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“Contro l’Italia una guerra finanziaria”. Intervista all’on. Biancofiore

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L’onorevole Michaela Biancofiore, imprenditrice e politica altoatesina, è rappresentante della Campania alla Camera dei Deputati e segretaria della Commissione Affari Esteri e Comunitari. L’8 novembre scorso ha denunciato quello che a suo avviso sarebbe un «disegno internazionale che sta dietro la speculazione sui nostri titoli» e mirato a «impoverire gli italiani». Enrico Verga l’ha intervistata per noi.

 

Onorevole, chi avrebbe elaborato e starebbe promuovendo questo disegno internazionale?

 

L’8 novembre ho cercato di mettere in evidenza la realtà che si vuole celare e che è alla base di un’anomala crisi di governo. Confermo che vi è un disegno internazionale che anima la speculazione sui nostri titoli e che il Presidente del Consiglio uscente non ha alcuna responsabilità in merito all’aumento esponenziale dell’ormai famigerato spread tra BTP e Bund tedeschi! E non può esserlo nessun governo, come i dati deprimenti della Borsa di Milano, -2% in chiusura nel giorno del conferimento dell’incarico a Mario Monti ed ancora peggiori oggi [ieri, ndr] nel giorno dell’insediamento, hanno ancora una volta dimostrato. Alcuni mercati stanno attaccando l’Italia perché è un paese ricco, è il quarto paese al mondo per riserve auree, è ricco di mezzi finanziari privati, di beni architettonici artistici e ambientali e di ottime aziende che si basano sul lavoro concreto e non sulla finanza fittizia. Paesi che non hanno più tessuto industriale – vedasi Inghilterra ed altri (Francia) che hanno perso montagne di denaro con i titoli tossici – stanno cercando di rientrare a spese nostre. “Svegliamoci tutti” è l’appello accorato che ho rivolto soprattutto agli eletti sotto il simbolo PDL che sono stati strumentalizzati per far cadere il governo, e a quanti hanno a cuore davvero la Patria e l’interesse dei cittadini: le banche sono affamate di utili e fanno trading dove c’è più da guadagnare. Spillare interessi più alti ad un paese ricco è un gioco molto proficuo, specie se si è perso tanto su paesi poveri. Chi, avendo un’infarinatura economica di massima, può davvero pensare che qualcuno nel mercato possa credere in un default di un grande Paese come l’Italia? Io non credo al fallimento dell’Italia, anzi; ma credo ci sia qualcuno che pensa di poterci porre in liquidazione, e sono gli stessi che la crisi l’hanno cagionata. Vi è il tentativo di sottrarre quattrini agli italiani (risparmiatori) e magari comprare aziende for a song (come dicono gli inglesi). In poche parole, paesi con scarsa propensione al risparmio, grosso indebitamento bancario e privato, vogliono spartirsi la ricchezza degli Italiani e possibilmente averla a costo zero. Tutto qui. Spesso le grandi verità si nascondono dietro le risposte più semplici, che pochi vedono, o che i più fingono di non vedere. Mi auguro che i media che non sono strumentalmente avversi al Presidente del Consiglio uscente lo dicano forte e chiaro: gli italiani devono sapere che probabilmente l’Italia verrà depauperata come fossimo in guerra, la neo guerra finanziaria del terzo millennio. Berlusconi era certamente di ostacolo e nel mirino di coloro che vogliono impoverire gli italiani impossessandosi della nostra liquidità, perché è l’ultimo grande capitalista italiano.

Ha motivo di credere che vi siano cittadini italiani che stiano adoperandosi per ledere gli interessi nazionali dell’Italia a favore di entità private o pubbliche non italiane? Nel caso può suggerire dei nomi?

 

Mi pare evidente, e non sono pochi. Albergano nelle istituzioni italiane, nei consessi economici, nelle merchant bank, nei partiti… insomma in ogni livello sociale che conta. Una rete che si autoalimenta con la speculazione che è riconducibile essenzialmente ai più noti poteri forti emergenti e della borghesia tradizionale che si muove su commissioni estere. Nomi è inutile e superfluo farne, sono facilmente individuabili e sarebbero troppi per elencarli. Trovano terreno nella tradizionale mancanza di patriottismo italiano e nel relativismo culturale e valoriale che ormai attanaglia la nostra società.

Ritiene che un obbiettivo della speculazione internazionale sia costringere l’Italia a privatizzare i “gioielli di casa”, per esempio Eni, Poste Italiane, Enel, Ansaldo, Finmeccanica?

 

È già accaduto in passato con l’IRI, l’Italtel, Sme ecc. L’obiettivo finale è quello, ma non si limita alla privatizzazione ma punta alla svendita a costo zero di aziende sane che valgono e producono miliardi di euro. Basti pensare al titolo di Finmeccanica, che non è casuale abbia chiuso a -20% in borsa in questi giorni. Se l’Italia fallisce, va in default (come va di moda dire ultimamente), ogni nostro bene privato o pubblico è svalutato e alla portata di investitori stranieri. Il gioco è semplice: ecco perché la speculazione che sta tentando di portare l’Italia sull’orlo del baratro non si ferma nemmeno innanzi al sacrificio degli italiani, che hanno rinunciato ad un governo politico legittimamente eletto dal popolo sovrano. L’aumento dello spread di questi ultimi giorni ormai nel segno di Monti, della borsa che apre e chiude in assoluto ribasso, non fa che confermare che l’Italia è sotto attacco per via innanzitutto della mancanza di coesione nazionale e dunque per l’impossibilità di varare riforme strutturali. In nessun Paese al mondo con una speculazione evidente come quella che stiamo subendo, l’opposizione si sarebbe esercitata, com’è accaduto da noi, nel costante vilipendio del Presidente del Consiglio.

Avendo la Cassa depositi e Prestiti dichiarato di aver aumentato i crediti alle Pmi, anzichè concedere ulteriore liquidità alle banche, ritiene che questo istituto possa essere obbiettivo di speculazioni internazionali?

