loro truppe, e rimpiazzano la Russia e altri Paesi. L’esercito americano ha preso in custodia i campi dove cresce l’oppio. Adesso l’80% della droga coltivata su questi campi finisce nel nostro Paese, in Russia. E avvelena i nostri giovani. E stiamo perdendo ogni anno 226 mila giovani di età inferiore ai 25 anni, solo a causa del consumo di droghe. L’Iraq. Gli Stati Uniti avevano bisogno per se stessi delle risorse petrolifere di questo Paese e sono andati in guerra. Con la Yugoslavia hanno usato lo stesso schema. Lo stesso metodo da gendarmi. Gli stessi bombardamenti, la stessa guerra, persino gli stessi aerei.

L’assassinio di Gheddafi lo considero certamente un atto blasfemo e un crimine assoluto contro la comunità internazionale. Il leone ferito può essere preso a calci da uno sciacallo qualsiasi. E così è successo con Gheddafi. Quando è iniziato l’intervento armato, i bombardamenti, è rimasto ferito. Poi hanno iniziato a prendersi gioco di lui. Questo non è degno di esseri umani, è inumano. Questo gesto non rientra nella tradizione di questo Paese. Ma lo hanno fatto. In tutti i regolamenti internazionali, i leader di questo livello devono essere protetti e difesi, e poi essere condotti in vita davanti ad un tribunale. Questo era un uomo di tale grandezza ed è stato ucciso in modo vile e disgustoso. Quel sistema, che era stato costruito e tenuto in vita per più di 40 anni in quel Paese, era giudicato legittimo dalle popolazioni tribali che lì vivono. Perché? Vediamo in che consiste questo sistema e perché hanno ucciso Gheddafi e distrutto il sistema di governo che aveva creato.

Facciamo un parallelo con la Russia. In Libia, l’indennità di disoccupazione era di 730 dollari a persona. Se trasferiamo nella nostra valuta, si ottiene 22 mila rubli. A chi poteva piacere questo fra coloro che odiavano Gheddafi? Andiamo al salario medio, e questo per noi è esemplare. Lo stipendio di una infermiera in Libia era di almeno 1000 dollari. In Russia, un’infermiera riceve 7.000 rubli (circa 170 euro, n.d.r.). Potete immaginare? Gheddafi ha inoltre dato le seguenti disposizioni: per i nuovi sposi che vogliono comprare un appartamento lo Stato dava 64.000 dollari, che è pari a 1,9 milioni di rubli. Se si vuole intraprendere un’attività in proprio lo Stato regalava subito 20.000 dollari per lo sviluppo del proprio business. L’istruzione e la sanità in Libia erano gratuite. Oggi, se in Russia andate in qualsiasi ospedale vi chiedono soldi.

Le famiglie con molti figli in Libia potevano comprare i generi alimentari in apposite reti di negozi. Per loro si applicava un prezzo simbolico per l’abbigliamento dei bambini e per il cibo. Qui in Russia, in un qualsiasi negozio per bambini a volte le scarpe per bambini costano più di un intero vestito di un adulto. In Libia, si forniva supporto per la crescita della popolazione e ci si preoccupava per il futuro della nazione e il futuro del Paese. Gheddafi odiava i ladri e i truffatori. Per la contraffazione di medicinali c’era la pena di morte. È una cosa rude, crudele? Se ci fosse in Russia, chi dovrebbe per primo essere fucilato per contraffazione? Ne abbiamo un sacco di gente così. In Libia, non esisteva l’affitto. A chi in Occidente piace questo ordine di cose? Qui abbiamo fino al 50% del reddito familiare che viene usato per pagare le utenze e gli alloggi. In Libia l’energia elettrica era gratuita. E bisogna considerare che in Libia non c’è l’abbondanza di fiumi e impianti idroelettrici come in Russia, ma c’era l’elettricità gratuita. I prestiti per l’acquisto di auto e casa, in Libia, erano senza interessi. In qualsiasi banca in Russia, in USA e in Occidente, non troverete prestiti senza interessi per comprare un appartamento o una macchina. Da noi il mutuo ha un tasso che va dal 13 al 24 per cento, per non parlare delle percentuali per l’acquisto dell’auto. Gheddafi riteneva che in Libia dovessero essere vietati gli agenti immobiliari, e li proibiva. Odiava gli speculatori, e questa è proprio la teoria degli speculatori, la teoria dell’Occidente, la teoria degli imbroglioni e ladri che vivono su questo.

Naturalmente, credo che chiamare Gheddafi un tiranno è una questione inutile, l’Occidente e l’America, e tutta la NATO lo hanno chiamato tiranno. Credo che i tiranni siano coloro che siedono sul gas, sul petrolio e sulle risorse naturali che vengono sottratte al popolo e date in mani private. Io credo che Gheddafi debba essere considerato un eroe per come ha gestito il suo Paese. Il Paese era tranquillo, stabile, senza guerre, e questo non piaceva agli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’America, essa si inserisce ovunque. Ovunque ci sono divisioni, vi si trova necessariamente l’America. Siano esse in Europa, in Africa o in Asia. E la causa principale di questo sono le risorse naturali, il petrolio, il gas e i metalli. Il fatto è che gli statunitensi pensano che le risorse naturali del mondo siano di loro proprietà. E se vi ricordate di Cesare, anche lui era chiamato tiranno. Ma per una sola ragione: non permetteva che i senatori rubassero.

Molti Stati hanno debiti enormi con la Libia. Gheddafi ha introdotto una tale politica cioè quella di dare in prestito denaro e petrolio. Sia la Gran Bretagna che la Francia hanno accumulato enormi debiti con la Libia. Capisco perché sono stati eliminati quelli con i quali sono stati contratti i debiti e non quelli che sono in debito. Perché? Se Gheddafi e la Libia hanno prestato soldi all’Inghilterra e all’Occidente eliminando Gheddafi e il suo Paese non c’è più bisogno di onorare il debito. Quindi il blocco NATO ha preso di mira e distrutto questo Paese e tutti i loro debiti sono stati dimenticati. Questo è uno dei motivi per cui hanno distrutto la struttura della società che era sotto Gheddafi.

A.G. – Come dovrebbe comportarsi la Russia con la Siria e l’Iran, a suo parere, affinché non si ripeta lo stesso scenario visto in Libia?

V.R. – A mio parere, in Russia (e sotto il regime attuale, del capitale oligarchico, che oggi è uno dei fondamenti del tessuto della nostra società) questo scenario non è possibile che si ripeta.
Per questo motivo la Russia deve essere il successore della grande potenza – l’Unione Sovietica – non a parole ma nei fatti. Deve essere assolutamente non sensibile alla politica, ma questo può avvenire solo con una Russia forte, con un forte esercito, in un sistema dove la gente sostiene il suo governo, vero e da lei scelto. Dopo di che, la Russia si rimetterà molto rapidamente in piedi, se il popolo ha fiducia nel governo che ha eletto, lei si alzerà immediatamente in piedi, sarà una grande potenza, e la sua parola sarà ascoltata. E quello che è successo con la Libia, non succederà con nessun altro Paese.

Per quanto riguarda l’Unione Sovietica. Se l’Unione Sovietica fosse ancora in vita, quello che è successo in Libia non sarebbe accaduto. In generale, era una grande potenza e una potenza alternativa al sistema di vita degli altri Paesi, ed era un’alternativa alla classe e al capitale. Se l’Unione Sovietica non si fosse sciolta e non ci fosse stato il golpe del 1991, la Libia avrebbe vissuto in amicizia con il popolo sovietico, e il popolo avrebbe ricevuto questi benefici. Purtroppo, la Russia non ha adempiuto alla sua missione come Stato successore dell’Unione Sovietica.

La Russia in questo caso ha svolto un ruolo negativo. Avevamo stipulato un contratto per un’enorme fornitura di armamenti. Abbiamo perso un partner di fiducia come non ce n’erano altri al mondo. Siamo ora esclusi dalle decisioni che riguardano il futuro della Libia. Avevamo il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza e non lo abbiamo sfruttato. Ed è stato un errore madornale. La Russia si mostra debole al cospetto della classe dominante colpevole della situazione che ora c’è in Libia. Credo che la Russia sia la prossima nella lista. La Libia e la NATO non sono cose a sé stanti, tutto è interconnesso. La politica internazionale sul globo, che è rotondo e piccolo, non è fatta di fenomeni che possono essere isolati. Tutti noi abbiamo risorse enormi, e questo è un bocconcino succulento per la NATO e gli Stati Uniti. Abbiamo enormi riserve di petrolio, gas, metalli, minerali, abbiamo le risorse naturali rinnovabili come legname e pesce. Il 60% dell’acqua dolce è sui nostri territori.

Oggi in Russia quello che trattiene il blocco NATO dall’aggressione è solo lo scudo nucleare che si trova sul nostro territorio, compreso dentro e intorno a Mosca. Senza di questo, quelle risorse e quelle riserve, che sono bramate dalla classe capitalistica mondiale, sarebbero prelevate dalla Russia a prezzi stracciati. Lenin aveva assolutamente ragione quando diceva che finché sulla Terra ci sarà il capitalismo, la guerra non si fermerà. E noi sappiamo dalla storia della statistica, che mentre era in vita l’Unione Sovietica, la guerra nel mondo era molto più ridotta. Perché era preso in considerazione il punto di vista del Cremlino. Avevamo il più forte esercito del mondo, con il quale doveva fare i conti il mondo intero. Per non parlare del fatto che abbiamo vinto la seconda guerra mondiale. E un contributo significativo e importante a questa vittoria lo ha portato l’Armata Rossa e il popolo sovietico. E dopo la Grande Guerra Patriottica nessun accordo, nessuna provocazione non deve essere avviato senza l’approvazione dell’Unione Sovietica. Oggi, l’opinione – che è questa Russia? È corretto dire che se vuoi la pace devi prepararti alla guerra.

Un’altra conferma che noi siamo un bocconcino succulento e che ci spetta il compito di decidere come evitare il saccheggio delle nostre risorse. Madeleine Albright ha parlato in modo chiaro, ripetendo le parole di Churchill: «Non è affatto vero che le ricchezze della Siberia debbano appartenere ad un solo Paese (cioè la Russia). Esse devono essere di proprietà di tutto il mondo». Saranno loro a decidere dove andranno le ricchezze del Kuzbass e di Novosibirsk. A chi andranno tutte le ricchezze della Siberia e dell’Estremo Oriente. Io non sono assolutamente d’accordo con loro.

Pertanto, ecco le conclusioni che si possono trarre da quanto accaduto in Libia, dove hanno scatenato una guerra, uccidendo il suo leader Gheddafi, che tra l’altro aveva più volte visitato l’Unione Sovetica e ha costantemente perseguito una politica di sicurezza sociale per il suo Paese: Gheddafi è stato un combattente indomito per la giustizia sociale e per il bene del suo popolo. Io lo rispetto profondamente, e credo che la sua morte abbia fatto risvegliare schiere di politici in questo Paese e in tutto il mondo. La sua morte ha sollevato la questione del patriottismo e il mondo oggi guarda con occhi diversi la NATO, questi gendarmi, e quello che stanno facendo in tutto il mondo.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali. Video e resoconto dell’evento

$
0
0
Nel pomeriggio di sabato  5 novembre  scorso si è tenuto a Modena, presso la Sala Conferenze della Circoscrizione Centro Storico ed alla presenza di alcuni rappresentanti della Provincia, l’incontro “Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali”, parte del Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.
Dopo i saluti istituzionali, sono intervenuti S.E. Jakhongir Ganiev, ambasciatore della Repubblica di Uzbekistan in Italia; Gairat Juldashev, secondo segretario dell’Ambasciata uzbeka in Italia; Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”; Gian Paolo Caselli, docente all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia; un rappresentante di ITER Viaggi Modena, della Franco Rosso Tour Operator.
L’organizzazione è stata a cura dell’IsAG e dell’associazione “Pensieri in Azione”. L’incontro ha suscitato molto interesse: la sala era gremita in ogni ordine di posti, numerosi gl’imprenditori presenti.
Proponiamo di seguito la registrazione video dell’evento:
Prima parte:
 

Seconda parte:

Numerosi altri video sono reperibili nella pagina YouTube di “Eurasia” (cliccare qui per raggiungerla).

 

Ecco di seguito il resoconto dell’evento, redatto da Stefano Vernole:

L’iniziativa curata dall’associazione culturale ‘Pensieri in Azione, dell’Istituto di Alti studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) con la collaborazione di “Viaggiatori fuori tema”, ha avuto il patrocinio del Comune di Modena e dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, riscuotendo una grande partecipazione di pubblico.

 

Si volevano infatti analizzare le nuove opportunità di crescita economica offerte ancora una volta dal mondo asiatico e in particolare da questo paese, facente parte dell’ex costellazione sovietica – membro della CSI e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai – che risulta essere il secondo al mondo per la produzione di cotone grezzo, in cui cresce la produzione agricola, gli investimenti infrastrutturali, i rapporti economici con l’estero, oltre che ricco di materie prime: l’Uzbekistan.

Un’attenzione che trova anche conferma nella visita ufficiale, avvenuta il 6 -7 ottobre 2011 a Taskent, da parte del sottosegretario al Commercio Estero Catia Polidori unitamente ad un nutrito gruppo di imprenditori italiani. L’Uzbekistan in altri termini rappresenta un’importante scommessa del Made in Italy sulla Via della Seta, in quelli che più d’uno ha definito ‘l’antico ponte economico tra oriente e occidente nel cuore dell’Asia’.

 

Molteplici i settori dello Stato asiatico in cui le nostre imprese hanno manifestato interesse: dall’agroindustria, alla meccanica, dal tessile alle costruzioni.

Attualmente infatti in Uzbekistan, sono attive 38 joint venture con investimenti italiani, operative principalmente nell’industria leggera e alimentare, nella trasformazione di prodotti agricoli e produzione di materiali da costruzione, nonché nell’ambito terziario e commerciale.

A Navoi, inoltre uno dei centri principali del paese è stata creata una zona industriale di libero scambio, utile per quelle società italiane che intendono istaurare rapporti commerciali.

Senza contare che al fine quindi di intensificare e consolidare la cooperazione economica bilaterale vengono periodicamente svolte le riunioni del Gruppo di lavoro italo-uzbeko riguardo la cooperazione economica ed industriale ed i crediti all’esportazione.

Dal canto turistico e culturale invece sono numerosi i punti di interesse in Uzbekistan: basti pensare alla sua storia (Tamerlano), alla sua posizione geografica strategica (Asia centrale), alla magnificenza delle sue città (Samarcanda su tutte).

 

Questi stimolanti temi sono così stati approfonditi nel corso dell’incontro, dai 5 relatori presenti: S.E. Jakhongir Ganiev, Ambasciatore della Repubblica di Uzbekistan in Italia;

Gairat Juldashev, Secondo segretario dell’Ambasciata della Repubblica di Uzbekistan in Italia; Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore della rivista di Studi Geopolitici ‘Eurasia’; Gian Paolo Caselli, economista e docente presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e da un rappresentante di ITER Viaggi Modena (Francorosso Tour Operator).

 

Il Dr.Graziani, precedendo i saluti istituzionali, ha aperto l’incontro sottolineando l’impegno a rinsaldare i rapporti tra i paesi della massa eurasiatica, messi a rischio dalla strategia di destabilizzazione atlantista basata sull’ingerenza in nome dei “diritti umani”.

Queste manovre, portate avanti principalmente da USA e GB, individuano in un primo momento le aree geografiche da demonizzare e dopo averle assoggettate tentano di controllarle attraverso quella che si può definire la “colonizzazione anglosassone”.