 

Dietro la speculazione, dietro la grande crisi economica internazionale, come abbiamo detto, ci sono i maggiori gruppi bancari, soprattutto quelli privati americani e probabilmente anche alcune agenzie di rating da essi co-finanziate, con evidente conflitto di interesse. Non è un caso che gli “indignados” di tutto il mondo si sono accaniti verso gli istituti bancari, centrali e non. Da noi accade paradossalmente che – fatta salva la stima personale per il Presidente del Consiglio Monti – mettiamo il destino della nazione proprio nelle mani delle banche e dunque di coloro che la crisi l’hanno cagionata. Certamente quindi la Cassa Depositi e Prestiti è un obiettivo succulento, come tutti quegli organismi e istituzioni che si sono posti e si pongono di traverso al potere delle banche e agiscono in favore dei reali interessi dei cittadini. Per smascherare questi conflitti di interessi macroscopici mi sono spinta recentemente a presentare un disegno di legge per istituire una commissione d’inchiesta sulle Agenzie che hanno declassato il nostro rating senza peraltro averne titolo.

L’onorevole Mario Monti e l’attuale italiano alla guida della BCE (entrambi gli uomini godono della fiducia dei “mercati”) hanno collaborato con una specifica banca di affari. Ritiene che questi uomini, nelle loro funzioni, svolgeranno i loro compiti in modo indipendente, senza esser influenzati da compagnie o gruppi di pressione?

 

È nell’indole umana non riuscire a sfuggire all’influenza dell’ambiente che si frequenta. Materiale da antropologia. Ciò premesso Mario Draghi ha svolto il suo compito in maniera eccellente in Banca d’Italia ed appena arrivato alla Presidenza della BCE su proposta del governo Berlusconi, si è subito contraddistinto con il taglio dello 0,25% dei tassi di interesse dell’area euro. Per quanto concerne il Presidente del Consiglio, Mario Monti, non vorrei giudicarlo, non è il mio stile, prima di vederlo all’opera. Come Commissario europeo ha lasciato il segno ed è certamente un uomo di grande levatura culturale e scientifica. Ciò che balza certamente all’occhio è che nonostante entrambi siano, come lei ha ricordato, “di fiducia dei mercati”, i mercati non volano – anzi – e lo spread aumenta. La speculazione va dunque cercata lontano dalla nota banca d’affari della quale sono stati consulenti o dipendenti gran parte dei così detti poteri forti italiani. Certo vigileremo sulla privatizzazione dei nostri grandi gruppi aziendali, visto che la coincidenza di collaborazione con Goldman Sachs, Think Thank Bruegel, finanziato da 16 Stati e 28 multinazionali con lo scopo di influire privatamente sulle politiche economiche comunitarie, Trilaterale – organizzazione non governativa e apartitica ispirata dagli Stati Uniti, Europa e Giappone dove i potenti si incontrano per discutere delle strategie mondiali, interculturali e di affari, senza perdersi nelle lungaggini dettate dalle democrazie parlamentari –, gruppo Bilderberg – organismo sovranazionale noto per la segretezza delle sue risoluzioni e del quale fa parte anche il Ministro dell’economia uscente Giulio Tremonti – ecc. è altamente curiosa e tendenzialmente inopportuna.

Quali nazioni occidentali, e rispettive istituzioni finanziarie, ritiene possano eventualmente trarre maggior beneficio economico dal governo tecnico che ha sostituito quello eletto?

 

Come ho detto sopra, in primis l’Inghilterra e la Francia per il venir meno di un’economia basata sulla forza lavoro e l’ingente perdita di capitali delle loro banche. E poi la Germania alla quale è ascrivibile, insieme alla Francia, l’ideazione di una moneta unica che aveva come fine il congelamento delle monete competitive per la svalutazione di Italia e Spagna e col fine di tagliare i redditi di quelli che non a caso oggi si chiamano PIIGS ,cioè i paesi a rischio default, tra i quali da qualche mese troviamo anche l’Italia. Ma anche e soprattutto l’area del dollaro dalla quale la crisi è iniziata e dalla quale derivano i cosìdetti titoli tossici, è altamente sospetta, nonché le tradizionali aree della grande finanza come la stessa Svizzera.

Ritiene che il supporto economico di alcuni paesi dei BRICS, come Russia o Cina, sia maggiormente auspicabile e positivo per l’Italia se paragonato al sostegno che possono fornire la BCE o il FMI?

 

Come ho avuto modo di dire ad un recente convegno a Mosca, ritengo che per salvare l’economia e l’unità stessa dell’Europa, c’è solo una possibilità: ovvero che la Russia non ci comperi ma entri pienamente nell’Unione. Ciò creerebbe un tale spazio di mercato libero che farebbe volare l’economia europea e renderebbe la vecchia Europa del know how ma dal mercato ristretto, un continente realmente competitivo con le economie emergenti indo-cinesi e dei Brics. Quanto al sostegno economico, do ragione a quel cittadino che ha comprato una pagina intera del Corriere della Sera per sollecitare gli italiani che hanno il maggior risparmio privato d’Europa (9000 miliardi) ad acquistare il debito pubblico italiano. Io l’ho fatto, secondo le mie possibilità ovviamente, e auspico che lo facciano tutti i cittadini abbienti: prima che ci comperino cinesi, brasiliani, russi ecc., sarebbe bene che il nostro debito ce lo comprassimo noi stessi in un moto di amore per la nostra Italia. Ciò premesso la BCE è il problema e quindi non può essere la soluzione a mio modesto parere. La BCE per risolvere il problema di liquidità di alcuni stati, come l’Italia, cioè per consentire che onorino il loro debito sovrano, dovrebbe stampare moneta, cioè rendere gli stati “ability to pay”, come potevano fare con le vecchie monete. Non è un caso che l’Inghilterra ha mantenuto la sterlina e onora il suo debito così come il Giappone che, pur registrando il 200% di debito/pil, non è aggredito dai mercati per via dello YEN che è moneta sovrana e mantiene un’inflazione pari allo 0%. Stessa situazione che aveva l’Italia della Lira sovrana.

Recentemente il Nord Stream è stato inaugurato. La grande conduttura collegherà direttamente Russia e Germania, evitando le nazioni dell’Europa Orientale. Esiste un progetto “gemello” chiamato South Stream che dovrebbe portare idrocarburi nel Sud Europa. Tale progetto, una volta attivo e sostenuto da un consorzio eurasiatico (russo ed europeo) di cui è parte ENI, di fatto limiterebbe e renderebbe antieconomico il progetto Nabucco (sostenuto dagli USA e dal blocco atlantico). Ritiene che la posizione di Eni, del governo italiano e del primo ministro nel sostenere il progetto South Stream siano motivo di stress per il progetto energetico nordamericano in Eurasia? Tale “stress” ritiene che possa essere uno dei fattori che hanno accresciuto la pressione internazionale sul primo ministro?

 

Nabucco è un progetto ambizioso, molto costoso, che nasce nel 2002 con la precisa idea di affrancare parte dell’Europa dalla dipendenza dal gas russo. E ha subito una fase di sviluppo emergenziale con la crisi del gas tra Russia e Ucraina del gennaio 2009. A questo progetto aderiscono l’Austria, la Germania, la Turchia, l’Ungheria, la Bulgaria, la Romania ed è gradito agli Stati Uniti, che nel luglio 2009 hanno firmato l’accordo intergovernativo dei paesi partners alla presenza stessa dell’inviato speciale statunitense dell’Energia. Dunque non vi è dubbio che South Stream provochi “stress” anche agli Stati Uniti e che la presenza della nostra ENI nel consorzio euro-asiatico non sia gradita. Ne consegue che nei confronti dell’Italia è in atto certamente un golpe ai danni della sovranità popolare, ma anche evidentemente energetico, e la guerra in Libia è rientrata chiaramente nell’obiettivo di ridimensionare il nostro primato energetico nella ex Colonia. Per quanto attiene i rapporti Italia-Usa, lo dico con dolore da americanista convinta che ha avuto l’onore di essere scelta per l’IVLP, l’International Visitors Leadership Program degli USA, è superfluo negarlo: non sono gli stessi che caratterizzavano l’epoca Bush-Berlusconi, sia per programmi politici ed affinità tra i repubblicani e l’area del centro-destra italiano, sia per intesa personale. In quel periodo anche le legittime divergenze di obiettivi strategici venivano appianate ed anzi grazie all’allora Presidente del Consiglio col vertice di Pratica di Mare si riuscì addirittura ad avvicinare la Russia di Putin alla Nato con l’istituzione del vertice permanente. Oggi quella collaborazione, sebbene sia proficua e corretta a livello diplomatico, sembra scolorita e non c’è dubbio che la perseveranza del Presidente Berlusconi nel voler conseguire gli interessi degli italiani e migliorare il fabbisogno energetico dell’Italia che è priva di materie prime, non sia stata troppo gradita negli USA di un’Obama che, a sua discolpa, si è trovato alle prese con la più grande crisi economica post ’29; e nella lotta per salvarsi, può infierire anche sulle più antiche alleanze.

Lucas Papademos, economista formatosi negli USA, membro della Commissione Trilaterale in precedenza nella BCE e nella Federal Reserve di Boston, ha sostituito Papandreou alla guida della Grecia. Mario Monti, economista, collaboratore di un’importante banca d’affari ha sostituito Silvio Berlusconi. Vede delle coincidenze nella scelta dei sostituti?

 

Dopo l’Euro, che ha fatto venir meno la moneta sovrana che – come abbiamo detto – ha salvato in passato molti stati oggi in crisi, la BCE sta coniando anche governi sottratti alla sovranità popolare. Non vi è dubbio che è in atto un goffo tentativo di fare e disfare governi graditi ai mercati, che però i mercati mostrano paradossalmente di non gradire. Non si può curare un tumore con l’aspirina, bisogna andare al fulcro della crisi che a mio parere è riposto nell’Euro e nella mancanza di reale unità politica ed economica dell’Europa. Questo non significa ritornare alle monete sovrane, cosa che ormai sarebbe letale per tutte le economie europee, ma che bisogna ideare in fretta una riforma dell’euro e dei trattati. Di certo la politica in Europa vive un momento di inquietante commissariamento e dunque di palese sottrazione di democrazia.

Il 9 novembre LCH Clearnet (una “camera di compensazione” interbancaria) ha alzato i margini per utilizzare titoli di stato italiani come collaterale (garanzia) per operazioni bancarie di rifinanziamento. Di fatto questo ha reso i nostri titoli meno interessanti e forzato alla liquidazione molti operatori di mercato. Tutto questo zelo non le sembra sospetto?

LCH Clearnet ha le sue radici sia alla London Clearing House, dunque in Inghilterra ovviamente, che a Parigi. Ho risposto alla sua domanda?

Enrico Verga

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La prospettiva eurasiatica e le rivolte arabe

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Si è tenuta a Trinitapoli (BAT) sabato 19 novembre 2011 alle ore 19.30, presso il Palazzo Piscitelli, l’incontro “La prospettiva eurasiatica e le rivolte arabe”. 

Sono intervenuti come relatori Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e direttore della rivista “Eurasia”.

LEGGI UN RESOCONTO DELL’EVENTO (da “Stampa Sud”)

 

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Eurasia intervista Paolo Sensini sulla Libia

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Abbiamo intervistato Paolo Sensini,  autore dell’opera “Libia 2011”[1]. Un saggio molto interessante che offre nella prima parte un’agile narrazione di cento anni di storia libica incastonati fra due eventi luttuosi per il paese: la guerra coloniale italiana del 1911 e l’intervento umanitario (rectius neocoloniale) del 2011. La seconda parte è invece una disamina ben documentata degli eventi legati proprio all’intervento militare scaturito dalla Risoluzione ONU 1973, corredata anche dalla testimonianza diretta dell’autore, giunto in Aprile nei  luoghi del conflitto e partecipe dei lavori della commissione d’inchiesta sui fatti di Libia (Fact Finding Commission on the Current Events in Lybia).

Giacomo Guarini: Abbiamo visto con piacere che la sua opera viene citata e accolta con giudizio complessivamente positivo anche in un servizio video del Corriere della Sera[2]. Dispiace però che l’autore del servizio faccia riferimento a presunti “eccessi” che lei avrebbe compiuto nel dipingere la Libia pre-bellica come “prospera” e “teatro di riforme realizzate”. Eppure anche i riferimenti che lei fa a notevoli aspetti dello sviluppo economico-sociale del paese sono ben corredati da fonti, spesso anche ‘insospettabili’ (vedi ad esempio l’Indice di Sviluppo Umano ed altri dati riportati dalla Banca Mondiale in riferimento alla Libia). Può dare ai lettori un’idea dei progressi raggiunti dal paese in questi decenni di governo Gheddafi?