L’operatore di Francorosso ha invece illustrato con l’ausilio di un bellissimo video le grandi opportunità turistiche offerte dall’Uzbekistan, dando forte rilevanza alla peculiarità culturale di quell’area geografica.

L’intervento di S.E. Ambasciatore Ganiev ha ricordato come ormai democrazia e libero mercato siano scelte irreversibili per l’Uzbekistan e che, nonostante la crisi economica globale l’interscambio commerciale con l’Italia sia in crescita costante.

Non soltanto grazie all’esportazione di materie prime ma anche attraverso la modernizzazione di alcuni settori produttivi interni, chimico, automobilistico, cuoio … le esportazioni dall’Uzbekistan verso il resto del mondo hanno conosciuto un certo incremento.

Il Dr. Juldashev ha sottolineato le numerose intese con l’Europa: l’Accordo sulla cooperazione del 1 luglio 1999 e la Convenzione bilaterale con l’Italia, dalla quale c’è un forte interesse ad importare prodotti di qualità.

Infine il Prof. Caselli ha elogiato il controllo operato dal Governo di Tashkent durante il periodo della transizione dal comunismo ad un’economia di mercato, che ha permesso alla struttura di tipo sovietico dell’Uzbekistan di gestire il processo di apertura molto meglio rispetto ad altre nazioni dell’ex URSS.

I dati più incoraggianti sono infatti ravvisabili sia nell’aspettativa di vita che nel reddito, che sono calati in maniera molto meno brusca se paragonati a quelli dei paesi vicini dopo il 1989 e che hanno retto bene anche dopo la crisi del 2008.

Lo Stato in Uzbekistan opera ancora uno stretto controllo sia sul sistema bancario che su quello industriale, mentre grazie al dinamismo dei propri istituti di ricerca i “cervelli” migliori rimangono in patria.

Gli unici problemi, peraltro comuni a tutta l’area, riguardano quelli della diversificazione produttiva e della necessità di modernizzazione, specie in vista della penetrazione economica cinese.

Dal punto di vista geopolitico, invece, dopo una breve fase di partnership con gli Stati Uniti l’Uzbekistan si è man mano riavvicinato alla Russia e rimane molto interessante capire quali saranno le prossime mosse di questo paese dopo le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin sulla costituzione dell’ “Unione Euroasiatica”.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’ascesa del BRICS

$
0
0

Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2011/11/07/brics-rising-profile.html

Il vertice del G20 a Cannes, il 3-4 novembre 2011, alle prese con vari problemi che affliggono il governo dell’economia mondiale, in particolare la crisi della zona euro, e hanno portato al centro il crescente profilo del BRICS quale giocatore importante per la risoluzione dei problemi mondiali, come la crisi finanziaria. Come giustamente sottolineato dall’alto consigliere economico russo Arkadij Dvorkovich, prima del summit, i paesi BRICS hanno migliorato la loro posizione nella politica internazionale, svolgendo un ruolo decisivo nell’affrontare la crisi globale, e anche verso un ruolo maggiore nelle decisioni politiche degli enti finanziari mondiali, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale. Il comunicato emesso dopo la riunione del raggruppamento, ha anche sottolineato che il gruppo collaborerà con i paesi della zona euro e dell’Unione europea, che rappresentano la più grande economia del mondo, e che ciò potrebbe essere raggiunto attraverso il coordinamento multilaterale a livello globale, degli enti finanziari.
Alcuni degli sviluppi poterono essere notati durante la riunione del raggruppamento, che ha avuto luogo presso l’Hotel Carlton, il 3 novembre 2011, che non era stato, forse, nettamente visibile nelle precedenti riunioni del BRICS. Il raggruppamento ha preso una posizione coordinata, secondo cui il centro di potere emergente avrà un ruolo positivo nell’aiutare i paesi come la Grecia, dal salvarsi dalla crisi, e che la zona euro deve guidare la soluzione alla crisi. In questo senso, i paesi hanno evitato di sottolineare le misure o le politiche che possono apparire imposte o che approfittino della fragile situazione in Europa. Il presidente cinese, Hu Jintao, ha espresso la speranza che l’Unione europea sia in grado di risolvere la crisi, e ha chiesto che “la comunità internazionale fornisca aiuto e sostegno” alla regione, per uscire dalla crisi. I paesi BRICS hanno riconosciuto che la crisi della zona euro è una crisi di proporzioni globali, e finché non recupererà rapidamente, potrebbe ulteriormente peggiorare lo scenario economico globale. Il raggruppamento ha inoltre sottolineato che, al fine di risolvere la crisi, è assai necessario che il processo debba essere democratico, con le potenze emergenti partecipanti al processo decisionale. La dichiarazione, al termine, della riunione diceva: “I leader hanno convenuto che la crisi del debito sovrano della zona euro, è una questione di seria preoccupazione per l’economia mondiale, e ha causato la nuova instabilità e volatilità dei mercati, dopo la crisi economica del 2008”, e sottolineava che i membri hanno convenuto che “l’unico modo per uscire da questa crisi, sia garantire una rapida crescita economica, in modo sostenibile ed equilibrato, globale.”
Oltre a queste manovre collettive, i membri del raggruppamento si sono fatti avanti anche individualmente, nel contribuire alla risoluzione della crisi. Le potenzialità di queste economie in rapida crescita, nella soluzione della crisi, non è minima, e questo è chiaramente riflesso dalle dichiarazioni dei leader del BRICS. Il ministro delle finanze indiano, Pranab Mukherjee, ha osservato che, “La nostra valutazione della situazione è lasciare che (la zona euro) effettui una valutazione credibile del problema della solvibilità, cercando di risolvere quei problemi e, poi, il finanziamento supplementare che potrebbe essere preso in considerazione.” Il Vice Presidente della Commissione della Pianificazione dell’India, Montek Singh Ahluwalia, ha osservato: “Finora non c’è una richiesta bilaterale. Ma siamo pronti ad aiutare. Non possiamo permetterci che la crisi si diffonda nel mondo.” Il Presidente russo, Dmitrij Medvedev, ha dichiarato a Cannes che la Russia è interessata ad aiutare i paesi in crisi. Come altri leader del BRICS, ha sottolineato “la necessità per il BRICS di elaborare una posizione comune”. Ha sottolineato, “dobbiamo contribuire a preservare una delle valute principali del mondo.” Aveva inoltre dichiarato, “Siamo tutti interessati a preservare l’euro, non solo gli europei, ma Federazione Russa, Cina e altri paesi.” La Russia ha anche riferito la decisione di offrire 10 miliardi dollari attraverso il Fondo monetario internazionale, che può essere aumentata ulteriormente, nei prossimi giorni. Allo stesso modo, la presidentessa brasiliana Rousseff, ha rivelato che il suo paese avrà un ruolo significativo nel mitigare la crisi della zona euro. Uno dei meccanismi per salvare i paesi della zona euro dalla crisi, è acquistare le obbligazioni del European Financial Stability Fund (EFSF). Ci sono prospettive che le potenze emergenti, tra cui il raggruppamento BRICS, compreranno questi bond, in modo che il capitale possa essere infuso nei mercati finanziari della regione. Come concordato dai leader della zona euro, la capacità EFSF può essere aumentata a 1.000 miliardi di euro. Già i paesi asiatici detengono il 40 per cento del debito EFSF, che si manifesta nella prodezza crescente dei paesi BRICS, in particolare della Cina, che è il più grande esportatore verso l’Unione europea.
Anche se ci sono apprensioni rispetto al futuro modus operandi nel processo di salvataggio, non vi è unanimità su quale organismo finanziario internazionale debba giocare il ruolo più importante, e che vi possa essere possibile un maggiore coinvolgimento del raggruppamento. Vi sono anche preoccupazioni per quanto riguarda cosa, esattamente, questi paesi otterranno in cambio dell’aiuto alla zona euro, per farla uscire dalla crisi. Il prossimo vertice del BRICS, che si terrà a Nuova Delhi nel marzo 2012, probabilmente rafforzerà ulteriormente il legame del gruppo, e aiuterà questi paesi a far evolvere le politiche comuni su varie questioni di importanza globale.
L’ascesa del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – l’ultimo si è unito al gruppo lo scorso anno) in un arco di tre anni dalla sua inaugurazione ufficiale, nella città russa di Ekaterinburg, nel 2008, è davvero fenomenale … Questi paesi non solo rappresentano i motori della crescita e del cambiamento dal ritmo rapido, ma rappresentano anche le aspirazioni crescenti delle potenze emergenti, e della loro importanza nel panorama globale. Il raggruppamento, la cui genesi era stata prevista in un rapporto nel 2003, ha influenzato la politica e l’economia globale in una miriade di modi. Ha rappresentato il cambiamento nell’equilibrio del potere. I membri, sia nelle deliberazioni al Consiglio di sicurezza dell’ONU, o nel G-20, o nei vertici importanti, come quello sul cambiamento climatico, hanno coordinato i loro sforzi per far emergere una sola voce. Sia nella crisi araba che nella crisi della finanza globale, il gruppo ha ampiamente coordinato le sue politiche. Il leader cinese Xie Xuren, aveva fatto eco al sentimento del raggruppamento al vertice dei G-20 a Horsham, nel 2009, quando aveva giustamente osservato che questi paesi domandavano un ‘equo e chiaro, compatibile e ordinato’ ordine mondiale. In questo summit era stato raggiunto un accordo per concedere ulteriori diritti di voto alle economie emergenti negli organismi globali, come il Fondo monetario internazionale, ma che non poteva prendere piede subito, a causa della susseguente crisi finanziaria globale. Il vertice del G20 a Seoul, lo scorso anno, aveva concordato lo spostamento del 6 per cento di quota nel Fondo Monetario Internazionale, alle economie emergenti. Con il passare dei mesi, il profilo del raggruppamento probabilmente crescerà ulteriormente. Con la crescente influenza di questi paesi nella scena mondiale, e con la loro voce crescente nei vari organismi mondiali, sarà una questione di tempo che l’ordine mondiale sia più rappresentativo.

La ripubblicazione è gradita con riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation: www.strategic-culture.org.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il significato della decisione sulla NPF del Pakistan

$
0
0

Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2011/11/08/the-meaning-of-pakistan-mfn-decision.html

La Russia dovrebbe sapere meglio di qualsiasi paese che superare la logica dei ‘muri contrapposti’ non è mai facile. Non solo richiede tempo, ma richiede un atto di fede. L’emendamento Jackson-Vanik del 1974, vive in eterno, nonostante la ‘non esistenza’ dell’URSS e delle sue restrizioni emigrazione ebraica, ora la sua abrogazione è solamente in funzione della politica negli Stati Uniti – e non della politica russa.

Naturalmente, l’emendamento Jackson-Vanik è un caso estremo di come il tempo si ferma, quando è palesemente evidente che una mentalità è diventata irrimediabilmente arcaica. Ma l’analogia aiuta a comprendere il significato della difficile decisione che il Pakistan ha preso quando ha accordato lo status di ‘nazione più favorita’ [NPF] all’India nelle relazioni commerciali. Ci sono voluti dieci anni e mezzo al Pakistan per ricambiare la decisione di NPF dell’India, nel 1996.
Sicuramente, la decisione del Pakistan è più complessa di ciò che gli USA ebbero bisogno per ripristinare i legami con la Russia post-sovietica. Gli Stati Uniti e l’URSS combatterono solo delle ‘guerre per procura’, mentre India e Pakistan hanno combattuto si guerre per procura che guerre vere, e le due parti si sono continuamente inflitte morte e distruzione a vicenda. Mentre gli Stati Uniti non hanno motivo di preservare paure manichee che le esportazioni russe possano sciamare sul suo mercato e, probabilmente indebolirne l’industria, le preoccupazioni del Pakistan sono reali. L’industria indiana sembra essere di gran lunga più grande di quella del Pakistan, e sta sempre più assumendo l’istinto assassino del mercato globale. Infine, mentre i ‘guerrieri freddi’ sono oggi una infima dozzina negli Stati Uniti, non hanno il colpo letale dei ‘jihadisti’ in Pakistan, che minacciano contro una qualsiasi decisione di NPF da Islamabad, fino a quando il Kashmir sarà ‘liberato’.
Così, in qualunque modo lo si guardi, il governo pakistano ha dimostrato una sua statualità nell’accordare lo status di NPF all’India. Come è potuto succedere? Il significato di ciò ha molto importanza per la sicurezza e la stabilità regionali.
In primo luogo, i fiori non appaiono dal nulla. In un certo senso, è una precoce fioritura, fuori stagione, di un alberello semplice – l’alberello del ‘dialogo’ tra i due paesi, che è ancora tenero e vulnerabile alle malattie.
Il processo del dialogo è iniziato originariamente sotto una persistente sollecitazione degli Stati Uniti, ma da allora ha lottato per affermarsi e apparentemente è sopravvissuto al freddo nel rapporto USA-Pakistan. Nel calcolo degli Stati Uniti, in origine, la normalizzazione India-Pakistan sarebbe andata di pari passo con la strategia globale dell’AfPak, creando così una sinergia. Ma alla fine, però, lo squilibrio è riapparso con il crollo virtuale della strategia AfPak degli Stati Uniti. Nonostante il sottile suggerimento degli Stati Uniti, negli ultimi mesi, a collaborare a una ‘mossa a tenaglia’ contro il Pakistan (al fine di salvare la moribonda strategia statunitense dell’AfPak), Delhi sembra aver deciso di proseguire il suo percorso, nel proprio interesse.
Forse, è solo la congenita indecisione e procrastinazione di Delhi, ma Islamabad ha scelto di apprezzare la ‘neutralità’ o l”autonomia strategica’ dell’India nei confronti dello stallo tra Stati Uniti e Pakistan. Un segno di ciò, si è avuto due settimane fa, quando un elicottero militare indiano con 3 alti ufficiali dell’esercito, allontanatosi dal confine per il maltempo, era entrato in profondità nel territorio pakistano nel super-sensibile settore Siachen, nel Kashmir; il GHQ a Rawalpindi aveva preso la decisione di consentire all’elicottero di ritornare nel giro di poche ore – un gesto raro (per entrambe le parti), nelle cronache del loro travagliato rapporto.
L’ultima decisione sullo status di NPF dà ulteriore conferma della volontà del Pakistan di continuare sulla traccia del dialogo con l’India, a prescindere dal freddo che si approfondisce nei legami tra Pakistan e Stati Uniti. Per amore della discussione, l’approccio pragmatico del Pakistan deriva da motivi complicati. Infatti, il Pakistan ha bisogno di concentrarsi risolutamente sulla risoluzione del confronto con gli Stati Uniti, e anche sulle questioni esistenziali poste dal finale di partita afghana: la Linea Durand, la questione del Pashtunistan, la ‘talebanizzazione’ della regione AfPak, piuttosto che distrarsi nelle scaramucce con l’India sull’Hindu Kush. Così, probabilmente, il Pakistan dovrebbe calibrare il suo atteggiamento generale verso l’India, e la decisione della NPF potrebbe essere una mossa intelligente per creare un ‘aria di intesa’ tra le élite indiane, in particolare le élite economiche più influenti.