Paolo Sensini: In effetti l’unico modo per esprimere un giudizio obiettivo e ponderato sulla Libia, è quello di guardare alle realizzazioni concrete della Jamahiriyya. Partiamo dunque dal tasso di alfabetizzazione dei libici, che si attesta oggi intorno all’88%, mentre quando Gheddafi salì al potere nel settembre 1969 era circa del 6%. Già un dato di questo genere ci fornisce uno spaccato piccolo ma indicativo delle condizioni del paese. Se consideriamo poi anche gli indici sulle aspettative di vita e il reddito pro capite dei suoi abitanti, che combinati insieme al tasso d’istruzione costituiscono gli elementi chiave per il computo dell’Indice di Sviluppo Umano (HDI), vediamo che la Libia è l’unico paese dell’Africa rappresentato con il colore verde (livello HDI alto), trovando collocazione prima di ben nove nazioni europee. Bisogna anche considerare l’assistenza medica gratuita e di qualità largita a tutti i suoi cittadini, così come il livello d’istruzione primaria, secondaria e universitaria (nazionale ma anche in sedi estere) e la promozione familiare: in pratica a ogni neolaureato le istituzioni libiche erogavano, prima del colpo di Stato NATO-ribelli, una somma pari a cinquantamila dollari per potersi pagare una casa senza dover sostenere alcun interesse e senza data di scadenza. Ecco perché l’emigrazione dei libici verso l’Europa era quasi nulla (1.517 persone, in gran parte uomini d’affari e operatori commerciali), se rapportata all’esodo di dimensioni bibliche dagli altri paesi africani e arabi. Non va dimenticata, inoltre, la distribuzione quotidiana di cinque milioni di mq di acqua dolce che arrivavano gratuitamente nelle case dei tutti i libici attraverso le condutture del Great Made-Man River, il più grande acquedotto del mondo fatto costruire da Gheddafi a partire dagli anni Ottanta. Il che, per un paese quasi interamente desertico come la Libia, rappresenta una risorsa di straordinaria importanza. Insomma, se consideriamo tutto questo e molto altro di cui ho dato conto in dettaglio nel mio libro, vediamo che la Jamahiriyya è riuscita a ottenere risultati, sia pure con aspetti socioeconomici e politici che andavano certamente migliorati, di cui è difficile trovare riscontro a livello mondiale.

Giacomo Guarini: Viene a questo punto spontaneo domandarsi cosa potranno aspettarsi i libici dal regime change e se sarà per loro possibile continuare a godere di certi standard di vita.

Paolo Sensini: Ciò che finora i libici hanno “guadagnato”, è di essere passati bruscamente dal paese con le migliori condizioni di vita dell’Africa e non solo, a un paese sull’orlo di una crisi umanitaria. Allo stato attuale, il risultato che la Libia può mettere sul piatto della bilancia dopo circa otto mesi di guerra NATO-ribelli è il seguente: infrastrutture urbanistiche e industriali ridotte all’età della pietra, cinquantamila tonnellate di bombe ad alto contenuto esplosivo (gran parte delle quali all’uranio impoverito) lanciate sul suolo libico, oltre centomila morti e decine di migliaia di mutilati. Se questo è il prezzo della prima fase di “esportazione della democrazia”, è difficile immaginare, o forse è fin troppo facile, quale sarà il conto finale…

Giacomo Guarini: La percezione comune dalle nostre parti parrebbe considerare la questione libica un capitolo ormai chiuso; a suo parere, quanto può considerarsi stabile il nuovo assetto istituzionale del paese? Quanto è concreto invece il rischio di ‘somalizzazione’ della Libia paventato sin dall’inizio del conflitto da numerosi analisti e politici?

Paolo Sensini: Al momento attuale non esiste nessun “nuovo assetto istituzionale” in Libia, nel senso che il caos regna sovrano. Esiste, come sappiamo, un organismo geneticamente modificato chiamato CNT (Consiglio nazionale di transizione), il quale benché sia stato subito indicato dalla coalizione dei paesi NATO che hanno aggredito la Jamahiriyya come “unico rappresentante del popolo libico”, non viene ancora riconosciuto in via ufficiale perché ciò comporterebbe lo “scongelamento” immediato dei fondi sovrani libici detenuti illegalmente nelle grandi banche occidentali. Naturalmente l’”esportazione della democrazia”, al netto delle grandi declamazioni propagandistiche buone per le plebi mediatiche, ha dei costi assai elevati che vanno detratti dai circa duecento miliardi di dollari di proprietà della Libyan Investment Authority (LIA), a cui devono essere poi sommati gravosi interessi. Quindi, da creditrice che era, ciò che rimane della Libia si troverà ora debitrice dei grandi cartelli della finanza predatrice internazionale che già si accingono al consueto banchetto delle iene. Per quanto riguarda invece ciò che lei definisce “somalizzazione” della Libia, direi che più che un incidente di percorso quello che vediamo profilarsi sotto i nostri occhi è esattamente ciò che l’aggressione NATO si proponeva di ottenere fin dall’inizio del suo intervento militare. Si tratta di una vera e propria strategia chiamata Low Intensity Conflict, in ottemperanza con la dottrina elaborata a suo tempo dal generale Frank Kitson. Ne abbiamo già visti svariati esempi all’opera nella ex-Jugoslavia, in Iraq, in Afghanistan e in Somalia. Ora, a Mission Accomplished, la vediamo dispiegarsi anche in Libia, ma i suoi tratti inconfondibili erano già evidenti fin dalla fase iniziale del conflitto. Da questo punto di vista la partecipazioni di numerosi effettivi di Al-Qa‘ida (in inglese: Database) in Cirenaica era già una “garanzia” in tal senso. Garanzia che tra l’altro si è inverata con l’introduzione della Shar’ia, che con la “democrazia”, come la s’intende in Occidente, non ha molto a che fare. Così, una volta crollate le istituzioni libiche e morto Gheddafi, il paese è spaccato in numerose enclave tribali contrapposte militarmente l’una all’altra. Il posto della NATO è stato rilevato sul terreno dalla monarchia feudale del Qatar, la quale con il suo network Al Jazeera e con tutti gli equipaggiamenti forniti ai “ribelli” si prodiga affinché lo scontro inter-tribale rimanga conficcato nel corpo martoriato di ciò che rimane della Libia. E mentre il paese si dilania in una sanguinosa guerra civile, lo si può depredare delle sue ricchezze naturali. Se poi le cose dovessero prendere una piega diversa rispetto a quanto si era pianificato in alto loco, beh allora vi è sempre la “risorsa” Al-Qa‘ida per ritornare alla carica ed “esportare” un altro po’ di “democrazia”…

Giacomo Guarini: Nella sua opera lei denuncia con grande acutezza e dovizia di riferimenti la disinformazione attuata dai media nostrani e da famose emittenti panarabe sui fatti  di Libia. Ritiene che questa sua opera di demistificazione possa risultare ‘metodologicamente’ utile al lettore, alla luce di altre situazioni di grave crisi che vanno profilandosi, a partire da quella siriana?

Paolo Sensini: Certamente. In fondo il medesimo schema è all’opera ormai da tempo. Lo si poteva vedere già mesi fa con la feroce repressione delle popolazioni del Golfo da parte dei feudatari teocratici del Bahrain, Oman, Yemen, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, quando le “famose emittenti” di cui lei parlava hanno spudoratamente taciuto. Ma ora, grazie anche alla velocità informativa della rete, i veli si sono squarciati e le cose risultano chiare a chiunque abbia il coraggio di guardare i fatti. Per quanto riguarda Al Jazeera, che si avvale da anni dell’attività di “formazione quadri” di una società chiamata JTrack, società riconducibile a Mahmoud Jibril, già responsabile dello sviluppo e della pianificazione economica nella Libia di Gheddafi, costui aveva stabilito per suo tramite rapporti personali con quasi tutti i leader arabi e del sud-est asiatico. Jibril, inoltre, aveva creato delle società commerciali, tra cui una incaricata del commercio del legname della Malesia e dell’Australia, assieme al suo sodale e partner in crime “francese” Bernard-Henri Levy. Dalla fine del 2010 la rete Tv del Qatar è diventata il canale preferenziale della disinformacija filo-occidentale: ha negato il più possibile l’aspetto anti-imperialista e anti-sionista delle rivoluzioni arabe, e ha scelto in ogni paese gli attori da sostenere e quelli da denigrare. Il gruppo ha inoltre giocato un ruolo centrale nell’accreditamento del mito della “primavera araba”: i popoli desiderosi di emulare lo stile vita occidentale, secondo questa versione, si sarebbero sollevati per rovesciare i “tiranni” e adottare le democrazie parlamentari. Nulla distingueva, in quest’ottica, gli eventi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria. Sulle altre rivolte, invece, silenzio totale. E così, pochi giorni dopo lo scoppio dei disordini a Bengasi e in Cirenaica, ecco che Jibril viene subito nominato primo ministro del “governo ribelle”. Il resto della vicenda è ampiamente descritto in un capitolo del libro dedicato alla gestione mediatica della guerra in Libia che ho definito come un connubio di “religione dei diritti umani” e “umanitarismo bombardatore”. Ora il circo mediatico, nonostante siano già emerse pubblicamente svariate falsificazioni montate ad arte contro la Siria, sta ricalcando il medesimo schema seguito contro la Jamahiriyya. L’auspicio è di non ritrovarsi di fronte a un ennesimo e tragico déjà-vu, ma nella situazione attuale, considerato ciò che sta avvenendo anche nel nostro paese dove si è da poco insediato un esecutivo con caratteristiche non molto dissimili da quello che può essere descritto come un CNT in salsa italiana, sembra molto difficile rianimare quell’ectoplasma chiamato “opinione pubblica”. Mala tempora currunt.

[2] Antonio Ferrari, “Se la Libia quasi  rimpiange il Colonnello”, CorriereTv, 14 Novembre 2011.

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“Dopo la Primavera”: il 26 novembre a Fontenuova

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Dopo la “Primavera”. Dalle Rivolte Arabe ai nuovi assetti globali
Una chiave di lettura dei nuovi scenari mondiali attraverso lo sconvolgimento geopolitico del XXI secolo

 

L’evento che per estensione, durata, rivolgimenti politici e diffusione mediatica ha sicuramente segnato maggiormente l’anno 2011 è stato il fenomeno delle Rivolte Arabe. Dall’Africa all’Asia innumerevoli sollevamenti popolari hanno sconvolto quelli che erano gli assetti stabili (o in via di stabilizzazione) di intere aree macroregionali. Partendo dalla Tunisia, l’ondata rivoluzionaria, presto ribattezzata dai media “Primavera Araba”, si è diffusa a macchia d’olio di stato in stato. Eppure, l’area occidentale del globo, che tanto ha discusso, osservato e interpretato (spesso male) i fenomeni rivoluzionari, ancora non ha ben chiari né le ragioni scatenanti, né tanto meno gli scenari che questi sconvolgimenti comporteranno su scala globale. Se da una parte non si comprende la profonda relatività e differenza tra ogni fenomeno di questo genere, dall’altro le previsioni che se ne traggono sono tra le più differenti, ed oscillano dalle aspettative (ormai quasi tutte tradite) ed i timori. Se è facile comprendere la radicale differenza esemplificativa tra la guerra civile libica, nella quale sono inseriti insieme fattori di contrapposizione tribale ed interessi economici diretti dei paesi intervenuti nel conflitto, e le rivolte popolari dei Paesi del Golfo Arabo, da leggere attraverso le aspettative di rovesciamento dei regimi monarchici preesistenti, non è altresì facile però discutere delle dirette influenze di fattori extranazionali in questi eventi stessi: il ruolo dei contractors e dei servizi segreti sul territorio libico, quello delle organizzazioni del “business delle rivolte” occidentali in Egitto, quello iraniano in Bahrein, quello turco in Siria, per estendere la propria influenza regionale, e così via. D’altronde le interpretazioni semplicistiche dell’evento hanno fatto sì che lo stesso venisse prima propagandato quale la lotta per la democrazia dei popoli arabi, definendo il fenomeno quale un 1989 arabo, lasciando spazio ad incredulità rispetto l’ascesa dei gruppi politici legati all’islam radicale, che ha fatto parlare addirittura di “inverno islamista”. Eppure, se una qual certa continuità si volesse trovare tra gli elementi che compongono le Rivolte, questa potrebbe essere dettata dal comune denominatore della destabilizzazione: in buona parte dei casi l’influenza diretta nordatlantica, o dei suoi alleati principali nel semicontinente asiatico (i paesi della Lega Araba, ad esempio) è evidente. È così che le Rivolte possono essere facilmente inquadrate in una più ampia strategia del caos che, mettendo in crisi i precedenti assetti regionali (ma anche internazionali), potesse creare un fecondo scenario per l’eliminazione definitiva dei governi degli stati non allineati, fino a raggiungere l’Iran, perno di una possibile strategia comune macrocontinentale. “Non sarebbe forse stoltezza rendere permanente una crisi e credere che lo stato febbrile sia la condizione di autenticità e di salute alla cui conservazione l’uomo debba continuamente operare?” scriveva Novalis a proposito degli sconvolgimenti del secolo. A distanza di mesi dallo scoppio delle Rivolte Arabe, mentre queste si spengono progressivamente, nuove stabilità si creano o procedono a sedimentarsi, nuove strategie economiche si profilano sulla scena del mercato globale, nuove alleanze e nuovi governi si stanziano negli scenari sconvolti dal conflitto o dalla lotta civile.