Se lo desideri avrai le ali …
Ma in termini politici, si spinge l’India a fare altrettanto. La profonda ironia è che, nonostante il ‘deficit di democrazia’ in Pakistan, il processo del dialogo gode di ampio sostegno nell’opinione pubblica del Pakistan, mentre è visto con scetticismo diffuso da quella indiana. La leadership pakistana ha lanciato il guanto di sfida all’India, spingendola a fare qualcosa di ‘fattibile’, come la sua decisione di NPF, per portare avanti il processo di normalizzazione.
L’unica cosa sensata sarà quella di mettere in cantiere uno o due accordi eminentemente ‘fattibili’, ad esempio, Sir Creek o Siachen, su cui un accordo è possibile. Idealmente, l’accordo su uno o due questioni ‘fattibili’, potrebbe essere l’occasione per il primo ministro indiano, Manmohan Singh, di intraprendere un viaggio, a lungo atteso, in Pakistan. Cioè, se lo desideri avrai le ali.
Più precisamente, la decisione di NPF del Pakistan, solleva una questione profonda per quanto riguarda il tipo di rapporto a lungo termine, a cui i due paesi dovrebbero mirare. La decisione di NPF è in qualche modo un CdF [clima di fiducia]. La crescita delle relazioni commerciali e degli investimento, può creare un clima di fiducia in cui i due paesi avranno la presenza di spirito per affrontare i loro contrasti più difficili. Il Pakistan ha fatto un passo coraggioso, anche se un piccolo passo, verso l’integrazione con l’economia indiana. In un certo senso, il Pakistan non è contrario ad essere una ‘parte interessata’ nelle relazioni con l’India.
Nel frattempo, l’India preferisce concentrarsi sempre più sulla Cina quale principale sfida alla sicurezza nazionale e vorrebbe ‘alleggerire’ il suo problema col Pakistan, quale evento secondario. Ma, in realtà, le due sfide nella politica estera si intrecciano, e rimarranno tali nel futuro immaginabile, anche se, qualunque cosa faccia la Cina in Pakistan, sta diventando sempre meno ‘India-centrico’.
La parte più difficile sarà il ‘programma di modernizzazione’ massiccia per le forze armate dell’India, con la spesa di oltre 100 miliardi di dollari, nel breve termine. L’India prevede di aumentare le dimensioni del suo esercito di 1,1 milioni di effettivi, del 10 per cento. È in gran parte una risposta alle percezioni dell’India della minaccia dalla Cina. Ma non c’è dibattito pubblico in India nel clima intellettuale presente del paese, per quanto riguarda l’impatto della militarizzazione dell’economia politica dell’India, ma anche su come questa militarizzazione giocherebbe nella politica regionale.
Il cuore della questione è che oltre il problema del Kashmir è l”equilibrio strategico’ con l’India, che sta creando delle angosce nelle menti pakistane. Paradossalmente, questa angoscia impatta sul rapporto del Pakistan con gli Stati Uniti, anche, e indirettamente, sulla sua partecipazione nella ‘guerra al terrore’ in Afghanistan. Gli Stati Uniti, da parte loro, umiliano il Pakistan incessantemente per la sua ‘ambiguità’ sulla guerra in Afghanistan, mentre allo stesso tempo, non perdono una sola opportunità di far cassa nel bazar della armi dell’India.
Anche in mezzo all’attuale situazione di stallo nei rapporti con il Pakistan, mentre chiedono insistentemente al Pakistan di ‘spremere’ i suoi ‘asset strategici’, la rete Haqqani, gli USA assicurano l’ordine aziendale dall’India per altri sei C -17 Globemaster III, aereo da trasporto militare dal valore di miliardi di dollari, e il Pentagono ha mostrato disponibilità a lavorare con l’India sul suo futuristico aereo da combattimento stealth di ‘quinta generazione’. E tutto questo mentre lo Zio Sam è pronto e impaziente di poter mediare le dispute tra India e Pakistan.
In sintesi, la geopolitica della regione getta la sua ombra sul rapporto tra India e Pakistan, tanto quanto le loro dispute bilaterali e le loro differenze. Come spezzare questo circolo vizioso? Qui è dove una struttura per la sicurezza regionale, in cui l’India e il Pakistan convivono, avrebbe un grande scopo.
La Shanghai Cooperation Organization [SCO] è in una posizione unica per giocare un ruolo nella sicurezza regionale … Guardando avanti, la decisione di NPF del Pakistan, sarebbe in linea con i piani futuri della SCO per una zona di libero scambio, per il prossimo decennio. E coincide anche con l’adesione della Russia all’Organizzazione mondiale del commercio [OMC]. A sua volta, con l’adesione della Russia all’OMC, Mosca e Delhi possono insieme concludere un accordo globale di cooperazione economica, che è in attesa della firma. A dire il vero, la decisione della SCO, in questa circostanza, di ammettere l’India e il Pakistan come membri a pieno sarebbe la più tempestiva.

La ripubblicazione è gradita con riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation. www.strategic-culture.org.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Netanyahu visto da Obama e Sarkozy

$
0
0

Réseau Voltaire

A seguito di un errore tecnico dei servizi della Eliseo, alcuni minuti di conversazione tra i presidenti Barack Obama e Nicolas Sarkozy sono stati sentiti dai giornalisti che seguivano il G20. Secondo Dan Israel, che ha riferito l’incidente sul sito Arrêt sur Images, Obama ha dapprima criticato Sarkozy per non averlo avvertito che avrebbe votato a favore dell’adesione della Palestina presso l’UNESCO, mentre gli Stati Uniti erano fortemente contrari. La conversazione poi è scivolata su Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano. Sicuri di non essere ascoltati, i due presidenti si sono abbandonati. “Non riesco più a sopportarlo, è un bugiardo”, ha detto Sarkozy. “Sei stanco di lui, ma io devo farci conti ogni giorno!” ha risposto Obama, che ha poi chiesto a Sarkozy di cercare di convincere i palestinesi a rallentare sulla loro domanda di adesione alle Nazioni Unite. Traduzione di Alessandro Lattanzio http://sitoaurora.altervista.org/home.htm http://aurorasito.wordpress.com

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Nel 1978 l’imam Moussa Sadr è stato vittima di Muammar Gheddafi

$
0
0

Réseau Voltaire

 

 

L’ex confidente di Muammar Gheddafi, Ahmad Ramadan al-Asaibie, ha rilasciato un’intervista al giornalista Moussa Jenan, trasmessa l’8 Novembre 2011, dalla TV Al-Aan degli Emirati Arabi Uniti.

Negli anni ’80, il colonnello Ahmad Ramadan al-Asaibie coordinava le forze pro-libiche in Ciad. Poi ha comandato la Guardia Rivoluzionaria Libia. Negli anni ’90, divenne direttore dell’Ufficio informazioni della “Guida”.

Dice di aver assistito all’arrivo presso il quartier generale di Muammar Gheddafi dell’Imam Sadr e dei suoi compagni, lo sceicco Mohammed Yacoub e il giornalista Abbas Bader al-Din. Dopo l’incontro, il colonnello Gheddafi avrebbe ordinato di portarli via. Sarebbero partiti con il ministro degli esteri Taha al-Sherif Bin Amer (che morirà poco dopo, in un incidente di elicottero), il generale Fraj Abu Ghalia capo dell’intelligence e il generale Bashir Humeida capo dell’amministrazione presidenziale. I tre libici avrebbero quindi eliminato i tre libanesi.

L’Imam Moussa Sadr era un leader iraniano-libanese, teologo sciita della liberazione. Apostolo dei poveri, si oppose al sistema confessionale libanese e predicò la rivoluzione sociale. Nel 1975 ha fondato il partito Amal (Speranza).

Fautore del dialogo interreligioso, aveva rappresentato gli sciiti all’intronizzazione di Papa Paolo VI, e predicò la quaresima nella Cattedrale Cattolica St. Luigi di Beirut.
Non riconoscendo che Israele come nemico, si rifiutò di impegnare le armi dei suoi sostenitori nella guerra civile libanese, che aveva interpretato come un piano esterno per la divisione settaria del paese.

Dopo l’invasione israeliana del marzo 1978, aveva intrapreso un tour delle capitali arabe per chiedere aiuto. Alla fine di agosto, si recò in Libia e scomparve. La sua assenza aveva incoraggiato l’attuazione del Piano Kissinger per la guerra civile in Libano e aveva impedito la creazione di un asse rivoluzionario sciita, quando l’imam Ruhollah Khomeini fu autorizzato sei mesi dopo ad andare in Iran.

La Libia ha sempre negato ogni responsabilità per la scomparsa di Imam Sadr e dei suoi compagni. Tuttavia, un mandato di cattura internazionale contro Muammar Gheddafi è stato emesso dalla giustizia libanese nel 2008 e inviato all’Interpol. Il procuratore generale del Libano aveva chiesto la pena di morte contro la “Guida” libica per l’assassinio.

La testimonianza del colonnello Ahmad Ramadan al-Asaibie lascia aperta la questione del movente dell’omicidio e dell’identità del suo mandante.

 

«Le procureur général du Liban requiert la peine de mort contre Mouammar Kadhafi» (http://www.voltairenet.org/article157943.html ), Réseau Voltaire, 1 settembre 2008.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://sitoaurora.altervista.org/home.htm

http://aurorasito.wordpress.com

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Forze alleate erano presenti in Libia da metà febbraio

$
0
0

Réseau Voltaire

 

 

Secondo Nathalie Guibert su Le Monde, gli stati maggiori francese e britannico hanno negoziato la divisione delle acque libiche tra i loro sottomarini, un mese prima dell’intervento della NATO, ovvero all’inizio dei moti a Bengasi.

Il quotidiano afferma, inoltre, che quattro sottomarini d’attacco nucleare (SNA) furono dispiegati al largo delle coste della Libia durante l’Operazione “Unified Protector“. Uno di loro avrebbe operato missioni di intelligence dalla fine di febbraio.

Queste informazioni corroborano in parte ciò che Réseau Voltaire ha potuto constatare sul teatro delle operazioni: le forze regolari francesi e britanniche, ma anche forze italiane e irregolari saudite erano state dispiegati dal 17 febbraio 2011. Non reagivano al massacro del 15 febbraio [1] (durante la manifestazione di nasseriani e marxisti per una costituzione), ma hanno accompagnato la manifestazione del 17 febbraio (quella dei Senussi contro le vignette su Maometto) [2].

 

«Le rôle discret des sous-marins français dans les opérations en Libye»,  Nathalie Guibert, Le Monde, 8 novembre 2011.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://sitoaurora.altervista.org/home.htm

http://aurorasito.wordpress.com

 

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Ascesa e declino strategico degli Stati Uniti