Millennium organizza il 26 novembre c.a., in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) ed alle edizioni Fuoco, la conferenza “Dopo la “Primavera”. Dalle Rivolte Arabe ai nuovi assetti globali”, per discutere insieme ai relatori, Giacomo Guarini (ricercatore IsAG) e Fabrizio Di Ernesto (giornalista e saggista, esperto in geopolitica e relazioni internazionali), del nuovo panorama mondiale che si profila all’orizzonte del 2012, influenzato direttamente dalle Rivolte, evento di svolta e futura chiave di lettura degli avvenimenti del XXI secolo. La conferenza, orientata specialmente sull’influenza delle rivolte nel settore vicino e medio orientale e nordafricano, inizierà alle ore 16:00 presso le sale della Biblioteca Provinciale di Fontenuova (Roma), in Via Machiavelli. L’evento propone una discussione non solo utile, ma fondamentale per la nostra epoca, perché gli esperti possano formulare una corretta interpretazione del caso “Primavera Araba”, inserendolo coerentemente nel profilo unitario della storia globale, e prevedendone i diretti risvolti geopolitici, geoeconomici e sociali.

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Il declino degli Stati Uniti

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Nel 1987 Paul Kennedy pubblicava il suo libro “The rise and fall of the great powers”. In esso, egli presagiva che gli Stati Uniti erano destinati al declino a causa dell’eccessiva spesa militare e della conseguente diminuzione degli investimenti sulla crescita economica. Kennedy non era l’unico a esprimere una certa ansia sullo status della superpotenza del “mondo libero”; il cosiddetto declinismo, alla fine degli anni Ottanta, dominava il mondo accademico statunitense. La caduta di lì a breve del muro di Berlino, seguita dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, tuttavia, rese il declinismo démodé. Gli anni Novanta si aprivano con un panorama internazionale caratterizzato da un’omogeneità ideologica prima impensabile. In quanto unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti erano i principali beneficiari di questa situazione. Molti intellettuali e governanti statunitensi, tuttavia, cedettero alla tentazione di interpretare il “momento unipolare” in modo trionfalistico: fu così rispolverato il sogno del “Secolo americano”, cioè della trasformazione del mondo a propria immagine e somiglianza. La politica estera delle amministrazioni Clinton e Bush figlio – quest’ultima limitatamente al periodo post-9/11 – di fatto condivideva tale fine, ma differiva nella modalità della sua implementazione generale: possiamo dire che l’approccio di Clinton considerava l’allargamento democratico come naturale conseguenza dell’allargamento del capitalismo globalizzato, mentre l’approccio di George W. Bush considerava l’allargamento democratico come naturale conseguenza della rimozione di regimi oppressivi. Il fallimento di entrambi gli approcci è evidente: da un lato la Cina ha dimostrato – almeno fino a ora – che la liberalizzazione economica non porta necessariamente a una liberalizzazione politica, mentre dall’altro i casi afgano e iracheno hanno dimostrato che la democrazia non sorge spontaneamente ovunque. Dopo quasi due decenni di “complesso di superiorità”, i limiti del potere statunitense sono ritornati prepotentemente alla luce e, con essi, il declinismo è tornato di moda, tanto che potremmo dire che oggi esso pervade quasi tutte le analisi sulla posizione degli Stati Uniti nel mondo.

In parte, il rinnovato declinismo risponde ai fallimenti della politica estera sopra citata. Vi sono, tuttavia, anche degli elementi concreti che permettono di parlare di declino americano e che si riferiscono in particolare alla forza economica relativa degli Stati Uniti. L’aspetto fondamentale su cui si basa l’esercizio del potere da parte di uno Stato è infatti la sua prosperità economica. Senza la creazione di capitali all’interno della nazione, è certamente difficile creare un esercito competitivo o avere sufficiente autorevolezza per promuovere i propri interessi davanti alla comunità internazionale. Il rapporto tra potere e forza economica non è automatico; tuttavia, il ridimensionamento di quest’ultima è un campanello d’allarme per la perdita di potere di uno Stato. Sotto questo punto di vista, saremmo effettivamente tentati di dire che la distribuzione della forza economica mondiale tende verso una riduzione consistente del vantaggio che gli Stati Uniti detengono da decenni. Se confrontiamo il grafico su base annuale del PIL mondiale con quello degli Stati Uniti, notiamo che quest’ultimo contribuisce sempre meno alla ricchezza mondiale (ovviamente, in termini relativi). È ben vero che tale processo strutturale è in atto fin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Da un decennio a questa parte, tuttavia, potremmo essere arrivati a un punto di svolta, e ciò soprattutto per una causa esterna e, in parte minore, per una causa interna.

La causa esterna si riferisce alla rapida crescita dei cosiddetti BRICS, e in particolare della Cina. Più volte in passato si è previsto il superamento dell’economia statunitense da parte di potenziali competitori economici come il Giappone; questi, tuttavia, hanno finito per fermarsi ben al di sotto degli Stati Uniti in termini di ricchezza prodotta. Vi è tuttavia una forte differenza tra questi “vecchi” competitori degli Stati Uniti e i nuovi: la maggior ampiezza della popolazione permette di mantenere bassi i costi del lavoro più a lungo e quindi dà prospettive di una più prolungata crescita economica. L’Economist Intelligence Unit prevede che il sorpasso del PIL cinese su quello americano, a parità di potere di acquisto, avverrà già nel 2016. Questo risultato storico avrà di sicuro delle ripercussioni sulla posizione relativa dei due Paesi, e l’amministrazione Obama, con la sua recente politica estera, sembra essersene accorta.

La causa interna, invece, riguarda il rallentamento della crescita economica statunitense nell’ultimo decennio, e in particolare negli ultimi tre anni. La crisi apertasi con lo scoppio della bolla immobiliare nel 2007 è considerata la peggiore dagli anni Trenta. Le sue radici – e anche la sua persistenza – sono in buona parte imputabili all’incapacità della classe politica nordamericana. La deregolamentazione finanziaria promossa fin dagli anni Ottanta e la politica monetaria seguita dalla FED nei primi anni Duemila, infatti, hanno entrambe favorito la creazione delle condizioni alla base della crisi. A crisi scoppiata, poi, le autorità politiche hanno provveduto a rimettere in salute il settore finanziario tramite la spesa pubblica e hanno tentato invano per tre anni di stimolare l’economia tramite politiche espansive; i risultati sono stati una forte crescita dell’indebitamento pubblico e un fallimento nel rilancio consistente della crescita economica. Il settore finanziario, che negli ultimi decenni ha promosso la deregolamentazione. sommergendo la politica di finanziamenti elettorali e che è il responsabile principale della crisi, ha invece visto aumentare i suoi profitti e, sempre grazie alla sua forte influenza politica, è riuscito ad impedire l’approvazione di una riforma che riporti una regolamentazione consistente nel settore. L’economia nordamericana si trova quindi ancora oggi dipendente da poche enormi istituzioni finanziarie che rimangono troppo grandi e troppo politicamente influenti per essere lasciate fallire, il che aumenta il rischio del futuro ripresentarsi di una simile crisi.

Come è evidente dal quadro descritto, questa incapacità della politica americana non ha solo un aspetto “politico-economico”, ma anche un aspetto “politico-morale”; vale a dire, essa non è dovuta solo a scelte sbagliate in materia di politica economica, ma anche – e, direi, soprattutto – a un sistema politico che permette alle corporations e agli strati più agiati della società di favorire i propri interessi sull’arena politica tramite l’iniezione di ingenti somme di denaro nei partiti e nelle candidature a essi favorite. Tale aspetto morale non è certo una novità nel sistema politico degli Stati Uniti, ma i limiti che il fenomeno una volta aveva sono stati progressivamente ridotti, col risultato che la politica appare sempre più incapace di percepire quali sono gli interessi del Paese al di là degli interessi privati promossi dai propri finanziatori.

Come esempio di questa degenerazione politica, si considerino due recenti eventi e le loro conseguenze. Il primo evento è la sentenza della Corte Suprema Citizens United v. FEC, decisa a gennaio 2010. Essa ha proclamato che la partecipazione finanziaria delle imprese alle campagne elettorali rientra nella libertà di espressione e, di conseguenza, che le limitazioni a tale “libertà di spendere” sono incostituzionali. Come risultato, alle elezioni di midterm del 2010 si è raggiunto il massimo storico in termini di spesa elettorale da parte di gruppi esterni ai partiti, con una fortissima crescita rispetto alle precedenti elezioni analoghe del 2006. Secondo uno studio, inoltre, i candidati al Congresso che hanno vinto il seggio avevano ricevuto in media il 280% dei fondi ricevuti dai candidati perdenti. Il secondo evento è l’affermazione del movimento Tea Party alle elezioni dello stesso anno. Il Tea Party è nato come una protesta sociale della classe media bianca, religiosa e conservatrice delle suburbs contro un governo centrale percepito come distante dai propri interessi e dai propri valori. Esso, tuttavia, porta avanti un programma economico ultraliberista che favorisce le classi agiate e le grandi corporations. Non è tutto: i ‘tea partiers’ hanno applicato alla propria visione politica ed economica lo stesso tipo di fanatismo che i fondamentalisti evangelici applicano alla Bibbia. Il Partito Repubblicano – ma anche il parlamento – si trova così ostaggio di un gruppo di zeloti che ha spostato il discorso politico verso proposte economiche tanto ridicole quanto radicali, come è ben evidente nei dibattiti tra i candidati alle primarie presidenziali (si consideri come esempio il piano “9–9–9” di Herman Cain).

Insomma, possiamo dire che gli Stati Uniti si trovano di fronte a un declino strutturale anticipato dalla diminuzione dell’importanza relativa della loro economia. Tale diminuzione deriva soprattutto dalla forte crescita della Cina e di altri Paesi, ma in parte deriva anche dalla crisi economica che le autorità degli Stati Uniti hanno contribuito a creare e sembrano incapaci di risolvere. La principale ragione per questa mancanza è la degenerazione della politica americana, oggi più che mai preda di interessi economici particolari.

 

*Andrea Casati è dottore magistrale in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

 

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La morte di Gheddafi e il volto degli USA

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Aleksandr Dugin, filosofo e geopolitico russo, è professore ordinario di Sociologia delle Relazioni Internazionali all’Università Statale di Mosca “M.V. Lomonosov”. Proponiamo di seguito la traduzione italiana d’un suo intervento alla televisione russa, a proposito della morte di Mu’ammar Gheddafi. A suo giudizio, essa ha cambiato bruscamente l’immagine morale dell’Occidente – la ferocia con cui egli è stato eliminato, le esultanze che il fatto stesso ha provocato nell’élite americana, le «sanguinarie» dichiarazioni di Hillary Clinton… La traduzione dal russo è stata realizzata da Konstantin Zavinovskij.

 

Gli esperti di relazioni internazionali, i geopolitici, i sociologi e gli storici non hanno visto in tutto ciò niente di nuovo. Gli USA stanno agendo nel proprio interesse – esportano la democrazia. I realisti parlano apertamente della volontà di dominare, della necessità di sottomettere tutti coloro che non condividono la loro egemonia. I liberali spiegano che le democrazie non entrano in guerre… contro altre democrazie. Tuttavia, com’è evidente dai fatti, con tutti gli altri gli USA combattono fino all’ultima goccia di sangue – fin quando non rimarranno che Stati democratici. Su queste premesse è organizzata la politica estera statunitense… Benché questo è chiaro soltanto agli addetti ai lavori.

 

Per la maggior parte dell’opinione pubblica mondiale, invece, gli statunitensi erano persone che rappresentavano l’umanitarismo e giravano i film a lieto fine, insomma, erano persone pure, sincere, allegre e di buon animo. Ma quello che è accaduto in Libia – gli scherni «ricercati» di Gheddafi, il suo corpo in mezzo a un centro commerciale – ha lasciato la gente di stucco. Milioni di persone in tutto il mondo non erano pronte per questa nuova immagine dell’assetto internazionale.