$
0
0
Secondo Noam Chomsky le brame egemoniche covate dagli Stati Uniti rispetto all’instaurazione di un sistema economico mondiale imperniato sulla centralità di Washington non risalirebbero alla fine della Seconda Guerra Mondiale – che sancì di fatto l’inizio della Guerra Fredda – ma al 1917, data in cui l’avvento dei bolscevichi al potere in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre decretò la formazione di una pericolosa minaccia rispetto alla coesione sociale dei paesi capitalisti.
La maturazione delle condizioni necessarie che permettessero alle imprese statunitensi di conquistare e dominare i mercati mondiali passava quindi per la disintegrazione della minaccia comunista, nell’ambito di un conflitto che si configurò fin dai primi istanti come una contrapposizione frontale nord – sud.
Un indispensabile stadio preliminare da raggiungere in vista della produzione degli anticorpi necessari a minare la diffusione dell’epidemia bolscevica era rappresentato tuttavia dall’acquisizione, da parte degli Stati Uniti, della posizione dominante rispetto ai propri avversari tattici (cioè a breve termine) britannici, la cui potenza politica ed economica si estendeva su larga parte del pianeta.
I finanziamenti che Washington, sotto l’egida dell’idealista Woodrow Wilson, accordò alla Gran Bretagna nel corso della Prima Guerra Mondiale non vennero concessi a fondo perduto, ma contenevano la non troppo implicita pretesa che Londra, per estinguere il debito contratto, restringesse il proprio campo d’influenza smantellando le proprie basi militari dalle isole dell’Atlantico (Giamaica, Bahamas, ecc.) e aprisse il controllo, monopolizzato fino ad allora da Londra, dei commerci internazionali alla penetrazione degli strateghi del capitale statunitensi.
La strategia statunitense si dispiegò però su più piani, da un lato attraverso l’estensione della propria influenza economico – militare all’Africa occidentale, all’Asia meridionale e al Golfo Persico, dall’altro per mezzo della sottomissione definitiva dei propri alleati europei sancita a Jalta, unitamente alla suddivisione del pianeta tra USA ed URSS.
Nonostante la maggior parte degli economisti ritenesse che il passaggio dal keynesismo di guerra adottato da Franklin Delano Roosevelt ad un economia riconvertita e adattata al tempo di pace avrebbe condotto il sistema produttivo del paese ad una crisi affine (se non peggiore) a quella del 1929, gli Stati Uniti seppero sfruttare il successo maturato al termine della Seconda Guerra Mondiale per scongiurare questo rischio.
L’espansione dell’influenza statunitense all’Europa e al Giappone garantita dalla propria soverchiante capacità militare e i colossali investimenti contestuali al Piano Marshall escogitato (ufficialmente) per ricostruire i paesi sconfitti gettarono infatti le basi per la formazione del sistema economico mondiale tanto agognato dai comparti decisionali americani, che a quel punto poterono concentrare i propri sforzi esclusivamente sull’opposizione totale (muro contro muro) all’Unione Sovietica.
Il Cremlino intendeva principalmente brandire la spada dai paesi vessati e dissanguati dal colonialismo europeo, così come fece Lenin in occasione del congresso di Baku del 1920, quando aveva astutamente scelto di convocare i rappresentanti dei “popoli oppressi” affinché confluissero in massa nell’orbita sovietica.
Onde evitare che le strategie ordite da Mosca sortissero tali effetti, Washington effettuò le proprie contromosse attraverso il Segretario di Stato Dean Acheson, il quale sostenne apertamente le rivendicazioni indipendentiste provenienti dalle colonie invitando i propri alleati europei ad abbandonare l’anacronistica politica coloniale e a riconoscere ai propri protettorati il diritto all’autodeterminazione.
Tuttavia, Gran Bretagna e Francia, assai restie a seguire tali indicazioni, giunsero a coalizzarsi assieme ad Israele per assestare un duro colpo all’incontrollabile colonnello egiziano Giamal Nasser – che aveva avuto l’impudenza di nazionalizzare il Canale di Suez – onde ridimensionare gli aneliti indipendentisti delle colonie e riallineare definitivamente l’intera area nordafricana sull’asse Londra – Parigi.
Nei giorni a cavallo tra ottobre e novembre del 1956, la coalizione anglofrancese condusse in porto l’operazione militare, ma commise un clamoroso autoaffondamento internazionale, poiché l’ONU condannò l’aggressione, i paesi del Commonwealth espressero la propria aperta contrarietà, l’Unione Sovietica minacciò pesanti ritorsioni e, soprattutto, il Presidente statunitense Dwight Eisenhower scelse di passare alle maniere forti disponendo che il Ministero del Tesoro vendesse sterline alla Borsa di New York.
Sul piano economico, il quadro della situazione fu ben delineato da Francois Perroux, il quale scrisse che “Nella pratica le concezioni del liberalismo si scontrano con la realtà economica, nella quale esiste la già formata ‘disomogeneità delle strutture’, ed a causa di tale disuguaglianza le nazioni più potenti e forti mirano ad assicurare per se stesse il massimo vantaggio economico a scapito delle restanti altre”.
In altre parole gli Stati Uniti sfruttarono tale “disomogeneità di strutture” per avvalersi del proprio poderoso complesso finanziario allo scopo di sostituirsi alla Gran Bretagna in qualità di polo geoeconomico capace di proiettare il proprio sistema produttivo su un’ampia porzione di pianeta e della presenza di un potente contraltare come l’Unione Sovietica per trovare la legittimazione concettuale ed ideologica necessaria per ergersi a centro geopolitico di riferimento dell’intero blocco europeo – occidentale.
Il costrutto ideologico rappresentato dall’ombrello protettivo statunitense relativo al parossisticamente agitato spauracchio sovietico funse da ipoteca alla subordinazione europea ed estremo – orientale al sistema politico, economico e culturale propugnato dagli Stati Uniti.
La Commissione Trilaterale nacque proprio con lo specifico obiettivo di ottimizzare tale processo, ripartendo in tre zone – America del Nord, Estremo Oriente/Pacifico ed Europa – lo spazio economico dominato dagli stati Uniti nell’ambito di una strategia di accerchiamento dell’Heartland e di isolamento dell’Unione Sovietica.
Il fatto stesso che la Commissione Trilaterale scaturì dai marchingegni strategici escogitati dagli influentissimi David Rockefeller e Zbigniew Brzezinski (entrambi membri del Foreign Office Council) conferisce alla stessa una particolare, straordinaria rilevanza.
In quel pensatoio (think tank) maturò l’idea di capitalizzare al massimo la “disomogeneità” del polo geopolitico e geoeconomico statunitense attraverso l’omologazione economica delle aree “laterali” estremo – asiatica ed europea grazie all’introduzione di specifiche valute transnazionali (euro e yen orientale) in grado di favorire l’integrazione delle due macroregioni nei meccanismi economico – finanziari necessari a puntellare la supremazia degli Stati Uniti e del dollaro come moneta di riserva internazionale.
La strategia escogitata da tale pensatoio mirava all’indebolimento graduale ma inesorabile dell’assetto socialista in base al quale era strutturata l’Unione Sovietica in vista di una sua definitiva integrazione nel modello “trilateralista” capace di favorire l’estensione del verbo atlantista attraverso l’inserimento dello stesso nel contesto dei processi di mondializzazione.
Tuttavia, il declino dell’Unione Sovietica, dovuta a una numerosa serie di convergenze, accelerò notevolmente i tempi previsti da Rockefeller, Brzezisnki e i loro colleghi “trilateralisti”.
La svalutazione del rublo legata alla disastrosa opera di ristrutturazione economica (perestroijka) promossa da Mikhail Gorbaciov e proseguita dal suo successore ed ex braccio destro Boris El’cin favorì l’aggancio dell’economia russa ai meccanismi dominati dal dollaro e la penetrazione della grande finanza angloamericana – attraverso i ben noti “oligarchi” – nei settori strategici russi in via di liquidazione per mezzo della “shock therapy” promossa dall’economista friedmaniano (e quindi ultraliberista) Jeffrey Sachs.
La voragine apertasi con il crollo dell’Unione Sovietica fece deflagrare la logica bipolare che costituiva la struttura portante della Guerra Fredda, sulla base della quale erano state orchestrate tutte le precedenti strategie politiche ed economiche.
L’unipolarismo statunitense appena instauratosi dovette fare i conti con una situazione inedita, dalle prospettive ignote e dalle innumerevoli incognite che rendevano estremamente arduo il compito di escogitare nuove, efficaci strategie al passo coi tempi.
Il fatto che l’Unione Europea e il consolidamento dello “zollverein” (l’unione doganale tedesca caldeggiata da Friedrich List) estremo – orientale, le cui istituzioni erano state sollecitate dai “trilateralisti” in funzione anti – sovietica e non post – sovietica, presero forma nel momento in cui il “comunismo reale” cessò di esistere, scompaginò notevolmente le strategie statunitensi perché conferì alla coalizione del Vecchio Continente e dell’Asia orientale (ancora in via di formazione) lo status di nuovi attori geopolitici concorrenziali e assegnò (specialmente) alla moneta europea il pericoloso ruolo effettivo di rivale del dollaro.
Le scosse telluriche provocate dal ridisegnamento della carta geografica eurasiatica non erano state previste dai “trilateralisti”, oltre che dai pianificatori del Pentagono e della Casa Bianca.
Il direttore della CIA William Webster fu però tra i primi (e pochi) a cogliere l’entità di tale pericolo, ammonendo che “Gli alleati politici e militari dell’America sono ora i suoi rivali economici”, annunciando di fatto l’imminente scatenamento della guerra commerciale statunitense contro l’Europa, condotta a suon di colpi bassi (come l’imposizione unilaterale e ingiustificabile dei dazi sulle importazione dell’acciaio europeo) e con il chiaro intento di riaffermare il predominio statunitense.
In altre parole, il ruolo del dollaro come garante della supremazia geopolitica statunitense perse definitivamente la propria inattaccabilità.
L’ascesa al potere di Vladimir Putin irruppe in tale contesto, rovesciando letteralmente l’inerzia innescata da Gorbaciov ed El’cin e restituendo alla Russia un ruolo determinante nell’affermazione dei rapporti di forza internazionali.
Sull’onda di tale sconvolgimento (secondo l’analista Aymeric Chauprade, l’ascesa di Putin conterrebbe una potenzialità destabilizzante rispetto agli equilibri mondiali superiore all’11 settembre 2001), alcuni soggetti regionali come l’Iran valutarono l’ipotesi di formare un’apposita Borsa del petrolio, indicizzata all’euro, alternativa a quelle di Londra e New York.
Saddam Hussein convertì il proprio fondo “oil for food” da dollari in euro accettando soltanto la moneta europea per la compravendita del petrolio iracheno (incorrendo nel ben noto trattamento).
Hugo Chavez auspicò pubblicamente il classico effetto domino che avrebbe scalzato il dollaro dalla posizione dominante di moneta di riferimento, cosa che avrebbe sortito pesantissime ripercussioni sull’arrancante economia statunitense.
In definitiva, la Commissione Trilaterale, sorta con lo scopo specifico di dissestare gradualmente il contraltare sovietico allo scopo di integrarlo nei rodati meccanismi atlantisti e la contestuale scelta, operata dai “trilateralisti”, relativa al rafforzamento delle appendici occidentali (Unione Europea) ed orientali (zona estremo – asiatica) all’heartland scaturì dall’esigenza di incrementare il coefficiente eversivo di tale disegno strategico, ma la repentina, brusca ed inaspettata caduta dell’Unione Sovietica privò gli Stati Uniti del consolidato nemico “perfetto”, cui andarono a sostituirsi nuove, inaspettate e non contemplate minacce geopolitiche.
L’ascesa dell’Unione Europea e della relativa (seppur differente, minore ed in via di consolidamento) emulazione asiatica, accompagnate dall’adozione di una moneta forte come l’euro, ridimensionarono di fatto il ruolo centrale degli Stati Uniti, la cui economia si regge sull’assunto illustrato da Perroux relativamente alla “disomogeneità delle strutture” nel contesto della redistribuzione del lavoro a livello mondiale (globalizzato).
La riconversione dell’economia statunitense in funzione del suo adeguamento alle nuove necessità dell’epoca post – sovietica presentò fin dall’inizio difficoltà sotto molti aspetti insormontabili e conteneva incognite pesantissime, capaci di sortire serie ripercussioni sugli equilibri internazionali.
Il processo forsennato di finanziarizzazione dell’economia sull’onda del dogma rappresentato dalla “new economy” ha creato nuovi pescecani della finanza considerati da molti superficiali (ed economicisti) osservatori i veri regolatori della politica internazionale laddove, in realtà, il loro ruolo è limitato alla mera applicazione pratica delle strategie escogitate dai reali strateghi del capitale, titolari delle più alte cariche onorifiche nell’ambito dei vertici “trilateralisti” e delle riunioni del Bilderberg (i già citati Rockefeller e Brzezinski, Soros, ecc.).
Il sorgere di nuovi attori geopolitici contestuale al fallimento delle previsioni “trilateraliste” (e “bilderberghiane”) ha minato le capacità persuasive statunitensi, costringendo i comparti decisionali del Pentagono e della Casa Bianca ad abbandonare le “strategie del serpente” per far regolarmente ricorso alla forza bruta, gettando di fatto la spada sul piatto della bilancia (come è accaduto in Libia) nell’estremo tentativo (di Sisifo) di arrestare o quantomeno contenere la prorompente espansione dell’ascendente colosso cinese e di fare della forza l’unico fattore garante della supremazia del dollaro, in assenza della quale crollerebbe l’intero sistema imperiale (o meglio imperialistico) statunitense.
Il sorgere di una nuova entità asiatica – di cui la Russia è chiamata a svolgere il ruolo cruciale – capace di escogitare nuove strategie finalizzate all’integrazione dell’Europa, rappresenterebbe quindi la principale minaccia (mortale) rispetto al sistema unipolare dominato dagli Stati Uniti.
Su questo Zbigniew Brzezinski ha sempre avuto ragione.
Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’ambasciatore Ivo H. Daalder precisa le condizioni d’intervento della NATO in Siria

$
0
0

 

http://www.voltairenet.org/L-ambassadeur-Ivo-H-Daalder

 

L’Ambasciatore degli USA alla NATO, Ivo H. Daalder, ha tratto la lezione dal precedente libico davanti al Consiglio Atlantico, il 7 novembre 2011. Nella discussione che ne è seguita, la prima domanda è stata su un possibile intervento in Siria. L’ambasciatore ha allora posto tre condizioni per raggiungere questo obiettivo:

– una urgente necessità (in Libia, l’opinione pubblica internazionale era convinta che Gheddafi stava per radere Bengasi);

– un sostegno regionale (il Gulf Cooperation Council è stata la prima organizzazione intergovernativa a sostenere l’intervento militare. Aveva subito ottenuto il sostegno della Lega Araba.);

– un mandato internazionale (per ora gli Stati del BRICS, tra cui Russia e Cina in possesso del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, vi si oppongono).

Al contrario, da questa risposta si può dedurre strategia degli Stati Uniti:

– accusare Bashar Assad di voler radere al suolo Homs;

– ottenere il sostegno del CGG e della Lega araba;

– esercitare pressioni sulla Russia e la Cina.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://sitoaurora.altervista.org/home.htm

http://aurorasito.wordpress.com

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

5000 soldati qatarioti hanno partecipato alla colonizzazione della Libia

$
0
0

http://www.voltairenet.org/L-ambassadeur-Ivo-H-Daalder

 

L’Ambasciatore degli USA alla NATO, Ivo H. Daalder, ha tratto la lezione dal precedente libico davanti al Consiglio Atlantico, il 7 novembre 2011. Nella discussione che ne è seguita, la prima domanda è stata su un possibile intervento in Siria. L’ambasciatore ha allora posto tre condizioni per raggiungere questo obiettivo:

– una urgente necessità (in Libia, l’opinione pubblica internazionale era convinta che Gheddafi stava per radere Bengasi);

– un sostegno regionale (il Gulf Cooperation Council è stata la prima organizzazione intergovernativa a sostenere l’intervento militare. Aveva subito ottenuto il sostegno della Lega Araba.);

– un mandato internazionale (per ora gli Stati del BRICS, tra cui Russia e Cina in possesso del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, vi si oppongono).

Al contrario, da questa risposta si può dedurre strategia degli Stati Uniti:

– accusare Bashar Assad di voler radere al suolo Homs;

– ottenere il sostegno del CGG e della Lega araba;

– esercitare pressioni sulla Russia e la Cina.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://sitoaurora.altervista.org/home.htm

http://aurorasito.wordpress.com

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Paulo Borba Casella, BRIC: Brésil, Russie, Inde, Chine et Afrique du Sud

$
0
0
Paulo Borba Casella

BRIC: Brésil, Russie, Inde, Chine et Afrique du Sud
A l’heure d’un nouvel ordre juridique international

Séptembre 2011 – 208 pages
Ean – Isbn13 : 978-2-233-00626-4 ;
prix : 20 €
Editions A.Pedone – 13 rue soufflot 75005 Paris

A l’heure d’un nouvel ordre juridique international, les BRIC – la nouvelle coordination politique entre le Brésil, la Russie, l’Inde, la Chine et désormais aussi l’Afrique du Sud – est un des seuls faits nouveaux en matière de coopération internationale de ces dernières années. Le fait que ces états représentent à eux seuls la moitié de la population mondiale, un pourcentage non-négligeable du commerce mondial, qu’ils regroupent trois puissances nucléaires et comptent deux sièges permanents au Conseil de sécurité de l’ONU, justifie, alors qu’elle en est à ses balbutiements, qu’on lui porte une attention particulière.
L’organisation de la coopération BRIC n’a pas seulement des incidences sur les rapports bilatéraux et régionaux de ses pays membres ; elle symbolise les changements en cours, en vue de la construction d’un nouvel ordre mondial.
Un ordre qui se veut plus stable, plus ouvert, plus prévisible, et fondé sur les principes du droit international.
Les Etats-Unis d’Amérique et l’Union Européenne se voyant obligés de se consacrer à résoudre des questions internes, créent de facto un vide de gouvernance globale qui implique à penser le monde différemment.
Les pays membres du BRIC en aspirant à accentuer leur influence sur la scène internationale, et ce de façon concerté, seront-ils à l’initiative d’une version mondiale du vingt-et-unième siècle de ce que fut à une autre époque le « concert européen » ?

Paulo Borba CASELLA est professeur titulaire de la chaire de droit international public et vice-directeur de la Faculté de droit de l’Université de Sao Paulo, où il enseigne le droit international depuis 1984 et où il a également dirigé le centre de droit international et comparé. Depuis 2007, il est chaque année invité comme professeur étranger à l’Université de Macau, Chine. Il a également enseigné dans les Universités de Paris Panthéon-Sorbonne, de Paris Panthéon-Assas, de Strasbourg, de Nice et de Rennes, mais aussi d’Amsterdam, d’Asunción, de Buenos Aires, de Coimbra, de Córdoba, de Düsseldorf, d’Hambourg, d’Heidelberg, d’Helsinki, de Lisbonne, de Lodz, de Milan-Bocconi, de Maastricht, de New Delhi, d’Ottawa, de Rome, de Santa Cruz de la Sierra, de Santiago du Chili, de Saarbrücken, de Saint-Petersbourg, de Salamanca, de Tokyo, de Tübingen et d’autres. Ses travaux ont été publiés dans une vingtaine de pays.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

THE DOCTRINE OF DIVINE UNITY IN HELLENIC TRADITION

$
0
0

“The doctrine of Unity, i. e. the affirmation that the Principle of all existence is essentially One, is a fundamental point, shared by every orthodox tradition” (1). So writes René Guénon, according to whom “every authentic tradition is essentially a monotheistic one; using a more precise language, every tradition affirms first of all the unity of the Supreme Principle, from which all derives and upon which all completely depends; this affirmation, particularly in the expression assumed in the traditions having religious form, constitutes the true monotheism” (2).
According to this conception, an authentic traditional form cannot be a polytheistic one; in other words, it cannot admit a plurality of principles considered as completely indipendents. In fact, Guénon writes that the polytheism is “consequence of the incomprehension of some traditional verities, precisely of those concerning the divine aspects or attributes” (3); he also says that “this incomprehension is always possible in the case of isolated and more or less numerous persons; but its generalisation, corresponding to the state of extreme degeneration of a disappearing traditional form, has surely been rarer than one usually thinks” (4).
Then, if the legitimacy of a traditional form is strictly determined by its coherence with the doctrine of Unity, which is the degree of validity of the ancient European traditional forms, generally characterized by a plurality of deities?
As I cannot envisage this matter in all its extension, I will limit myself to consider the Hellenic culture, which is a typical one for the multiplicity of divine figures, generally having an anthropomorfic aspect.
It is true that the polytheistic perspective is surpassed by the philosophic thinking, which began looking for a unitary arché and culminated with the individuation of a causa causarum, called Supreme Good by Plato, Motionless Mover by Aristotle, Logos by the Stoics. In the Latin culture, this causa prima has been defined by Cicero as princeps deus, qui omnem mundum regit (5). Nevertheless, in ancient Greece the affirmation of divine Unity can be found not only in philosophy, but also otherwhere.
For example, in Homer’s Iliad we see the Olympic gods and goddesses who struggle the ones against the others, as some of them are favourable to the Achaeans, others to the Trojans; nevertheless, some episodes of the Iliad suggest a vision that reduces the multiplicity of divine figures to a superior and transcendent unitary principle.
For example, a passage of Iliad’s book VIII is the most ancient document concerning the argument we are envisaging. The episode is the following. Zeus convokes the council of gods on the highest summit of Olympos and prohibits all them from sharing in the battle. Zeus non only menaces he would throw the eventual transgressors into the deepness of Tartarus, but also puts into evidence his crushing superiority over all gods:

“Try, gods, that you may know!
Hang a golden chain from heaven,
and lay hold of it all of you, gods and goddesses together;
you will not be able to drag from heaven to earth
Zeus the supreme counsellor, with all your efforts.
But were I to pull at it myself,
I should draw you up with earth and sea,
then would I bind the chain about a pinnacle of Olympus
and leave all dangling in the sky.
So far am I above all others, gods and men”. (6)

The superiority of Zeus’ power to the power of all the gods put together symbolizes the essential nothingness of the divine beings’ multiplicity in face of the principle’s unity.
But the power of Zeus himself, which is supreme in face of that of the other gods, finds its own limit in the inflexible will of the Moira. The subordination of the personal god to this impersonal Will emerges very clear from those passages of Iliad where the Father of gods and men weighs the destinies of the contenders by means of a cosmic balance, which reveals him the Moira’s decree. The more explicit of such passages are in the books VIII (verses 69-75) and XXII (verse 209 and foll.): in the first one Zeus weighs the collective destinies of Trojan and Achaean strugglers, in the second one the individual destinies of Achilles and Hector. I quote from the second passage:

“Then, at last, the Father balanced his golden scales
and placed two dooms in them,
one for Achilles and the other for Hector the horsebreaker.
As he held the scales by the middle, Hector’s fatal day fell down deep,
into the houses of Hades. Then Phoebus Apollo left him”. (7)

Apollo abandons Hector to his own destiny, Athene anounces to Achilles that the victory will belong to him, Zeus renounces to the proposal of saving Hector’s life. All the gods subordinate themselves to the will of a divine force that transcends them all.
An analogue affirmation of Zeus’ supreme power is present in the parodos of Aeschylus’ Agamemnon, where the chorus, consisting of twelve elders, after having recalled the beginning of the expedition against Priam’s city, intones a solemn hymn:

“Zeus, whoever he may be, – if by this name
it pleases him to be invoked,
by this name I call to him –
as I weigh all things in the balance,
I have nothing to compare
save Zeus, if in truth I must cast aside
this vain burden from my heart”. (8)

Since Chalcas has predicted that Artemis’ hate against the Atrids would be terrible, the chorus says that, to eliminate the anxiety caused by this prediction, it is necessary to have recourse to Zeus, only to Zeus, because there is nobody and nothing which can be equal to him.
Zeus is the name used also by the Stoics, to mean the Logos which moulds every being, giving him soul and life. An expression of the stoic religiosity is the Hymn to Zeus written by Cleanthes from Axos (300-220 b. Chr.), which begins exalting Zeus as origin and sovereign of all that exists:

Most glorious of the immortals, invoked by many names, ever all-powerful,
Zeus, the First Cause of Nature, who rules all things with Law,
Hail! (9)

Max Pohlenz writes that, when the philosopher-poet “prays Zeus ‘invoked by many names’, the believers understand that Zeus, Logos, Physis, Pronoia, Heimarmene are only the different names of the unique universal Godhead” (10).

Also Aratus from Soli (320-250), in the solemn beginning of his Phaenomena, gives the name of Zeus to the cosmic manifestation’s principle, thought as omnipresent spirit:

“Let us begin with Zeus, whom we mortals never leave
unspoken; for full of Zeus are all the streets
all our market-places, full of him are the sea
and the harbours; everywhere everyone is indebted to Zeus”. (11)

Differently, in Plutarch the divine unity and unicity is not symbolized by the figure of Zeus, but by that of Apollo. In the dialogue On the E at Delphi, where are proposed some interpretations of the alphabetical letter E (epsilon) which is represented at the entry of Apollo’s Delphic temple, the final explication is given by Plutarch’s master, Ammonios: the E, being read eî, coincides with the second singular person of the present tense of the verbe eimí, then it means “You are”. Said to the god who exhorts the man to know himself (the phrase “know yourself”, gnôthi sautón, was graved on the face of the sanctuary), “You are” is an acknowledgement of Apollo as Being.

“Thus then we ought to hail him in worship, and thus to address him as ‘Thou art’, aye, or in the very words of some of the old people, ‘Thou art One’. For the Divine is not many things, as each one of us, made up of ten thousand different states, a multiform scrap-heap, a proud mixedness. No, the being must be one, as the one must be being. (…) Hence the first of the names of the god, and the second, and the third. He is Apollon, because excludes plurality and denies multiplicity; he is Ieios, because is One and Unique; Foibos, because the ancients called by this word all that which is pure and clean”. (12)

Following the hermeneutic method founded on the symbolic meaning of the elements constituting a word, Plutarch finds that the name Apollon can be understood as composed by a privative a- and by the theme of polýs, pollé, polý, “much, many”; then: “without multiplicity”. Similarly, Apollo’s name Ieîos is put into relation with heîs, “one”, while the appellation Foîbos, etymologically connected with fáos, “light”, means “luminous, pure”, then “unmixed”. Therefore Apollo’s divine person is a symbol of the sole and unique principle of the universal manifestation, it is the Supreme Self of all that exists.
On Plutarch’s traces, Numenios from Apameia (II cent.) interprets Délphios, Apollo’s epithet, as an ancient Greek word meaning “unique and sole” (unus et solus) (13).
In the “solar monotheism”, that under Aurelian (274 d. C.) becomes the official religion of the Roman Empire, Apollo is identified with Helios, whose Latin name itself, Sol, remembers the adjective solus (“unique”). In the epoch of Constantine, the figures of the solar god – Apollo and Sol Invictus – stand out in the coins and in the reliefs of the triumphal arch.
We know that in the Empire the solar monotheism was successful also thanks to the role of a solar cult which had a large diffusion among the peoples of the Eastern Mediterranean coast, specially in Syria. Purified from those elements that the Roman mentality could not accept, the cult of the so called “solar god from Emesa”, born among the nomadic populations of preislamic Arabia, became a Roman State cult, so that the god Sun was identified with Jupiter Capitoline and Apollo. Probably this fact, that René Guénon could have defined as “a providential intervention of East” in favour of Rome, could happen for the reason that the solar cult of the late ancientry represented the re-emersion of a common primordial heritage.
Concerning the meaning of the solar symbolics, it is convenient to quote René Guénon:

“The sun (…) is par excellence the symbol of the only one Principle (Allâhu Ahad): the necessary Being, the only one that is sufficient to Himself in its absolute fullness (Allâhu es-Samad); on it totally depend the existence and the subsistence of all things, that without It would be nothing at all. Therefore the ‘monotheism’ – if we can translate ‘Et-Tawhîd’ by this word, that narrows its meaning and suggests a nearly exclusively religious point of view – has an essentially ‘solar’ character. (…) One could not find a more true image of the Unity, which displays itself in the multiplicity without ceasing to be itself and without being influenced by the multiplicity, and apparently reduces to itself the multiplicity; this latter has never really existed, since nothing can exist out of the Principle, to which nothing can be added and from which nothing can be subtracted, as It represents the indivisible totality of the Unique Existence”. (14)

The doctrine of the so called “solar monotheism”, according to which Helios is a hypostasis of the Principle, while the different deities of the Greek-Roman pantheon are only specific and particular aspects of him, has been exposed by the emperor Julian in the oration entitled Hymn to King Helios (Eis tòn basiléa Hélion). Julian quotes a passage from Platon’s Politèia (508B-C), where it is said that the function of Sun (Hélios) in the sensible and visible world (kósmos aisthetós, oratós) is similar to the one of the Supreme Good, transcendent source of that which is, in the intelligible world (kósmos noetós). In other words: the daily star is nothing else but a reflection of that metaphysical Sun which illuminates and fecundates the world of archetypical essences, the platonic ideas. To say it with Julius Evola: “Helios is the Sun, not as a deified physical star, but as symbol of metaphysic light and power in a transcendental meaning” (15).
Between the intelligible world of the pure Being and the world of the bodily forms, which are perceptible to the eye and to the other senses, there is a third, intermediate world, defined as “intellectual” (noerós), i.e. endowed with intelligence.
Incidentally I remember that the muslim theosopher Mahmûd Qotboddîn Shîrâzî (1237-1311) resumes the doctrine of the three worlds saying that Plato and the other savants of ancient Greece “affirmed the existence of a double universe: on one side the universe of the pure suprasensible, comprehending the world of the Godhead and the world of the angelic Intelligences; on the other side, the world of the heavenly Spheres and the Elements; between the two, the world of the autonomous archetypal Forms” (16).
Hypostasis of the supreme Principle (“son of the One”) in the centre of the intermediate world, Helios fulfils a co-ordinative and unifying function in relation to the intellectual and demiurgical causes, as he participates in the unity of the transcendent Principle and the contingent multiplicity of the phenomenal manifestation. So his position is perfectly central and justifies the title of King that is attributed to Helios. In theological terms: all the gods depend upon the light of Helios, the only one being not subordinated to the constraining necessity (anánke) of Zeus, with whom he identifies himself.
On the traces of Henry Corbin, who includes the “so called late Neoplatonists” (then also the emperor Julian) among the qur’anic People of the Book (17), an Italian scholar has suggested that Helios “corresponds to that in Islam is called an-nûr min amri-Llâh, ‘the light which proceeds from the divine order'”, so that the god “is nothing else but the ‘niche of the lights’ from which (…) every knowledge is drawn” (18).
After that, Julian comes to treat about Helios’ powers (dynámeiai) and energies (enérgheiai), that is, respectively, about his potencies and activities in relation to the three worlds. The most considerable aspect of this part of the Hymn (143b-152a) consists in the attempt of reduce the multiplicity of gods to a unique Principle represented by Helios, so that the different divine figures appear as his aspects, as Names corresponding to his innumerable qualities. A similar doctrine had been exposed by Diogenes Laertius, who interpreted Zeus, Athene, Hefaistos, Poseidon, Demeter as appellations corresponding to the “modes of the power” of the unique God (19).
Then Helios possesses the demiurgic power of Zeus, from whom he is not really different. Athene Prònoia, in her wholeness, has sprung from the wholeness of Helios; being the perfect intelligence of Helios, she unites the gods who are around him and implements the unity with him. Aphrodite represents the fusion of the heavenly gods, the love and harmony which characterize their essential unity.
The last part of the Hymn enumerates the gifts and the benefits dispensed by Helios to the mankind, which has its origin from him and receives sustenance from him. Father of Dionysos and Lord of the Muses, Helios gives every science; inspirer of Apollo, Asclepios, Aphrodite and Athene, he is the legislator of the community; finally it’s he, Helios, the true founder and protector of Rome. To Helios, creator of his immortal soul, Julian addresses his prayer; he asks the god to give an immortal life to Rome, identifying “with the prosperity of the Empire not only his personal mission on the earth, but also his spiritual salvation” (20).
The oration is sealed by a last prayer to Helios, the third contained in the Hymn: may the God of universe concede to his devoted servant a virtuous life and a better knowledge and, in the supreme hour, let him ascend to Him.
The Hymn to King Helios is dedicated by Julian to Sallust, who in the treaty About the gods and the universe enunciates the doctrine of Unity in the following terms: “The first cause must be one, because the unity precedes the multiplicity and is superior to everything in power and goodness; therefore it is necessary that everything participates in it, because nothing else will hinder it, thanks to its power, nor will remove it, thanks to its goodness” (21).
If considered from a historical perspective, Julian’s solar theology finds its place in a mature phase of Neoplatonism, a phase in which the doctrinal foundations of this spiritual school are already consolidated. The founder of the school, Plotinus (204-270), had indicated the One as the principle of the being and the centre of the universal possibility, while his successor Porphyry from Tyros (233-305) had dedicated to the solar theology his treaty On the Sun (22). This text is lost, but is quoted in the Saturnalia, where Macrobius, relating Apollo, Liber, Mars, Mercury, Saturn and Jupiter to the solar principle, says that, according to Porphyry, “Minerva is the power of Sun and gives sageness to the human minds” (23). In the treaty About the philosophy of the oracles (24), Porphyry had quoted an Apollonian response according to which there is only one god, Aion (“Eternity”), while the other gods are nothing else but his angels.
After Julian, it is possible to follow the solar tradition unto Proclus (410-485), author of a Hymn to Helios in which the god is invoked as “king of the intellectual fire” (pyròs noeroû basileús, v. 1) and “image of the god generator of all things” (eikôn panghenétao theoû, v. 4) (25), i.e. as an epiphany of the Supreme God. Concerning the multiplicity of the gods, Proclus relates it to the One; and the One is God, because, he arguments, the Good and the One are the same and the Good is God (26). Therefore it can be understood why Henry Corbin recommended the confrontation between Proclus’ theology and the doctrines of Dionysius Areopagite and Ibn ‘Arabî. In particular, he writes, it would be very instructive

“a deepened comparation between the theory of the divine Names and that of the theophanies which are the divine Lords; I mean a parallel between Ibn ‘Arabî on one side (the ineffableness of the God, who is the Lord of Lords, and the theophanies corresponding to the hierarchy of the divine Names) and Proclus on the other side (the hierarchy having its origin in the henad of the henads and propagating itself through all the degrees of the Being’s hierarchies” (27).

“The last attestation of the solar syncretism in West” (28) is Philologia’s prayer to the Sun (29), a “considerable document of the ‘solar theology’ of late Neoplatonism” (30) due to Martian Capella, a contemporary of Proclus. This is the last attestation, because after 531, when the last scholarch of the School of Athens Damascius (470-544) and the other Neoplatonists escaped to Persia, the solar tradition continued to exist in the same places from which the mithraic cult had diffused to Europe.
In the opinion of Franz Altheim, the solar theology elaborated by the Neoplatonists had an important relation with islamic monotheism. “The message of Muhammad – he writes – had its pivot in the concept of Unity and excluded that the Godhead could have a ‘partner’; so he followed the steps of the antecedent neoplatonist and monophysite fellow-countrymen. The religious enthusiasm of the Prophet succeeded in affirming with intensified force the same idea that had animated others before him” (31).

1. R. Guénon, Aperçus sur l’ésotérisme islamique et le taoïsme, Gallimard, Paris 1973, p. 38.
2. R. Guénon, Monothéisme et angélologie, “Études Traditionnelles”, n. 255, Oct.-Nov. 1946.
3. Ibidem.
4. Ibidem.
5. “Princeps deus, qui omnem mundum regit” (Cicero, Somnium Scipionis, 3).
6. Homer, Iliad, VIII, 18-27.
7. Homer, Iliad, XXII, 209-213.
8. Aeschylus, Agamemnon, 160-166 (transl. by H. Weir Smyth).
9. Cleanthes, Hymn to Zeus, I Powell, 1-3.
10. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1967, I, p. 218.
11. Aratus, Phaenomena, 1-4.
12. Plutarch, On the E at Delphi, 393 b-c.
13. “Apóllona Délphion vocant, quod (…), ut Numenio placet, quasi unum et solum. Ait enim prisca Graecorum lingua délphon unum vocari” (Macrobius, Saturnalia, I, 17, 65).
14. R. Guénon, Et-Tawhîd, “Le Voile d’Isis”, July 1930.
15. J. Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, p. 140.
16. H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 1986, p. 140.
17. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 70.
18. R. Billi, L’Asino e il Leone. Metafisica e Politica nell’opera dell’Imperatore Giuliano, University of Parma, 1989-1990, pp. 79-80.
19. Diogenes Laertius, VII, 147 (Stoicorum Veterum Fragmenta, II, fr. 1021).
20. M. Mazza, Filosofia religiosa ed “Imperium” in Giuliano, in: B. Gentili (ed.), Giuliano Imperatore, QuattroVenti, Urbino 1986, p. 90.
21. Sallustio, Sugli dèi e il mondo, ed. by C. Mutti, Edizioni di Ar, 2a ed., Padova 1993, pp. 27-28.
22. Porphyry’s treaty is quoted by Servius (Commentary to the Eclogues, V, 66) and perhaps must be identified with the treaty About the divine names; it is also possible that it was a part of the Philosophy of the oracles. Cfr. G. Heuten, Le “Soleil” de Porphyre, in Mélanges F. Cumont, I, Bruxelles 1936, p. 253 ff.
23. “et Porphyrius testatur Minervam esse virtutem Solis quae humanis mentibus prudentiam subministrat” (Macrobius, Saturnalia, I, 17, 70).
24. G. Wolff (ed.), Porphyrii de philosophia ex oraculis haurienda librorum reliquiae, Springer, Berlin 1866.
25. Proclo, Inni, ed. by D. Giordano, Fussi-Sansoni, Firenze 1957, pp. 20-25.
26. Proclo, Elementi di teologia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1983, pp. 94-95.
27. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, p. 8.
28. R. Turcan, Martianus Capella et Jamblique, “Revue des Études Latins”, 36, 1958, p. 249.
29. Martian Capella, De nuptiis, II, 185-193.
30. L. Lenaz, Introduction to: Martiani Capellae De nuptiis Philologiae et Mercurii liber secundus, Liviana, Padova 1975, p. 46.
31. F. Altheim, Deus invictus. Le religioni e la fine del mondo antico, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, pp. 115-116.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Dove va la Turchia? Intervista ad Aldo Braccio

$
0
0

Fonte: “European Phoenix

 

Europeanphoenix incontra Aldo Braccio, turcologo, studioso della Turchia contemporanea e redattore della rivista di Studi Geopolitici “Eurasia”, autore di vari saggi ed articoli pubblicati sia sulla rivista che sul suo sito. Di recente pubblicazione è il suo “Turchia ponte d’Eurasia – Tra Mediterraneo e Asia centrale il ritorno di Istanbul sulla scena internazionale”: http://turchiapontedieurasia.blogspot.com/ 

Per prima cosa, poiché la storia e la geografia sono fondamentali per comprendere il presente, ti chiedo di descriverci in sintesi come si giunge all’attuale Repubblica di Turchia, i cui confini corrispondono all’incirca con quelli dell’Anatolia, già bizantina, greca, ittita eccetera… I turchi, in senso lato, si trovano infatti anche in Asia centrale, fin all’interno della Repubblica popolare cinese (Turkestan orientale, o Xinjiang)… Per di più, i popoli turcofoni non sono stati tra i musulmani della prim’ora. Eppure, oggi, dici “Turchia” e subito si pensa ad una realtà più ristretta di quella che in realtà è se si considera lo spazio che da Istanbul arriva fino al Turkestan più estremo. Sarebbe inoltre opportuno che, descrivendoci questo processo storico che ha condotto all’attuale situazione per cui i “turchi” vengono percepiti in Occidente unicamente “gli abitanti della Turchia”, ci parlassi della forza e del ruolo che, concretamente, al di là di vaghe aspirazioni, può avere un ideale “panturanico” nell’attuale scenario geopolitico mondiale.

I turchi, come giustamente rilevi, hanno avuto una dimensione storica e geografica che va molto al di là del territorio anatolico. Provenienti, a quanto ne sappiamo, dalle regioni settentrionali dell’Eurasia, dalla taiga siberiana, ove praticavano lo sciamanesimo (la prima parola turca che conosciamo è “Tengri”, il grande Dio celeste), essi si sono trasferiti nel cuore dell’Asia, approssimativamente nella Mongolia centroccidentale e nella zona verso il grande lago Balhash. Storicamente il loro territorio di irraggiamento, la loro “capitale” è l’Őtuken, la foresta sacra situata nella Mongolia settentrionale, loro effettiva patria d’origine (“non c’è mai stato niente di superiore ad essa – se ci abiti, sarai per sempre detentore di un impero eterno”, recita un loro canto). Popolo nomade per eccellenza – o meglio: insieme di popoli nomadi – i turchi sono entrati in contatto, spesso dominandoli, con innumerevoli popolazioni: cinesi, iraniane (con cui lo scambio culturale è stato particolarmente rilevante), indiane, centroasiatiche, europee, mediterranee. Con le dovute eccezioni storiche, si può dire che le relazioni fra turchi e… resto del mondo si sono generalmente manifestate in un clima di relativa tolleranza, in particolare religiosa. La successiva adesione all’Islam è anch’essa avvenuta senza traumi e in un quadro di rispetto per le altre forme religiose. Tra arabi e turchi, in particolare, la religione islamica ha favorito un positivo matrimonio, anziché una deflagrazione. Oggi comunque – terminata una grande storia, una vera epopea – i turchi sono essenzialmente percepiti come gli abitanti della repubblica di Turchia, ed è probabilmente giusto che sia così; di popoli turcofoni ce ne sono ovviamente anche altri, ma l’ideale panturanico non può andare al di là di un importante richiamo culturale e dello stringere relazioni di carattere politico e commerciale. Esso può però servire a compattare e rendere più salda e solidale un’area strategica fondamentale se saprà collocarsi all’interno di una più grande realtà e comunità di popoli che ovviamente non è solo turca: una realtà eurasiatica, in prospettiva, una realtà inclusiva ma di rispetto delle caratteristiche proprie di ogni popolo.

 

A questo punto la domanda sorge spontanea: in che misura, concretamente, l’attuale dirigenza turca si sta muovendo in un’ottica “eurasiatista”, di una auspicabile “pax eurasiatica” in armonia con gli altri poli regionali dell’Eurasia, e quanto, invece, sta perseguendo un disegno egemonico a tutto campo? Intendo dire che ad un certo punto il rischio è quello d’entrare in rotta di collisione con altri poli regionali dell’Eurasia (penso all’Iran, all’Egitto, e addirittura alla Russia, visto che sulla Siria la Turchia sta premendo non poco)… Nel Vicino Oriente l’influenza turca, anche come “modello”, è tangibile, e nel Mediterraneo la Turchia non nasconde la sua volontà espansionistica, dalla Tunisia all’Egitto, passando per la Libia (subitaneo riconoscimento del nuovo regime), per non parlare dell’annosa questione cipriota… E poi abbiamo l’influenza turca nei Balcani, fino all’Albania e alla Bosnia… E come si sposa questa “grande politica” con l’appartenenza della Turchia alla Nato?

Certamente dalla Turchia giungono segnali contraddittori a fronte di una situazione complessa e della non sempre coerente applicazione dei principi di “profondità strategica” sanciti dal suo ministro degli Esteri Davutoğlu. Fu proprio lui a elaborare, nel suo saggio fondamentale Stratejik Derinlik, scritto quando ancora era solo un accademico, le linee geopolitiche che ribaltavano il passato puramente atlantista e “occidentale” della politica estera turca. L’epoca della Guerra Fredda veniva definitivamente accantonata e l’esigenza di buoni rapporti con i Paesi vicini affermata con forza, nel quadro di una politica equidistante fra Europa e Asia (“La Turchia è un Paese tanto europeo quanto asiatico, tanto balcanico quanto caucasico, tanto mediorientale quanto mediterraneo”). Non si può negare che la nuova politica turca riproponga in qualche modo una visione del mondo che fu quella del lungimirante Impero Ottomano, nel senso che cerca di affidare alla Turchia una funzione  sovrana e centrale atta a riequilibrare spinte provenienti dall’esterno, armonizzandole e compensandole: e ciò vale anche sul piano interno, dove aperture significative si sono avute sulla questione curda e in parte su quella armena.

Ma se i presupposti sono buoni, e se dal 2002 (prima grande vittoria elettorale dell’AKP) molti passi sono stati fatti su questa strada (ricordiamo soprattutto le ristabilite positive relazioni con l’Iran e con la Russia, la mancata partecipazione alla guerra di aggressione contro l’Iraq, la coraggiosa difesa dei palestinesi e il distacco dalla politica bellicista e coloniale di Israele), certamente rimangono aspetti di segno contrario, prese di posizione alquanto deludenti. Hai giustamente sottolineato la permanenza di Ankara all’interno della NATO: questo comporta una maggiore difficoltà di svolgere un ruolo autonomo, considerata anche la presenza di vertici militari da sempre molto legati all’Occidente a guida statunitense, ideologicamente e operativamente massoni e filosionisti. Questi ambienti si sono distinti per continui colpi di Stato e pressioni addirittura di stampo terroristico, così come certa alta magistratura ha condotto una guerra continua – a base di cancellazione dall’oggi al domani di partiti grandi e piccoli e di altri provvedimenti giudiziari –  contro i settori politici meno allineati. Fatto sta che la politica internazionale turca ha talora assunto posizioni gravemente confliggenti con i suoi presupposti teorici: cito il caso del Kosovo e, oggi o appena ieri, quelli della Libia e della Siria. Nella previsione  – alquanto cinica –  di un rapido ribaltamento dei rispettivi regimi e dell’instaurazione di governi più compiacenti verso l’Occidente, Ankara sta introducendo gravi motivi di tensione proprio nel rapporto con quegli Stati – Iran e Russia – che sono essenziali per l’equilibrio e l’autonomia dell’intera area di cui la Turchia fa parte. Particolarmente miope è l’incomprensione nei confronti della Siria, ove un terrorismo armato sfacciatamente organizzato e sostenuto dai soliti mestatori (USA, GB, Francia, Israele) sta innestando in maniera folle una situazione esplosiva, anche perché Russia e forse anche Cina non sembrano, stavolta, disposti alla politica dello struzzo: senza contare l’allarme che la vicenda ovviamente suscita in Iran, Paese con il quale la Turchia ha tuttora buoni rapporti. Diversa è la situazione per Cipro, ove è ora Israele a soffiare sul fuoco, dopo aver recuperato un’intesa strategica con la disastrata Grecia a danno della Turchia: certo una soluzione della questione cipriota è auspicabile sia per i greci che per i turchi, ma questa potrà presumibilmente avvenire solo nella prospettiva della cessazione della freddezza/ostilità della UE nei confronti del Paese “ponte d’Eurasia”.

A proposito di Unione Europea, che cosa ci puoi dire sulla questione “Turchia dentro, Turchia fuori”? Tempo addietro avevo abbozzato una breve analisi del problema, che a mio avviso è posto male (leggi qua). Oggi avverto un progressivo disincanto della stessa Turchia, nello specifico della sua nuova classe dirigente “islamica”, rispetto alla prospettiva di un ingresso nell’UE. Pensiamo solo a come vengono massacrati i cosiddetti “PIIGS” dall’eurocrazia che esegue pedissequamente i dettami dell’élite finanziaria che detiene le leve del potere in Europa. Una Turchia – un ‘carattere’ turco! – gelosa della propria sovranità nazionale (ma che comunque, ricordiamolo, sta ancora nella Nato), potrebbe mai accettare le cessioni di sovranità ‘necessarie’ per far parte dell’Unione Europea? E come mai gli sponsor di questa operazione, oggi per la verità piuttosto silenti, erano invariabilmente di stretta ‘osservanza atlantica’? Non è che con questa “polpetta avvelenata” s’intendeva depotenziare la Turchia togliendola dal suo alveo naturale?

È difficile non concordare sul fatto che l’Unione Europea rappresenti oggi un vero e proprio disastro per l’Europa, le sue tradizioni e il suo avvenire. Un’entità priva di autentica sovranità politica, abbandonata alla predazione di speculatori finanziari, e, per quanto riguarda i rapporti internazionali, succube dei diktat americani. I turchi si rendono conto di ciò, anche a livello di opinione pubblica, e risultano ora più freddi – tutti i sondaggi lo confermano – sull’ipotesi di adesione all’UE. D’altra parte, anche per l’incredibile lungaggine della procedura di ammissione, viene certamente percepita  la diffidenza, perfino l’ostilità europea nei loro confronti, e vissuta da alcuni come una sfida da vincere, da altri come un buon motivo per rinunciare. Prescindendo da questioni di carattere geopolitico – importanti, e su cui poi tornerò – si può dire che il banco di prova della Turchia in Europa è il banco di prova dell’Islam in Europa, e come tale è vissuto da molti europei. La Turchia dell’AKP è avvertita come il tramite privilegiato di una malintesa “invasione islamica”, confusa spesso subdolamente con la questione immigratoria, che a sua volta nulla ha a che fare con l’Islam ma è invece uno dei tanti frutti marci della globalizzazione, la vera responsabile dello sradicamento dei popoli. L’ostilità verso la Turchia è in realtà l’ostilità verso l’Islam, ossia verso una forma tradizionale e religiosa legittima che è vissuta con fastidio e rancore da questo Occidente superficiale e desacralizzato, sedicente pacifista ma guerrafondaio. In questo senso l’integrazione della Turchia in Europa non sarebbe un pericolo ma un arricchimento, uno stimolo a uscire dalla piatta e orizzontale dimensione “atlantica” in cui versa l’UE. Inoltre – e qui torniamo a considerazioni di ordine geopolitico – il Paese anatolico costituisce (dopo la penisola iberica, quella italiana e quella greco-balcanica) la quarta grande penisola proiettata nel Mediterraneo, e il tramite attraverso cui possono pervenire nel nostro continente i ricchissimi approvvigionamenti energetici del Caspio e delle zone limitrofe; ma anche l’intermediario autorevole verso altre realtà asiatiche, come l’Iran, e verso le nazioni arabe. Bisognerebbe anche ricordare che – storicamente – la Turchia è sempre stata in relazione con l’Europa, costituendo l’arco di volta di imperi che – da Alessandro Magno in poi – abbracciavano tanto l’Europa che l’Asia. Certamente poi – come hai osservato – nelle intenzioni degli agitprop “occidentali” e atlantisti l’ammissione di Ankara nell’UE aveva lo scopo di uniformarla ai dettami della globalizzazione snaturandone i lineamenti essenziali, a partire dall’Islam per arrivare, ad esempio, alla concezione tradizionale della famiglia e alla poca propensione a indebitarsi con gli organismi finanziari internazionali (propensione che era invece ben presente in passato, nella “Turchia sentinella dell’Occidente”). Poiché ci troviamo in un momento piuttosto complesso e contraddittorio della politica estera turca – per dire : da una parte l’allontanamento da Israele, dall’altra la grave incomprensione della questione siriana – non si capisce bene chi eventualmente – in caso di ammissione di Ankara all’UE –  mangerà la polpetta avvelenata, se la Turchia o gli ambienti atlantisti europei.