 

Gheddafi non era poi così tanto nemico degli USA. Egli non era neanche una minaccia per la sicurezza nazionale statunitense. Non bisogna sopravalutare il peso di questo piccolo paese in un forte isolamento dagli altri Stati arabi. Certo, c’è il petrolio. Tuttavia, vale davvero la pena impiegare le forze aeree della NATO, uccidere il leader legittimo di uno Stato e falsificare chiaramente i fatti in tutte le fasi della campagna militare al solo scopo di spartirsi l’influenza nel settore petrolifero? Secondo me, no. Io, però, già da tempo conosco che cosa sono gli Stati Uniti, compresi la loro rete d’influenze e i doppi standard dei liberali – tra l’altro, gli USA stessi non nascondono i propri modi di agire (basta leggere alcuni testi ufficiali) –, ma per un semplice e ingenuo cittadino della comunità globale, suscettibile alla propaganda dei mass media internazionali, è stato un vero choc. Dal punto di vista morale gli USA hanno perduto completamente il diritto di accostarsi anche lontanamente agli ideali a nome di cui essi agirebbero. Tutti hanno capito che la democrazia è una scusa per imporre in modo molto crudele le proprie regole di gioco. Se il cadavere profanato di Gheddafi esposto agli occhi del mondo intero rappresenta i diritti umani, l’umanitarismo e i valori democratici, allora il mondo si è rigirato sottosopra. Vuol dire che nero è diventato bianco e il diavolo degli inferi è diventato un angelo del paradiso.

 

Non vorrei parlare ora delle cause politiche di questo problema. Sì, ce n’erano – sia esterne sia interne al paese. E non vorrei parlare del fatto che in Libia si continua a versare sangue, mentre il Consiglio nazionale di transizione non riesce a prendere in mano la situazione poiché non ci sono reali ragioni politiche a parte quelle degli elicotteri della NATO e non c’è niente che unisca questa banda di sporchi mercenari.

 

Anche nella società russa ci sono persone che cercano di dimostrare fino all’esasperazione che la civiltà occidentale rappresenta l’espressione più alta dei diritti umani, della cultura e della bontà. Certo, loro possono continuare a farlo, ma ai nostri occhi e agli occhi della gran parte della comunità internazionale queste persone dal punto di vista morale hanno perso il diritto di esistere. A volte la durezza diventa insopportabile, ma non perché è troppo crudele… Gli USA sono crudeli, fanno leva sulla forza e probabilmente è anche normale – lo fanno anche nella loro politica interna. La gente accetta il trionfo della forza. A volte ciò provoca uno stato di angoscia e di depressione, in alcuni anche il desiderio di ribellione, in altri invece la necessità di rassegnarsi. Ma è inaccettabile quando alla violenza vengono aggiunte anche menzogne indecenti che speculano sui migliori sentimenti umani. Quando l’amore diventa odio, la guerra diventa pace e la libertà diventa violenza. Scusate, ma vivere in un mondo globalizzato con a capo gli Stati Uniti e fondato sulla combinazione di forza bruta e sporche menzogne – no, grazie. Il desiderio è di non fare più parte di un mondo siffatto oppure di cambiarlo radicalmente.

 

Così questa vicenda supporta coloro che parlano della necessità della rivoluzione globale. Il livello dell’infamia segna rosso. Da una parte c’è Obama con il suo Premio Nobel per la Pace, dall’altra invece le sue guerre e la faccia moribonda di Gheddafi. Tra l’altro, questo modello – la forza bruta combinata alle menzogne – viene fatto proprio anche dai leader di altri Stati. Oggi, però, nella gente questo atteggiamento provoca un solo desiderio, il desiderio di non fare più parte di questo sistema. Il mondo esige la ribellione.

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L’IsAG alla conferenza di Parigi su Russia, Europa e giornalismo

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L’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), di cui Eurasia è la rivista ufficiale, sarà rappresentato dal presidente Tiberio Graziani (direttore di Eurasia) alla conferenza internazionale “Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism“, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa e dall’Agenzia Federale delle Comunicazioni, che si svolgerà a Parigi, presso il Radisson Blu Ambassador Hotel, il 24 e 25 novembre.Durante la conferenza si discuterà del rapporto tra interesse nazionale e giornalismo internazionale, dell’accesso alle informazioni per i media europei e russi, della parte giocata dai media nelle relazioni internazionali, nonché di diritto internazionale ed etica giornalistica. 

La conferenza sarà aperta da João Soares, presidente emerito dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE, e vedrà la partecipazione, oltre che del presidente Graziani, di Michael Peters (direttore di Euronews), Marek Halter (romanziere francese), Heitor Romana (docente all’Università di Lisbona), Henrikas Iouchkiavitchious (assistente direttore generale all’UNESCO), Anis H. Bajrektarevic (docente all’Università IMC Krems), George Protopapas (analista del RIEAS), Piotr Fedorov (capo delle relazioni estere di VGTRK, società statale radiotelevisiva russa) ed altri ancora.

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L’IsAG all’VIII Forum di Dialogo Italo-Turco

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Aldo Braccio, Pietro Longo e Daniele Scalea rappresenteranno l’IsAG, l’istituto di cui Eurasia è rivista ufficiale, all’VIII Forum di Dialogo Italo-Turco, organizzato dal Centro di Ricerca Strategica del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Turca (SAM) e da Unicredit (in collaborazione con “East” e IAI), che si svolgerà a Istanbul, presso l’Hotel Hilton, il 24 e 25 novembre prossimi. Il Forum si tiene ogni anno, alternativamente a Roma e Istanbul, per rinforzare i rapporti bilaterali tra i due paesi mediterranei.

Il Forum si articolerà in due sessioni, una a porte aperte ed una a porte chiuse.
La sessione a porte aperte tratterà del tema “Ripensare il futuro del Mediterraneo alla luca della Primavera araba”. Interverranno, tra gli altri, i ministri degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata e Ahmet Davutoglu.
La sessione a porte chiuse tratterà invece di “Contributo della società civile e proposte per rilanciare il processo d’associazione alla UE della Turchia”. Presieduta da Stefano Silvestri (presidente dello IAI) e Fuat Keyman (direttore del Centro Politico di Istanbul, Università Sabanci), vedrà dibattere esperti turchi ed italiani. Tra i 58 esperti italiani, oltre ai tre rappresentanti dell’IsAG (A. Braccio, P. Longo e D. Scalea), vi saranno anche i parlamentari Pietro Paolo Amato, Emma Bonino e Lapo Pistelli, oltre a docenti universitari e rappresentanti di centri di ricerca indipendenti.

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