Mi servi la domanda sul piatto: come interpretare l’atteggiamento della Turchia nei confronti della Siria? Di prim’acchito appare sbalorditivo il fatto che Ankara operi tutte queste pressioni su Damasco (pare vi siano stati addirittura degli scontri armati al confine)… Credi che tali pressioni siano “a fin di bene”, per aiutare la Siria ad uscire dall’empasse? Oppure per prepararsi un vantaggio, giocando d’anticipo, in vista di un prossimo attacco “Occidentale” (il virgolettato è sempre più d’obbligo, poiché tra i “liberatori” della Libia vi sono anche gli Stati del Golfo da sempre alleati di Usa e Gran Bretagna)? La Turchia potrebbe infatti aver paura che da un attacco alla Siria possa nascere un “Kurdistan indipendente”, perennemente ostile, comprensivo dei territori del nord dell’Iraq, in cui, tra l’altro, l’esercito turco è attivo militarmente per fronteggiare le milizie foraggiate dagli occidentali.
La Turchia ha inoltre deluso i fautori della “causa palestinese” imbarcatisi sulla Freedom Flotilla, prima illusi su un sostegno da parte della marina militare turca e poi mandati letteralmente allo sbaraglio! Per non parlare della seconda Flotilla, osteggiata apertamente dal governo turco… Alla luce di questi comportamenti poco “lineari”, temo che la Turchia, come altre “potenze regionali”, intenda imporre l’intera sua “linea”, comportandosi da “grande potenza”. Ma di questo passo, se ciascuno pensa di essere il “centro del mondo”, addio “integrazione eurasiatica”… Potremmo addirittura assistere, un domani, ad impreviste contrapposizioni militari tra “potenze regionali” d’Eurasia, col proverbiale “terzo che gode” di fronte ai due litiganti…

Sì, potremmo veramente assistere – o riassistere – a questi tristi scenari, e purtroppo in questa fase la Turchia sta confortando questa tesi. L’eventualità di una guerra alla Siria – di un’ennesima aggressione occidentale contro un Paese sovrano, per essere più precisi – assumerebbe il carattere di vera catastrofe anche per la Turchia, e questo i turchi lo sanno bene: significherebbe il crollo dell’impianto geopolitico costruito da dieci anni a oggi – la politica di buon vicinato e di fattiva collaborazione con la Russia, l’Iran, la Cina stessa; significherebbe, in prospettiva, anche la divisione e di nuovo la contrapposizione fra arabi e turchi, e questo qualsiasi posizione prendessero certi regimi arabi corrotti e prezzolati. Non credo che si voglia questo, per cui ci auguriamo che certe valutazioni siano presto riconsiderate. Per di più la presenza di un territorio nazionale siriano abbandonato al frazionamento e all’anarchia – seppure sotto il tallone della NATO, o di chi per essa – favorirebbe, come in Iraq,  il riconsolidamento di roccaforti del PKK e di aspirazioni secessioniste. D’altra parte il pronunciamento turco sui fatti siriani è abbastanza sibillino, un po’ come è stato quello sulla situazione libica: dopo una prima fase di non-ingerenza e anzi di freddezza verso le geremiadi occidentali si è passati a un sostegno deciso delle pretese atlantiche, manifestate come sempre sotto forma di campagne umanitarie. Il mese di svolta, per quanto riguarda la Turchia, è stato il maggio 2011: ancora a metà mese Erdoğan affermava pubblicamente che Bashâr al-Asad era un buon amico, nonostante qualche ritardo nelle riforme, mentre a fine mese – dopo la pubblicazione di un’allarmata relazione del think-tank turco USAK, meglio conosciuto come International Strategic Research Organization, che chiedeva di cambiare radicalmente l’orientamento nei confronti di Damasco – gli “oppositori” siriani venivano ospitati ad Antalya e il regime di al-Asad veniva repentinamente accusato di barbarie.

 
Speriamo dunque di sbagliarci… Uno dei motivi di delusione derivanti da queste ultime mosse della Turchia deriva dalla sensazione che con l’Akp, in grado di parare alcuni tentativi di “golpe laicista” (si pensi al complotto che ha visto coinvolti alte cariche dell’esercito e della magistratura), Ankara intendesse inaugurare una politica più lungimirante e meno “nazionalista”. Probabilmente, quest’avvicendamento storico alla guida del Paese, impedito più volte con le maniere forti (si pensi alle successive messe al bando dei “partiti islamici”) e che incontra ancora resistenze nei circoli legati al kemalismo, sta imprimendo un cambiamento più sensibile all’interno, mentre in politica estera si fa fatica a virare con maggior decisione rispetto ad un passato filo-atlantista. Per carità, le differenze, a partire dalla mancata collaborazione con gli Usa nell’invasione dell’Iraq, si vedono, ma non è forse nella società turca che stanno avvenendo i cambiamenti più rapidi? Penso alla rinnovata “vita religiosa”, in precedenza non poco ostacolata. Confermi quest’impressione oppure anche su questo fronte c’è ancora molto da lavorare a causa dei danni del passato “laicista”? E tutto ciò come si sposa con il concetto di “neo-ottomanesimo”?

Anche come esperienza personale mi sembra proprio di poter confermare quest’impressione: l’azione disgregatrice del “mondo moderno” – formula sintetica e archetipo ben presente a chi conserva un orientamento tradizionale – non è certo venuta meno, ma un corpo sociale generalmente sano e non inquinato dal relativismo occidentale contemporaneo si mantiene abbastanza integro. Un fenomeno come quello delle “tigri anatoliche” fa da termometro del clima culturale e dell’assetto valoriale di questo Paese: lavoro e impresa nel rispetto della preghiera e dell’integrità umana, integrità considerata non solo dal punto di vista fisico ma anche spirituale; e sono stati proprio gli imprenditori vincenti della profonda Anatolia, per lo più estranei alla grande industria e al grande capitalismo, a “opporsi alla firma di un nuovo accordo con il Fondo Monetario Internazionale, rifiutando di mettere sotto tutela il bilancio dello Stato”, come ricorda l’economista Sűleyman Yaşar, professore all’Università di Istanbul. A parte questo, consiglierei ai nostri benpensanti, progressisti e no, costantemente spaventati dai costumi e comportamenti islamici, di farsi un giro – ma è un esempio fra mille – per il quartiere Fatih di Istanbul: troveranno, assieme alle donne velate e/o in costume tradizionale, tanta compostezza e serenità, e una cortesia inusuale in una grande città. Ad ogni modo certamente la vita religiosa – in passato osteggiata e limitata dall’intolleranza ideologica  kemalista – si può oggi dispiegare in condizioni accettabili di libertà, eccezion fatta per alcuni provvedimenti discriminatori come il divieto di portare il copricapo tradizionale nelle scuole pubbliche. La convergenza con concezioni neo-ottomane si può effettivamente riscontrare in certi aspetti della politica estera (progetto di una centralità turca in armonia col mondo circostante – in particolare quello arabo – in esplicito rifiuto dell’ordinamento internazionale sorto dalla Guerra Fredda) così come sul fronte interno (apertura verso le componenti nazionali minoritarie, in particolare verso i curdi; forte diminuzione dell’aspetto nazionalistico e riscoperta storica e culturale del passato imperiale, non più considerato con imbarazzo ma diventato quasi “di moda”).

In conclusione del nostro colloquio, sottolineerei che questo Paese, così accogliente e ospitale, ma dal presente ancora così imprevedibile e controverso, rappresenta per noi europei un interlocutore importante e un esempio di percorso, di viaggio verso il recupero della sovranità. Che questo percorso si compia interamente, fuori dalle chimere “occidentali” purtroppo egemoni in Europa, è l’auspicio nel loro e nel nostro interesse, ed è la scommessa fondamentale che oggi impegna l’intero popolo turco.

 

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il “fallimento controllato” dell’Italia

$
0
0

L’Italia e la Grecia stanno entrando in una nuova fase del loro “iter fallimentare”, silenziosamente avviato dalla BCE: la fase dell’espropriazione dei beni per ripagare i creditori. L’Italia perderà così le sue residue capacità strategiche, entrerà in una fase economica di crisi ancor più dura, e sarà retrocessa nelle gerarchie internazionali.

 

È un istituto giuridico comune, noto a tutti, quello del “fallimento”. Il debitore incapace di pagare i propri crediti incorre in alcune misure coercitive. V’è – ma non più in Italia – la “amministrazione controllata”: il Tribunale vigila sul debitore, tramite un apposito commissario, affinché prenda le misure atte a ripagare i creditori (ossia ad essere “solvente”). Laddove si giudichi impossibile pagare i debiti – cioè si verifichi lo stato di insolvenza – il debitore dichiara fallimento: i beni pignorabili gli sono espropriati a forza e vengono distribuiti tra i creditori.

Ciò che vale per le imprese e per i privati, vale anche per gli Stati – sebbene con qualche modificazione. Gli Stati, in quanto sovrani, non sono sottoposti ad un’autorità superiore legittimata ad emanare sentenze e a farle rispettare anche con misure coercitive. Esistono un diritto internazionale ed organizzazioni internazionali, che però dipendono per la loro efficacia o dalla buona volontà degli Stati, o dalla capacità di uno o più Stati di far rispettare ciò che sanzionano.

Uno Stato può quindi indebitarsi: i creditori potranno essere altri Stati, o banche e privati – ma i cui interessi generalmente sono difesi dagli Stati d’appartenenza – o ancora istituti internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) o la Banca Mondiale (BM). Ed uno Stato può aver difficoltà e ripagare i debiti, o anche giungere all’insolvenza. A questo punto, però, sorgono le differenze rispetto alle sorti di imprese e privati in condizione analoga. Il creditore non ha un tribunale cui rivolgersi. Vi sono dunque due vie: quella coercitiva, e quella consensuale.

Era frequente nell’Ottocento che i ricchi paesi creditori agitassero la minaccia dell’uso della forza per costringere i paesi debitori a pagare, a qualsiasi costo. Talvolta si passava alle vie di fatto: l’Egitto fu conquistato dai Britannici proprio per un affare di debiti. Oggi l’invasione di un altro Stato per riscuotere i crediti è caduta in disuso, ma qualcosa d’analogo lo si fa (tipicamente verso gli Stati del Terzo Mondo) ricorrendo a golpe e rivoluzioni orchestrati dall’esterno: si rovescia il governo riottoso ed insolvente e lo si sostituisce con uno pronto a pagare i debiti anche a costo di far morire di fame i suoi cittadini.

Questa soluzione non è però facilmente praticabile, soprattutto quando lo Stato debitore sarebbe capace di difendersi, o quanto meno di far pagare a caro prezzo un attacco militare. Allora si tratta: creditori e debitori si siedono attorno ad un tavolo. Lo Stato debitore, godendo del vantaggio – rispetto al privato o all’impresa debitore – di potersi difendere dalle misure coercitive, riesce talvolta a spuntare condizioni favorevoli. Sei anni fa l’Argentina procedette alla “ristrutturazione” del proprio debito: in parole povere, non potendo realisticamente ripagare il debito accumulato, lo rinegoziò coi creditori, concordando con essi i nuovi importi da versare, sensibilmente più bassi di quelli originari.

Spesso però i dirigenti degli Stati debitori non riescono o non vogliono strappare simili concessioni. È il caso dell’Italia e pure della Grecia (malgrado quest’ultima abbia ottenuto almeno il condono d’un quarto del debito, detenuto dalle banche).

Per Roma e Atene si è avviata la versione statuale dell’iter fallimentare. Dapprima l’amministrazione controllata: la Banca Centrale Europea (BCE), rappresentante innanzi tutto delle grandi potenze europee e della finanza occidentale, ed in misura minore il FMI, hanno dettato ai governi le misure da adottare, ed hanno vigilato sulla loro applicazione.

I risultati non sono apparsi soddisfacenti. In Italia Berlusconi è apparso troppo reticente a portare avanti l’agenda fissata dalla BCE. In Grecia Papandreu, in un sussulto di lealtà al regime democratico formalmente in vigore, ha immaginato di sottoporre il pacchetto di misure all’approvazione popolare. Entrambi hanno avuto, politicamente, vita breve.

In Grecia Papandreu ha dovuto fare repentinamente marcia indietro; prima di dimettersi ha licenziato tutti i vertici delle FF.AA., una decisione con cui forse ha voluto lasciare un indizio su cosa fosse successo dietro le quinte. Il governo è stato ora affidato a Lucas Papademos, un economista formatosi negli USA, ex dipendente della Federal Reserve Bank of Boston (una branca della banca centrale statunitense) e vice-presidente della Banca Centrale Europea. A lui il compito di mandare avanti il pacchetto di “riforme” neoliberali che la BCE ha imposto alla Grecia.

In Italia Berlusconi è dimissionando, e appare quasi certo che a sostituirlo sarà Mario Monti. Anche lui economista con una formazione nordamericana, come Papademos ha servito in Europa, benché non alla BCE ma alla Commissione Europea. È consigliere, oltre che della Coca-Cola Company, della banca privata statunitense Goldman Sachs, già datrice di lavoro di Romano Prodi e Mario Draghi (ma anche di Henry Paulson, il segretario al Tesoro USA che decise di lasciar fallire Lehman Bros.) e non priva di responsabilità negli attuali problemi della Grecia.

Quale ruolo ricoprano Papademos e Monti nell’iter fallimentare di Grecia e Italia si può comprendere dalle ricette prescritte dalla BCE. Oltre ad una serie di misure neoliberali – dai “licenziamenti facili” alla diminuzione dei salari – il cui risultato ultimo sarà di contrarre i consumi (e con essi la domanda, gl’investimenti, il PIL, il reddito ed in ultima istanza anche le entrate fiscali) le richieste vertono sulla parola-chiave della “privatizzazione”. La dismissione del patrimonio statale per pagare i debiti: nient’altro che il pignoramento e l’espropriazione di cui sopra, i quali non potendo effettuarsi per via coercitiva come coi privati insolventi, sono affidati ad un “liquidatore” posto a capo del governo del paese fallito. Con il tacito consenso dei suoi dirigenti, e quello più o meno consapevole della popolazione.

I richiami alla “responsabilità” ed alla difesa del “interesse del paese”, che si susseguono in questi giorni, non bastano a coprire la triste realtà: che l’Italia sta per perdere quel poco controllo che le rimaneva su settori strategici per la forza e prosperità nazionale (approvvigionamento energetico, produzione d’armamenti, raccolta del risparmio nazionale); che l’economia italiana sarà soffocata dall’esiziale combinazione di tassazione “scandinava” e servizi “all’americana” (ossia pressione fiscale altissima, e servizi sociali scarsi o assenti). Soprattutto, che un’alternativa c’era (vedi Morire per il debito?, 15 agosto), ma non è stata nemmeno presa in considerazione. È davvero per l’interesse dell’Italia, come si proclama a gran voce, che i nostri dirigenti stanno agendo in questi giorni?

 

* Daniele Scalea è segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e redattore di “Eurasia”. È autore de La sfida totale (Roma 2010) e co-autore di Capire le rivolte arabe (Roma-Dublin 2011).

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

La crisi del debito in Italia e la lezione argentina

$
0
0

Fino quasi alla fine degli anni ’90, la Argentina era vista come uno dei paesi che aveva avuto successo nell’applicazione delle ricette del Consenso di Washington. Tale era l’opinione del Fondo Monetario Internazionale (FMI), della maggior parte degli analisti ortodossi e anche del governo degli Stati Uniti. Le riforme strutturali dello Stato, che l’hanno ridotto al minimo, erano legate al contesto della globalizzazione finanziaria.

Eppure, il nuovo secolo ha trovato il paese nella più grande recessione dalla Prima Guerra Mondiale. Nessuno dei presunti benefici del neoliberismo si è manifestato.

La crisi finanziaria investì tutto il paese con la sua conseguenza: una gigantesca crisi sociale. Il tasso di disoccupazione ascendeva al 25%. Su raccomandazione del FMI, il governo cercò d’ effettuare le famose “politiche di aggiustamento”, nel vano tentativo di superare la crisi. Il taglio iniziale del 13% su stipendi e pensioni e l’aumento delle tasse non fecero altro che approfondire la recessione. Le dure misure fiscali furono coadiuvate dall’assistenza finanziaria esterna. “Il Blindaggio” (el Blindaje) fu uno dei tanti pacchetti di sostegno finanziario – pari a 40 miliardi di dollari statunitensi -, ma neppure questo fu utile, e lo Stato non poté evitare di dichiarare il default.

La peculiarità della soluzione alla crisi fu che, da quel momento, l’Argentina ruppe con il FMI e inaugurò un modello economico che includeva la produzione per il mercato interno, la diversificazione del sistema industriale e una forte regolamentazione statale.

La pianificazione e gestione della ristrutturazione del debito avvennero senza la sua interferenza, e il veloce recupero economico che comincio un trimestre dopo si verificò nonostante il FMI. L’atteggiamento negativo del FMI è rimasto per lungo tempo, e fu solo nel maggio del 2003 che Anne Krueger riconobbe pubblicamente l’errata diagnosi, dicendosi sorpresa dal rapido recupero.

La situazione che oggi vive l’Italia corrobora quella frase di Carl Marx: “La storia si ripete due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. L’Argentina ha già attraversato nei primi anni del secolo l’esperienza che oggi tocca all’Italia; ovviamente il contesto è diverso.

Oggi si sta generalizzando il rifiuto delle raccomandazioni del FMI; le economie emergenti come la Cina si lamentano della mancanza di imparzialità; anche la stessa instituzione ha recentemente fatto una forte autocritica per i suoi errori nell’identificare le radici della crisi attuale.

Alla luce di ciò, cosa pensare di ciò che sta facendo Italia?

 

Come al solito, il FMI ha richiesto – lo scorso luglio – al governo italiano di applicare misure decise per ridurre il deficit fiscale, davanti ad una scenario nel quale i mercati sono scettici sulla sostenibilità del pesante debito.

L’Italia ha approvato in rapida sequenza due piani di aggiustamento. Il piano recentemente approvato garantirà un risparmio di 45.000 milioni di euro, cifra che si somma ai 79.000 milioni previsti dal primo piano.

L’obiettivo di entrambe le operazioni, che ascendono a 124.000 milioni di euro, è garantire che il deficit sia del 3,9% nel 2011, 1,6% alla fine del 2012 e dello 0% nel 2013 e così rassicurare i mercati sulle finanze pubbliche del paese mediterraneo.

Di nuovo, le decisioni politiche servono per salvare i mercati.

Il mercato finanziario è il primo responsabile della crisi ed è l’unico grande vincitore: i suoi attacchi speculativi creano paura e sono il mezzo attraverso il quale ottengono profitti straordinari, ogni volta più redditizi a scapito della sicurezza degli Stati e del sacrificio del popolo dei paesi interessati.

 

L’Italia d’oggi rispecchia il fallimento argentino del 2001 e lo manifesta nel contenuto dei due piani di aggiustamenti: il primo tenta d’ottenere un risparmio per la via tipica, tagliando pensioni e ritardando la età di accesso alle stesse. Inoltre, ha introdotto il “co-pagamento” nella sanità.

Il secondo cerca di diminuire la spesa e incrementare le entrate: le misure comprendono una maggiore facilità per il licenziamento, adattare la età di pensionamento alla speranza di vita, unire alcune feste con la domenica per aumentare la produttività, e diminuire la spesa della politica. D’altra parte, alle regioni e alle aziende municipali, lo Stato taglierà i suoi contributi di 9.500 milioni di euro in due anni.

Si è anche discussa la possibilità di liberalizzare i servizi pubblici locali e promuovere le privatizzazioni.

Un dato importante è che il debito italiano, superiore al 120% del Prodotto Interno Lordo, è il secondo più alto della zona euro dietro a quello della Grecia. Il tasso di crescita economico italiano è inferiore a quello medio, dunque mette a rischio il pagamento del debito nel medio termine.

L’Italia ha bisogno di molti soldi per soddisfare i suoi creditori. Deve vendere debito per 80.000 milioni di euro nei prossimi mesi, nonostante il mercato sia in calo.

Come si è visto, non parliamo di paesi periferici come la Grecia, l’Irlanda o il Portogallo, ma di uno dei tre più grandi d’Europa. Lo stesso presidente della Francia, Nicolas Sarkozy, ha ammesso che la caduta dell’Italia sarebbe la fine dell’euro.

 

Settimana scorsa si è celebrato il summit del G20 a Cannes. Lì, uno degli annunci più importanti è stato che l’Italia sarà sotto vigilanza del FMI. Ciò conferma che il FMI non ha ancora perso tutto il potere e che il governo italiano continuerà con la stessa politica a favore dei mercati.

Al contrario, il discorso della presidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner, forse per esperienza, è stato molto, molto diverso nei toni.

Ha chiesto di porre fine al “anarco-capitalismo finanziario” e ha accusato giustamente il sistema finanziario e i suoi gestori di avere la responsabilità della crisi; gli unici che beneficiano della caduta o del rialzo del mercato azionario.

 

Ora, non rimane molto da fare: solo che il governo italiano abbia il coraggio di difendere davvero gli interessi del popolo, e non si preoccupi solo di spogliare le risorse di milioni di italiani a vantaggio d’un gruppetto di manipolatori del mercato.

 

* Maximiliano Barreto è laureando in Relazioni internazionali all’Università Nazionale di Rosario (Argentina).

 

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

LOS CONSTRUCTORES DE CARTAS ORTOGADAS

$
0
0
El estudio de las relaciones entre la ley fundamental de un Estado y la geopolítica volvió a cobrar vigencia hacia finales de los años Ochenta e inicios de los Noventa. Aquel período (1989 – 1991), coincidió con el colapso del sistema bipolar, los EE.UU. intensificaron su rol de “constructores de naciones libres”. Proclamándose Nation and State Builders, los Estados Unidos interfirieron en la elaboración de las actas fundamentales de los nuevos Estados nacionales, que surgieron gracias a la deflagración del ex bloque soviético. Este tipo de intromisión no se presentó como si fuera una novedad en la historia política exterior norteamericcana, sino que una constante suya. Una lectura “geopolítica” de las ordenanzas constitucionales nos demuestra que las actas fundamentales de los Estados no hegemónicos son fondamentalmente asimilables a las cartas ortogadas. En el proceso de transición desde la fase unipolar hacia la fase multipolar se hace necesaria la formulación de nuevos paradigmas constitucionales articulados continentalmente.

Constitucciones y escenarios geopolíticos en la era de la occidentalización del mundo

Durante el último siglo, han sido tres los principales momentos históricos en los que las leyes fundamentales y fundacionales de los Estados nacionales han sido heterodirigidas en nombre de los actores hegemónicos con el fin de articular sus relativas esferas de influencia.

Una primera etapa se puede localizar entre fines del primer conflicto mundial e inicios de los años Veinte. En aquel período, la ideología “constitucionalista” y la de los Estados-Nación representó un eje maestro de lo que podríamos definir, usando un término de nuestros tiempos, el soft power de Gran Bretagna, de Francia y de los Estados Unidos. Los Estados nacionales de Europa moldeados por el Tratado de Trianon y de Versailles se habían dotado de constituciones que, siguiendo las disposiciones de las mayores potencias de la época , de hecho subordinaron la propia soberanía a las alianzas hegemónicas de la época.

Un segundo período es aquel que se puede circunscribir entre fines del segundo conflicto mundial y los años Sesenta. Los EE.UU., luego de la invasión militar de Europa occidental y el sometimiento de Japón, dispusieron un complejo proceso de democratización para la consolidación de su esfera de influencia, el proceso preveía el alineamiento militar, económico, financiero y normativo hacia los cánones norteamericanos. Por lo que se refiere el alineamiento normativo, los EE.UU. intervinieron profundamente en la elaboración delas Actas fundamentales de los países vencidos.

Las constituciones de Italia, de Alemania y de Japón, de hecho, contienen elementos fundamentales que sufren las limitaciones impuestas por los Liberators norteamericanos. Por lo que concierne la Constitución republicana de la Italia postfascista, por ejemplo, los artículos 11 y 35, relativos a la soberanía y a la reglamentación del trabajo, son, como afirma Aldo Braccio, “evidentemente …normas constitucionales destinadas a favorecer el inminente (hacia fines delos años Cuarenta) proceso de internacionalización liderado por los norteamericanos y a regular, es decir, a limitar, los derechos del trabajo” . Aun más significativo es el caso de Alemania, cuya ley fundamental no sin razón se le ha definido como una “forma organizadora de una modalidad del dominio extranjero ”. Por lo que atañe Japón, además de los límites a las funciones que caracterizan la soberanía de un Estado, como la constitución de sus fuerzas armadas, la nueva Acta fundamental, impuesta por Washington, también se inmiscuye en lo relativo a la identidad espiritual de la nación nipona: al Estado – que no es más sintoista- se le impide ejercer la más mínima influencia religiosa en el sistema educativo y formativo de su población . El proceso de democratización (neocolonización) norteamericana, actuado por medio de las reformas constitucionales de las nuevas naciones englobadas en el sistema occidental, afectó también algunos países del sureste asiático, como Corea y Vietnam del Sur.

También la URSS influenció en el proceso de elaboración de las leyes fundamentales de las recién nacidas democracias populares, las cuales constituirán el llamado bloque soviético hasta su disolución. Sin embargo, desde el punto de vista geopolítico, esta “ingerencia” asumió un significado muy diverso al de la neocolonización puesto en práctica por la potencia talasocrática ultra atlántica. De hecho, en aquellos años Moscú intentaba, conforme a la continuidad territorial, constituir un espacio geopolítico unitario del que habría asumido la función de Estado pivot.

El tercer momento es al que se le denomina instante unipolar. El papel de los EE.UU como Nation Builder en este período se hace más incisivo y determinado.

Conforme a las experiencias maduradas durante la Guerra Fría, Washington concibe y moldea las constituciones (con frecuencia definidas con el sintagma “neutro” de “governance framework”) de varios países, desde aquellos del ex espacio soviético europeo y centro asiático a la Bosnia-Herzegovina, Afganistán, Irak, Kosovo, vehiculándoles, en particular, su “propia experiencia nacional” .

Sucesivamente, cuando empieza a trazarse la actual fase de transición uni-multipolar, el apoyo a los procesos de elaboración de las nuevas constituciones en los países “frágiles” se llevará adelante con la ayuda de algunas de las más importantes instituciones mundiales, entre ellas, por ejemplo, la Organización para la Cooperación y el Desarrollo Económico (OCSE) .

La “constitucionalización” de los países includos en la esfera de influencia yankee legitima, por decirlo así, la fragmentación de los espacios geopolíticos unitarios en Estados con cero soberanía.

Las ordenanzas constitucionales en la época multipolar

En el marco de las relaciones geopolíticas mundiales, las constituciones nacionales de los Estados no hegemónicos (como se ha considerado y demostrado más arriba en el caso particular de sus relaciones con los EE.UU.) de hecho son ordenanzas jurídicas parecidas a las cartas ortogadas del Ochocientos, es decir, simples concesiones.

Todo ello pone en evidencia, una vez más, que la dimensión del Estado nacional es insuficiente para asegurar la independencia y aun la identidad cultural de la población de la que es expresión política.

Puesto que en la actualidad la dimensión geopolítica posee la capacidad suficiente de satisfacer las exigencias de los pueblos desde una perspectiva continental (o gran regional), resulta importante proponer modelos constitucionales que tengan en consideración este hecho extraordinario. Y ello no sólo por razones heurísticas. De hecho, estos nuevos paradigmas –ya que están basados en la dimensión continental del Estado-, constituirían las guías para hacer más incisivas y coherentes las alianzas (geoestratégicas y geoeconómicas) hasta ahora desempeñadas por los mayors países de Eurasia y de América indiolatina con el objetivo de la integración de los respectivos espacios continentales.

*Tiberio Graziani es director de “Eurasia” y presidente del IsAG – Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
direzione@eurasia-rivista.orghttp://www.eurasia-rivista.org/

(trad. di V. Paglione)

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

24-25 ноября 2011 Париже: «Россия и Европа: актуальные проблемы современной международной журналистики»

$
0
0
Федеральное Агентство по делам печати и массовых коммуникаций организуют конференцию

«Россия и Европа: актуальные проблемы современной международной журналистики».

На сегодняшний день одной из наиболее явных тенденций развития современного общества является процесс глобализации. Масштабы, которых достигли интеграция и унификация во всех сферах общественной жизни – от политики и экономики до культуры и даже религии, настолько велики, что игнорировать их не представляется возможным. Именно поэтому в последнее время тема глобальных процессов становится предметом обсуждения и пристального научного исследования.

Одним из факторов процесса глобализации в современном мире явился рывок в развитии средств коммуникации, ставший особенно явным в последнее десятилетие. Сегодня мы стоим на пороге общества нового типа – общества информационного, для которого характерно формирование глобальных коммуникационных сетей, включая мобильные связи, интернет, социальные сети. Этот процесс не мог не затронуть и Средства Массовой Информации, которые, особенно в последнее время, претерпели и продолжают претерпевать серьезные изменения.

В этих условиях журналистика, и особенно журналистика международная, продолжая играть ведущую роль в процессе массовой коммуникации, больше других вынуждена адаптироваться к стремительно меняющимся потребностям современного homo informaticus или «человека информационного». Способы подачи информации, международные стандарты, правовые и этические нормы, регулирующие работу профессионалов в этой области, вопросы кросскультурной коммуникации и национальных интересов представляются на сегодняшний день наиболее актуальными проблемами международной журналистики.

Основные вопросы конференции будут обсуждены в формате круглых столов. Среди наиболее актуальных тем:
– Национальные интересы и международная журналистика
– Проблемы доступа к информации для СМИ в России и Европе
– Роль СМИ в отношениях между странами и их влияние на международный климат
– Международная журналистика: международные юридические нормы и единые этические правила.

Эффективные подходы к этим вопросам требуют консолидации усилий ученых и практиков, журналистов и психологов, профессуры и студентов, с учетом международного опыта разных школ, тенденций, региональных реалий. Этой цели должно послужить проведение международной конференции:
«Россия и Европа: актуальные проблемы современной международной журналистики»

Конференцию откроют: Жуау Суареш, Президент Парламентской Ассамблеи ОБСЕ, депутат парламента Португалии и Армен Оганесян, главный редактор журнала «Международная жизнь».

В конференции примут участие:

Марек Хальтер, писатель, журналист, президент Французских университетских колледжей в Санкт-Петербургском государственном университете и Московском государственном университете имени М. В. Ломоносова;

Хейтор Романа, доктор наук, социолог, политолог, асс. профессор Лиссабонского технического университета;

Генрих Юшкявичус, советник генерального директора ЮНЕСКО по проблемам информации и телекоммуникаций;

Елена Вартанова, декан факультета журналистики МГУ им. М.В. Ломоносова;

Тиберио Грациани, главный редактор итальянского журнала «Евразия. Обозрение геополитических исследований» и библиотеки «Геополитические тетради», директор Института изучения геополитики и смежных дисциплин;

Джордж Протопапас, медиа-аналитик, НИИ европейских и американских исследований (RIEAS);

Виктор Панин, председатель Общероссийского общества защиты прав потребителей образовательных услуг (ОЗППОУ);

Петр Федоров, руководитель дирекции международных отношений ВГТРК;

Мишель Петерс, управляющий директор «Евроньюс»;

Андрей Быстрицкий, председатель РГРК «Голос России»;

Диана Берлин Советник Председателя ФГУ РГК «Голос России», Академик Международной Академии Телевидения и Радиовещания;

Алексей Николов заместитель главного редактора«Russia Today»;

Юрий Голигорский, совладелец британской медийной производственно-консталтинговой компании PTP Partnership (UK) и др.

Конференция пройдет 24-25 ноября 2011 года в Париже.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail
Viewing all 68 articles
Browse latest View live